“Mentre si prepara a difendersi contro una causa da molti miliardi per violazione di brevetti in Europa,” dice Apple Insider, “la Apple si è allineata alle posizioni della rivale Google nel chiedere alla corte suprema americana pene più severe per i patent troll responsabili di cause frivole.”
Era ora. Il problema della Apple, però, è che non esiste una causa relativa ad un brevetto… o un brevetto, se è per questo… che non sia frivola (“superficiale, vuoto, che dimostra scarsa serietà”).
È vero che le controversie legali sui brevetti sono diventate sempre più visibilmente sciocche negli ultimi anni, ma come protagonista principale in fatto di sciocchezze (che tra le altre idiozie ha chiesto – e ottenuto! – il brevetto per dispositivi rettangolari con spigoli arrotondati) la Apple non ha molte ragioni per lamentarsi. In questo articolo non c’è abbastanza spazio per esaminare tutte le stupidità in fatto di “proprietà intellettuale” della Apple, ma vediamone due:
Il famoso Macintosh cominciò come copia perfetta, dall’interfaccia alle periferiche (mai sentito parlare di un “mouse”?), del terminale Xerox Star del 1981. E poi: Per qualche tempo denunciò (prima di raggiungere un accordo) la Amazon riguardo il “diritto” ad usare le parole “app store”. Certo che è microscopica la lacrimuccia che merita l’indignazione della Apple per i “patent trolls”.
Anche quando i brevetti si limitano al loro fine dichiarato (come dice la costituzione americana, “assicurare agli inventori, per un periodo limitato, il diritto esclusivo alle loro scoperte”) sono comunque una pessima cosa. Dire che qualcuno può possedere un’idea è dichiaratamente sciocco. Nessuno ci farebbe caso se non ci fosse lo stato ad imporlo con la forza.
Ma il vero fine dei brevetti non è quello dichiarato.
Il vero fine è: restringere la concorrenza e limitare l’innovazione così da dare un vantaggio economico – un vero e proprio potere di monopolio sul prezzo – a quelle imprese che, grazie alla loro capacità di comprare politici, burocrati e giudici (scusate il mio linguaggio rozzo, forse il termine adatto è “fare lobby”), possono realizzare il desiderio di scansare la concorrenza del mercato in materia di prezzi o qualità.
Qualche decennio fa, lavorai per una nota fabbrica di imbarcazioni. Un’estate, passai diverse settimane come tuttofare – tirare in secca e rimettere in acqua le barche, quel genere di cose – per conto del nuovo designer della società, che stava assemblando un prototipo che fosse “abbastanza diverso” dall’ultimo modello che aveva progettato (per un’altra ditta) per evitare (o almeno contrastare efficacemente) una denuncia. Io non so quanto influisse questa roba del “rispetto dei brevetti” (e i conseguenti ricorsi) sul costo di ogni imbarcazione prodotta, ma non c’è dubbio che influiva sul prezzo finale.
In altre parole, i brevetti sono una tassa indiretta imposta ai consumatori. Chi ha il monopolio di un brevetto può fare prezzi più alti perché lo stato sopprime la concorrenza per lui. Ma anche quando la concorrenza riesce a portare sul mercato un prodotto, quel prodotto è più caro perché comprende il costo della licenza, o la ricerca di un brevetto alternativo, o ancora di un’assicurazione che protegga dai ricorsi.
La protesta della Apple, in sostanza, è che i “patent troll” si limitano a comprare “diritti” di brevetto per poi andare alla ricerca di infrazioni sulle quali incassare, invece che prendersi la briga di produrre qualcosa di reale. Dopotutto, perché dovrebbero farlo? Se, come vorrebbe far credere la Apple, i brevetti sono uno strumento legittimo di mercato, allora i “troll” stanno semplicemente sfruttando lo strumento in maniera più efficiente della Apple, no?
Per concludere, il problema non sono i “patent troll”. Il problema sono i brevetti.