Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 20 luglio 2024 con il titolo Walter Block: Once Again Defending the Undefendable — Part II. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.
Nella puntata precedente parlavo di Walter Block e della sua difesa reiterata del “contratto di schiavitù volontaria”, uno dei tanti casi in cui Block presenta come “spontanei” certi fatti economici, ignorando le violenze sistemiche o di fondo che li rendono possibili.
Non solo. Non più di un anno ha scritto in difesa di fenomeni come la “moda veloce” (fast fashion) e il patto di non concorrenza. E lì, a chi accusava chi (nel terzo mondo) produce moda veloce di sprecare acqua e altre risorse, Block rispondeva:
Ma i fornitori [di acqua, NdT] accettano volentieri fino all’ultimo centesimo che ricevono dalle industrie del settore. Perché? Perché questi fornitori sono consenzienti. È piuttosto strano che si accusi chi compra troppa [acqua] se la possibilità di comprare viene da chi la vende. Voglio dire, è ovvio che hanno ragione ad accaparrare l’H2O. È un diritto che gli viene dai loro dollari sulla base della sovranità del consumatore. Similmente, aziende di successo come Microsoft, Toyota, McDonalds o Walmart hanno tutto il diritto di comprare tutto ciò che gli va, compresi beni immobiliari, materie prime, negozi e, sì, acqua.
A chi li accusa di sfruttare i lavoratori, Block risponde dicendo che i padroni degli sweatshop lo fanno semplicemente perché possono farlo, esattamente come farebbe chiunque.
Chi fa abbigliamento non ha colpa se cerca di migliorare le proprie condizioni economiche. Caro lettore, a parità di condizioni, rinunceresti ad un lavoro (o ad un investimento) molto remunerativo per accettarne uno peggiore? Pagheresti di più per un idraulico, un falegname, un elettricista, quando puoi pagare meno per lo stesso lavoro? O una casa, o un’auto? Credo di no.
E poi, aggiunge, come fa il lavoro ad essere troppo pesante se i profitti di uno sweatshop sono relativamente bassi?
Altro problema per chi accusa è che le aziende del ramo non fanno tutti quei profitti che ci si aspetterebbe se molti dipendenti fossero drasticamente sottopagati. Cito da fonte interna: “L’industria dell’abbigliamento non fa grandi profitti. Molti pensano che renda miliardi all’istante. In realtà, i margini di profitto sono notoriamente bassi. Secondo analisti del settore, tra il 4% e il 13%.”
E poi, aggiunge infine, i lavoratori non possono essere sottopagati, per definizione, perché il salario “tende a riflettere la produttività marginale”.
Quanto alle clausole di non concorrenza, secondo Block se il lavoratore firma liberamente è perché le ritiene positive, altrimenti direbbe di no.
Il fatto che si firmi il contratto dimostra chiaramente che entrambe le parti ne traggono un beneficio, almeno in prospettiva…
Per prima cosa, nessuno è obbligato a firmare il contratto. E poi lo stipendio aumenta, non cala, se si sceglie di firmare. Dopotutto, si sta rinunciando ad esercitare un proprio diritto. Quando si rinuncia ad una possibilità, la paga aumenta, non diminuisce.
Dev’essere fantastico vivere nel magnifico, magico mondo immaginario, di Block, un mondo dove tutto è frutto di contratti “spontanei” tra pari e dove le differenze di potere non esistono. Vediamo invece in particolare quali rapporti di potere e quali disuguaglianze strutturali esistono nei vari casi difesi da Block.
Cominciamo dal “contratto di schiavitù volontaria”. Quando Block parla di effetti benefici per entrambe le parti, io penso (e lo penserebbe chiunque non sia un sociopatico, credo): ma che razza di società mostruosa è quella in cui le differenze di ricchezza, l’insicurezza economica, i costi proibitivi della sanità e l’assenza totale di associazioni mutue e di solidarietà spingono una persona a vendersi come schiavo per pagare le cure tumorali di sua moglie? A ragione o a torto, gran parte dei libertari pensa che il proprio mondo ideale in termini di standard di vita e di sanità sarebbe molto meglio di quello attuale, con una sanità alla portata di tutti e di qualità. Per contro, la società ideale ipotizzata da Block avrebbe un coefficiente gini così basso che al confronto un villaggio premoderno sarebbe come la Svezia. E dopo aver consciamente immaginato questa società, in cui una persona viene spinta a vendersi “volontariamente” come schiavo, ecco che descrive amorevolmente tutti i suoi aspetti più disumani, giù giù fino alle pattuglie che per profitto vanno a caccia di schiavi fuggitivi, con i padroni che hanno potere assoluto di vita e di morte sugli schiavi.
Quindi a proposito della moda veloce parla di produttori acquistano le risorse da “fornitori consenzienti”. Il che non significa proprio nulla. Sono tantissime le transazioni costrittive in cui i fornitori sono “consenzienti” ma una delle parti gode di privilegi o di un monopolio protetto dallo stato. Quando una grande azienda consuma risorse naturali, come terra, boschi, minerali, combustibili fossili e acqua, chi fornisce queste risorse solitamente è l’erede o l’assegnatario di un governo coloniale o insediativo che in passato ha espropriato le risorse che erano proprietà comune, oppure si tratta di uno stato post-coloniale che ha espropriato gli espropriatori e amministra le risorse senza tener conto della popolazione. Parliamo, insomma, di furfanti aziendali collusi con personaggi illeciti, pubblici o privati. al fine di pompare acqua in quantità insostenibili da fonti che sono di diritto risorse comuni della popolazione locale. Caso tipico è quello della Nestlè e di altre industrie d’imbottigliamento, che razziano acqua in collusione con i gestori dell’acqua locali.
Dire che le “aziende di successo… hanno il diritto di comprare tutto quello che gli va,” non è affatto ovvio come pensa Block. L’asserzione dà per scontato che sia la ricchezza dell’acquirente che la proprietà del venditore siano legittimi. Ripeto: in tutto il mondo gran parte dei “diritti di proprietà” della terra e delle risorse naturali ha origine da concentrazioni, espropri, razzie o chiudende.
Quando dice che non può esserci sfruttamento perché i profitti sono bassi, Block confessa la sua ignoranza sul vero funzionamento dell’economia mondiale. Gli sweatshop rientrano nelle catene logistiche globali in un quadro aziendale. Possono essere nominalmente indipendenti, ma di fatto sono integrate verticalmente sotto il controllo delle vecchie società industriali occidentali. Le quali appaltano in parte, tutta o quasi tutta la produzione di merci a questi sweatshop, ma mantengono di fatto il monopolio legale della vendita grazie al possesso della proprietà intellettuale e dei finanziamenti. Le aziende spremono al massimo i loro fornitori, e i fornitori sfruttano senza pietà i loro lavoratori. Sappiamo che le catene logistiche spingono i venditori a tagliare il più possibile i costi, ma la merda va a chi sta più in basso, come si dice. È vero che i lavoratori degli sweatshop sono sfruttati, ma chi guadagna di più non sono i padroni degli sweatshop bensì le multinazionali che appaltano loro la produzione.
Quanto alla teoria secondo cui i salari riflettono la produttività marginale del lavoratore, come tutto il programma marginalista non è che il tentativo di far apparire come neutre le relazioni di potere, nascondendo i rapporti di forza insiti nelle relazioni di scambio. Come dico altrove, “la produttività marginale ha valore solo se non si tiene conto di tutto il contesto fatto di diritti di proprietà e di strutture di potere. Se non si tiene conto di questo contesto, il concetto perde gran parte del significato pratico.” Fa parte di un vecchio programma di spoliticizzazione dell’economia politica. Così scrivono Ernesto Screpanti e Stefano Zamagni in An Outline of the History of Economic Thought:
Dopo aver rimosso tutte le connotazioni sociopolitiche dal problema distributivo, così da poter dimostrare che ogni soggetto riceve una quota del reddito nazionale proporzionale al suo contributo personale…
…una regola generale come quella della produttività marginale sembra soddisfare due principi fondamentali: il principio dell’efficienza, dato che si esclude la possibilità che risorse improduttive possano rientrare nella distribuzione del reddito e possano continuare ad essere prodotte; e il principio di equità, poiché dà un’apparenza di legittimità al fatto che ogni agente riceva un guadagno in rapporto a ciò che contribuisce a produrre. Insomma, la distribuzione del reddito finisce per essere governata da un “diritto naturale” che rende ad ogni agente quella ricchezza che ha contribuito a produrre. Parlare di sfruttamento, in questo contesto, diventa insignificante.
Lo scambio di mercato e il libero contratto non sono più norme innocenti che stabiliscono la distribuzione dei guadagni ai vari “fattori di produzione” secondo la loro produttività; è invece la produttività stessa che viene ridefinita in termini di una preesistente distribuzione del potere. In altre parole, la “produttività marginale” è un concetto tautologico che giustifica la distribuzione del reddito tra gli attori economici in proporzione al loro potere. La teoria della produttività marginale considera come un dato di fatto la proprietà dei “fattori di produzione”, quindi spiega come il prodotto viene distribuito tra i vari attori proporzionalmente al loro “contributo” (ovvero, in proporzione a quanto contribuiscono al prezzo di un bene finito). Ma questo contributo corrisponde sostanzialmente a quello che le varie parti riescono ad imporre per i propri “servizi”, il che a sua volta dipende dal loro potere contrattuale e dalle loro relazioni istituzionali di potere. È chiaro quindi che non si tratta di salario e tasso di profitto che riflettono la “produttività marginale” rispettivamente del lavoratore e del capitale, ma della “produttività marginale” che è determinata dal loro relativo potere contrattuale. La “produttività marginale” di un “fattore”, come hanno dimostrato economisti istituzionali come Thorstein Veblen e John R. Commons, equivale semplicemente al suo potere.
Quanto alle clausole non concorrenza, è altrettanto insensato dire che il lavoratore aderisce spontaneamente, e che non lo farebbe se non ne avesse un beneficio. Nessuno gli punta la pistola contro, il datore non lo minaccia, dunque il lavoratore sceglie “spontaneamente”… ma altrettanto spontaneamente sceglie di andare all’ufficio postale per spedire una lettera. La gente sceglie tra possibilità. Ma chi stabilisce cosa è possibile scegliere? Oggi chi possiede e controlla le opportunità economiche e l’accesso ai mezzi di produzione è l’erede di fatto di una massiccia concentrazione della ricchezza che non solo è stata storicamente prodotta con le chiudende e con altre forme di esproprio che hanno fatto da atto fondante del capitalismo, ma che negli anni si è moltiplicata grazie ad un’accumulazione composita frutto di rendite passive grazie a fittizi diritti di proprietà protetti dallo stato.
Dato che il datore può artificiosamente controllare le opzioni disponibili grazie a tanti meccanismi storico-istituzionali illeciti, va da sé che il lavoratore accettando la clausola di non concorrenza “trae un beneficio”: l’alternativa sarebbe la disoccupazione. Block ama distribuire accuse di “analfabetismo economico”, come vediamo negli articoli citati, ma anche lui in questo caso non scherza.
Ci sono poi dei casi in cui Block non si limita a difendere la violenza di sfondo, ma approva la violenza apertissima dello stato, come nel caso della sua presunta difesa degli espropri al fine della gentrificazione (da notare che tra i principali attori della gentrificazione mette studenti benestanti e “omosessuali”):
Chi sono i principali colpevoli di questa triste vicenda? Gli studenti che dispongono, loro o le loro famiglie, di più soldi rispetto agli altri. Quando arrivano le olimpiadi, si sfollano interi quartieri per costruire stadi, piscine, campi da gioco e così via. Idem per le esposizioni internazionali. Anche qui è fin dall’Ottocento che, volente o nolente, la gente viene traslocata. Comunità e culture fiorenti vengono sradicate. Lo so che è politicamente scorretto dirlo, e noi tremiamo all’idea di dirlo tanto rispettiamo i moderni comandamenti, ma la colpa in questo caso è soprattutto degli omosessuali.
A sua discolpa posso solo dire che Block è chiaramente così ottuso da non vedere il ruolo dello stato in questi sfollamenti. Ecco un altro passaggio, ugualmente interessante, dello stesso articolo:
Chi si oppone alla gentrificazione è sempre un po’ troppo ignorante in fatto di economia. Prima di tutto, è la libertà economica che crea la “ricchezza della nazioni”, come spiegava chiaramente Adam Smith nel 1776. Chi a ragione si preoccupa per i poveri e vorrebbe eliminare la povertà deve capire che opporsi alla gentrificazione è un attacco contro il mercato. Si colpisce l’economia al punto che la gente non è è più libera di comprare e vendere, di “barattare e scambiare”.
Paradossalmente, Block cita Adam Smith a sostegno degli affitti esorbitanti e degli espropri. Perché proprio Smith vedeva nei padroni un esempio primario di rendita parassitaria (più in generale, secondo l’economia politica classica la rendita terriera era l’esempio originale, paradigmatico di rendita parassitaria).
Come abbiamo visto in diversi casi, quando si tratta di ignorare le reali relazioni di potere insite nell’economia capitalista Walter Block è disposto ad ingoiare un rospo grande come una casa. Ma ci sono dei casi particolarissimi in cui diventa molto pignolo: quando lui stesso è coinvolto. Quando l’oppresso è lui, Block diventa improvvisamente molto solidale con gli oppressi (anche quando sono vittime di uno di quegli atti che altrimenti definirebbe innocenti). È il caso della querela per calunnia intentata contro il New York Times, il quale avrebbe distorto il suo “non così malvagio” commento sulla schiavitù. E questo nonostante abbia dedicato un intero capitolo del suo libro Defending the Undefendable a dimostrare il diritto di calunniare e diffamare:
Una persona non ha una reputazione, non più di quanto non possieda le opinioni altrui, perché la sua reputazione questo è… Può dire che gli è stata “presa” lecitamente o meno, dicendo il vero o il falso, ma non possiede una sua reputazione e dunque non può chiedere un risarcimento per legge. Cosa significa allora impedire o vietare la calunnia? Significa impedire che qualcuno influenzi, o cerchi di influenzare, il pensiero altrui. Ma la libertà di parola è proprio la libertà di influenzare il pensiero altrui. Dunque calunnia e diffamazione sono coerenti con la libertà di parola.
Block, a quanto pare, non afferra affatto il concetto di potere strutturale… se non quando lui stesso è coinvolto in una controversia. A sentire lui, padroni, multinazionali, datori di lavoro, sono tutte entità del libero mercato che fanno i loro soldi in virtù del loro contributo al benessere sul libero mercato. Tutte tranne il New York Times.
Che è in combutta con lo stato fino al midollo:
In base a cosa ho querelato il New York Times per calunnia? Semplice: perché la regola libertaria secondo cui c’è libertà di calunniare vale solo per persone innocenti, e questo giornale non lo è affatto. Questa organizzazione è in ottimi rapporti con la classe di potere, e contro criminali di questa risma tutto è lecito. Contro chi infrange la legge libertaria è lecito anche l’uso della forza. È il caso di Ragnar Danneskjold, l’eroico pirata de La rivolta di Atlante, che giustamente secondo me attaccava le navi dello stato. Supponiamo che Ragnar per qualche ragione non fosse in grado di attaccare fisicamente le navi, ma solo di querelarle per calunnia. Avrebbe fatto bene a querelare? Secondo la mia interpretazione della filosofia libertaria, sì.
Fate ora un confronto tra questa raffinata analisi della funzione del New York Times in un sistema di potere statalizzato e la difesa dei redditieri tratta dal succitato articolo sulla gentrificazione:
Hanno torto a fare così? Certo che no. Se i ricchi hanno acquisito le proprie ricchezze onestamente e non grazie a concessioni statali o privilegi particolari, sussidi, salvataggi, insomma alla maniera del capitalismo clientelare, ma secondo i principi del capitalismo liberale, sono di beneficio per tutti più dei poveri.
Sembrerebbe semplice ipocrisia: Block finge di non vedere tutto l’insieme di privilegi di cui nel mondo reale godono ricchi e aziende; finché un giorno non litiga con una di queste. A ben vedere, però, si tratta di incoerenza intellettuale. Nel suo atto d’accusa infatti oltre al New York Times accusa tante altre aziende “clientelari” di far parte della classe di potere:
[B]uoni candidati a far parte della classe di governo sono: ABC, Alliant Techsystems, Archer Daniels Midland, BAE Systems, Blackhawk Industries, Blackwater, Boeing, CBS, Chrysler, Colt, Fox News, General Dynamics, General Motors, Goldman Sachs, Halliburton, KDH Defense Systems, Lenco, Lockheed Martin, Martin-Marietta, Monsanto, MSNBC, NBC, New York Times, Northrup-Grumman, Oshkosh Defense, Raytheon e Washington Post.
Ma qual’è il peccato specifico del New York Times? “Favoreggiamento dell’attività predatoria dello stato su larga scala”, ovvero fa da “macchina propagandistica dello stato”. In sostanza, qualsiasi periodico che in un modo o nell’altro appoggi una politica che Block, ex cathedra, in quanto antistatalista, giudica “statalista”, o che pubblica notizie o opinioni che in vario modo “favoreggiano l’attività predatoria dello stato”, merita una querela per diffamazione… o una randellata di Ragnar Danneskjold.
Meschinità, dirà qualcuno. Ma secondo i parametri stabiliti da Block fa parte della classe di governo anche chi “possiede titoli di aziende che svolgono attività fortemente disciplinate dallo stato, come radio, televisione e altro”. Se applichiamo questi parametri a tutte quelle imprese che ricavano il grosso dei loro profitti da incentivi statali, o da rendite, o da rendite monopolistiche da brevetti e copyright, o grazie a barriere d’ingresso o altre norme che limitano la concorrenza, finiamo per farci rientrare praticamente tutte le imprese di Fortune 500.
E dopo aver fatto la querela, Block è andato a scrivere che “l’istituto della querela è da abrogare.” Nota: non dopo aver eliminato tutte le “attività imprenditoriali” che favoreggiano lo stato. No, da “abrogare”. Senza se e senza ma. Che è come dire che Block contro il New York Times ha fatto ricorso a leggi ingiuste.
Secondo Block inoltre il New York Times rientrerebbe nella classe di governo anche perché ha fatto una donazione allo stato (ha donato i propri archivi ad una biblioteca pubblica). Se applichiamo gli standard di Walter Block, insomma, in tutto il mondo non esiste un’impresa che non rientri nella classe di governo. È istruttivo mettere a confronto i suoi ragionamenti contorti a giustificazione delle sofferenze altrui (fino all’autoschiavizzazione per pagare le cure e la mutilazione per chi prova a scappare) e i ragionamenti contorti con cui definisce malvagia e statalista un’azienda di cui lui stesso è vittima.
Incoerenza intellettuale, dunque. Oppure no. Perché per quanto i suoi ragionamenti sembrino confusi, a ben vedere seguono uno schema riassumibile così:
Regola principale: Quando un’azienda o un qualche altro attore economico fa qualcosa che secondo la mente di Block è lecito, come il lavoro infantile o lo sfruttamento, o l’acquisto di esseri umani tramite contratto di “schiavitù volontaria”, si tratta di attori del libero mercato che compiono azioni spontanee. Con due eccezioni:
1. Se è dimostrato che il modello aziendale o i profitti sono frutto di una collusione con lo stato, o se dipendono in vario modo dall’azione dello stato, si tratta (teoricamente, almeno) di “capitalismo clientelare” che trae beneficio da un’illecita posizione di potere. Ma basta un attimo di distrazione e secondo Block tornano ad essere virtuose attività di libero mercato da difendere. Ma…
2. Se fanno qualcosa che fa incazzare Walter Block, come ha fatto il New York Times, allora tornano nel girone dei “clientelari” fino al giudizio universale e anche oltre.
Più in generale, però, si può tranquillamente affermare che per Block tutto quello che fanno i datori di lavoro, i padroni, le imprese è “libero mercato”, e che le vittime “aderiscono spontaneamente”.
Insomma, Walter Block è un caso esemplare di quella tendenza al “libertarismo volgare” che ho descritto per la prima volta una ventina d’anni fa:
I libertari volgari apologeti del capitalismo danno all’espressione “libero mercato” un significato ambiguo: sembrano incapaci di ricordare, da un momento all’altro, se stanno difendendo i principi del libero mercato o il capitalismo esistente. È così che arrivano a scrivere articoli chiusi, standardizzati, in cui sostengono che i ricchi non possono arricchirsi a spese dei poveri perché “non è così che il libero mercato funziona”, dando per scontato che questo che abbiamo sia libero mercato. Se costretti, ammettono a denti stretti che l’attuale sistema non è un libero mercato, e che lo stato interviene spesso a favore dei ricchi. Detto questo, però, tornano a difendere le ricchezze delle aziende sulla base dei “principi del libero mercato”.
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