Marx, il Conflitto, le Cooperative

Di Eric Fleischmann. Originale pubblicato il 21 dicembre 2021 con il titolo Marx, Conflict and Cooperatives. Traduzione di Enrico Sanna.

Marx e Engels nel Manifesto dicono: “la storia dell’umanità non è che una storia di lotte di classe. Uomini liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi, oppressori ed oppressi, in opposizione costante, hanno condotto una guerra ora aperta e ora dissimulata…” La storia dell’umanità è dunque la storia di un conflitto istituzionale. All’interno del capitalismo, questo conflitto è sostanzialmente un conflitto tra classe capitalista e classe lavoratrice, che nella quotidianità diventa una lotta tra lavoratori e padroni all’interno della struttura aziendale capitalista e, come sottoinsieme di questa relazione di fondo, tra lavoratori di paesi diversi come risultato della delocalizzazione, e tra lavoratori e macchine in conseguenza dell’automazione e dello sviluppo tecnologico. Come dice l’economista marxiano Richard Wolff nel suo libro Democracy at Work: A Cure for Capitalism, inseguendo la “massimizzazione dei profitti e un più alto tasso di crescita o una quota più ampia di mercato, … [il capitalista] licenzia lavoratori per sostituirli con macchine, oppure impone tecnologie che espongono il lavoratore a rischi per l’ambiente o la salute ma fanno crescere i profitti, o ancora sposta la produzione all’estero per sfruttare la manodopera a costi più bassi.” Per questo forse elemento comune a tutte le lotte anticapitaliste è l’intento di abolire questi conflitti. Sicuramente è questo l’intento dei movimenti per il lavoro cooperativo, e io qui vorrei delineare brevemente la loro proposta per la soluzione di tali conflitti con un libro prezioso, Take Back the Economy: An Ethical Guide for Transforming Our Communities del gruppo femminista di studi geoeconomici Gibson-Graham, nonché facendo riferimento alla teoria marxista in generale (con una spruzzata di libertarismo di sinistra). L’argomento è molto discusso, ma vale la pena tornare alle sue basi.

In un’azienda capitalista esiste un conflitto costante tra lavoratori e padroni. Questo perché gli interessi sono opposti. I lavoratori mirano a massimizzare i propri interessi con stipendi più alti e più indennità come l’assistenza sanitaria e la maternità. I padroni invece “impostano” l’attività in modo da massimizzare la competitività – conseguenza secondaria del tentativo di massimizzare i profitti e, molto più limitatamente, il problema della conoscenza nelle strutture gerarchiche – abbassando gli stipendi, delocalizzando l’attività e così di seguito.[1] Caratteristica fondamentale di questo conflitto è lo sfruttamento del lavoratore che si esplicita nell’estrazione di plusvalore. Quest’ultimo, come spiega Wolff…

“è il valore extra aggiunto dal lavoratore col suo lavoro – e preso dal datore di lavoro – rispetto al valore pagato con lo stipendio. Per dare dieci dollari l’ora al lavoratore, il datore deve ricevere più di dieci dollari di valore vendibile per ora. Il plusvalore è il guadagno del capitalista al netto dell’input diretto, del costo del lavoro e dei costi fissi necessari a produrre.”

Questo valore extra, data la proprietà privata dei mezzi di produzione, è un furto ai danni del lavoratore. Secondo Wolff, nell’ottica della “critica del plusvalore” questo è l’aspetto centrale del capitalismo, prima ancora dei mercati e dello scambio di merci. Così scrive: “nell’ottica della critica del plusvalore, ciò che definisce primariamente un sistema economico – ad esempio, il capitalismo – non è la proprietà delle risorse produttive o come risorse e prodotti sono distribuiti. L’aspetto chiave è invece l’organizzazione della produzione.” La questione si riflette nell’ingiuria quotidiana dei lavoratori. Come spiega Gibson-Graham con un esempio elementare: “I lavoratori pensavano che… i profitti finissero all’estero o che fossero stati bruciati in speculazioni finanziarie. La vita, il sostentamento dei lavoratori non potevano essere lasciati nelle mani dei padroni e dei dirigenti.” Molti padroni, poi, necessitano di uno staff che li rappresenti. E, cosa importante, i lavoratori non devono andare oltre le capacità basilari, il loro lavoro dev’essere semplice. Secondo Wolff, un’impresa di proprietà dei lavoratori dovrebbe prendere il posto…

“dell’attuale organizzazione produttiva capitalista negli uffici, le fabbriche, nei negozi e in altri luoghi di lavoro delle società moderne. Questo farebbe scomparire lo sfruttamento, ovvero la produzione di plusvalore appropriato e ridistribuito da chi non produce. La struttura classista del capitalismo (datori di lavoro che sfruttano lavoratori salariati) scomparirebbe così come sono scomparse altre precedenti strutture classiste (feudatari che sfruttano i servi nel feudalesimo o padroni che sfruttano schiavi nelle società schiavistiche).”

La soluzione del conflitto verrebbe dalla combinazione degli interessi dei lavoratori con quelli dei padroni. Un lavoratore che è anche padrone dei mezzi di produzione avrebbe interesse a migliorare il proprio tenore di vita mantenendo benefici e paga alta e migliorando l’efficienza produttiva allo stesso tempo. Così si creerebbero le risorse necessarie a far crescere le capacità professionali e l’istruzione dei lavoratori, come nel caso, tanto per citare un esempio riportato da Gibson-Graham, della cooperativa industriale argentina FaSinPat, in cui una parte del plusvalore prodotto va a finanziare una scuola primaria e un istituto superiore per lavoratori.

C’è poi la questione del conflitto tra lavoratori locali e stranieri. Come già ho accennato, si tratta di un sottoinsieme del conflitto tra lavoratori e padroni in quanto prodotto della ricerca del massimo profitto. Gibson-Graham spiega come “certi capitalisti reagiscano alla richiesta di salari più alti da parte dei lavoratori delocalizzando in zone con salari inferiori e orari di lavoro più lunghi.” Questo genere di delocalizzazione genera xenofobia e sciovinismo tra i lavoratori del nord del mondo, che vedono il nemico nei lavoratori stranieri piuttosto che nei capitalisti. Un malinteso che nasconde la verità, che la colpa non è dei lavoratori, che semplicemente cercano di sopravvivere con un minimo di agio, ma dell’imperialismo, che Lenin definì “fase suprema del capitalismo”. Come scrivono Marx e Engels nelManifesto del partito comunista, “la ricerca di una costante espansione dei mercati per i loro prodotti assilla la borghesia ovunque essa si trovi. Essa è costretta così ad entrare, insediarsi, stabilire relazioni ovunque.” Così le tradizionali attività locali scompaiono…

sotto il peso delle nuove industrie, la cui introduzione diventa una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civilizzate, sotto il peso di industrie che non usano più le materie prime del luogo, ma le importano dai luoghi più remoti; e i cui prodotti sono consumati non solo sul luogo, ma ai quattro angoli del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti dai prodotti locali, si sostituiscono nuovi bisogni, la cui soddisfazione richiede l’importazione di prodotti di luoghi e climi diversi.

Questi concetti formano la base della più ampia teoria imperialista marxista, secondo la quale lo sfruttamento esiste non solo all’interno delle nazioni ma anche tra nazioni. Come scrive Lenin, “Le forze produttive della società e la portata del capitale vanno oltre gli stretti confini dei singoli stati nazione. Da qui gli sforzi delle Grandi Potenze, che cercano di schiavizzare altri popoli, di avere colonie che siano fonte di materie prime e una sfera d’investimento per i capitali.” Certo le cooperative non rappresentano la soluzione di tutti i problemi degli attuali processi coloniali e imperiali, ma, ripeto, se combiniamo gli interessi personali del lavoratore e del proprietario si riducono gli incentivi a spostare la produzione all’estero tagliando i posti di lavoro. Inoltre, con un sistema cooperativistico cresce la possibilità di fare una politica collaborativa piuttosto che concorrenziale tra lavoratori locali e di altri paesi. Come esemplificato dalla cooperativa spagnola Mondragón, che ha spostato parte della produzione all’estero. Come spiega Gibson-Graham, “questa strategia non mette i lavoratori gli uni contro gli altri ma assicura l’impiego di soci e non. La Mondragón punta ad accrescere la partecipazione dei lavoratori nella proprietà e nella gestione delle aziende che fanno parte della sua rete.” Le cooperative di lavoratori/produttori possono anche associarsi ad altre cooperative di consumatori a proprietà diffusa così da formare catene logistiche internazionali che pongano al centro l’uomo e il commercio equo[2].

C’è poi infine il conflitto tra lavoratore e macchina; un conflitto unilaterale in termini di coscienza, certo, ma pur sempre un conflitto, una lotta che in passato ha generato movimenti come quello dei luddisti. Anche questo è un sottoinsieme del conflitto tra lavoratore e padrone. Secondo Gibson-Graham “le macchine danno all’imprenditore capitalista la possibilità di sostituire il lavoratore, abbassare il costo generale della manodopera e aumentare la produzione di plusvalore.” Acutamente, Marx, molto prima dell’avvento dell’automazione, notava

[s]e quindi l’uso capitalistico del macchinario crea da un lato nuovi potenti motivi di un prolungamento smisurato della giornata lavorativa e rivoluziona il modo stesso di lavorare e anche il carattere del corpo lavorativo sociale in maniera tale da spezzare la resistenza a questa tendenza, dall’altro lato quest’uso produce anche, in parte con la assunzione al capitale di strati di lavoratori in passato inaccessibili, in parte con il disimpegno degli operai soppiantati dalla macchina, una popolazione operaia sovrabbondante, la quale è costretta a lasciarsi dettar legge dal capitale.

E l’aumento della meccanizzazione non solo porta ad un maggiore sfruttamento, in quanto aumenta il plusvalore da estrarre e crea una popolazione superflua, ma mina anche le basi del valore in una società che è lavoro vivente[3]. In un mondo socialista o comunista, essendo la macchina nelle mani del lavoratore, ogni crescita dell’automazione dà la possibilità di accorciare la giornata lavorativa senza produrre una “popolazione operaia sovrabbondante”. Notavo in un articolo precedente come, in un’ottica materialista storica e in risposta alla richiesta di un reddito universale come panacea,

[a]nche se non causa disoccupazione di massa – e a maggior ragione se lo fa – l’automazione inasprirà le vecchie divisioni sociali e ne farà emergere di nuove. Chi può accedere più di altri a queste tecnologie può plasmare meglio economicamente, politicamente, socialmente e legislativamente il mondo a discapito degli altri. È probabile che a tanti verrà impedito l’accesso alla proprietà dalla proprietà intellettuale e altri simili provvedimenti stato-capitalistici. Non importa se c’è un reddito universale di base, perché anche col potere d’acquisto che esso dà la gente deve spendere denaro per acquistare beni fisici all’interno di una società in cui la forza sta nelle mani di un numero sempre più piccolo di capitalisti.

Il primo problema, la crescita dello sfruttamento e della popolazione in eccesso è, almeno in teoria, contrastato dalle cooperative di lavoratori; i lavoratori potrebbero automatizzare grosse porzioni delle attività possedute collettivamente e gestite democraticamente, il che si tradurrebbe in orari di lavoro più corti per tutti invece che licenziamenti. Allo stato attuale le cooperative sono di fatto costrette a competere con le aziende capitaliste in mercati artificialmente delocalizzati, e per questo non possono sfruttare l’automazione per accorciare l’orario di lavoro[4]. Il problema potenzialmente potrebbe essere risolto arginando lo stato, o magari eliminandolo (cosa più facile a dirsi che a farsi), e sempre più persone reclamerebbero ai lavoratori il potere di definire la realtà sociale dei mezzi di produzione al fine di abbattere il capitalismo. Per tornare all’attuale realtà delle cooperative di lavoratori, lo dico per l’ennesima volta, è interesse personale dei suoi soci, in quanto lavoratori, mantenere il livello occupazionale. Parlando della cooperativa Mondragón, Gibson-Graham spiega come “[l]’impiego di macchine che consentono di risparmiare lavoro porta non al licenziamento di lavoratori ma al loro impiego con mansioni diverse in altre cooperative della rete regionale. Alcuni sono anche incentivati a frequentare corsi tecnici per apprendere nuove tecniche produttive. Durante questo tempo, ricevono un salario di mantenimento.” Così nelle cooperative di lavoratori il conflitto tra lavoratore e macchina diventa collaborazione e sintesi.

Molti socialisti, soprattutto di area marxista, sono molto critici verso le cooperative. Famosa la frase del comunista Amadeo Bordiga “[i]l male del capitalismo non è l’azienda, è il fatto che l’azienda abbia un padrone”[5]. Per il resto, basta dare un’occhiata all’ormai defunto r/muhcoops. Le critiche non sono illecite; le cooperative di lavoratori che operano entro uno stato capitalista non sono la salvezza del mondo. L’umanità dovrà muoversi maggiormente verso un modo di produzione cooperativo, decentrato e flessibile che assicuri la sopravvivenza su questo pianeta. Le cooperative possono contribuire. Da notare che anche Marx, ad un certo punto, parlò favorevolmente delle cooperative. Nelle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio dice: “Riconosciamo il movimento cooperativo come una delle forze trasformatrici della società presente, basata sull’antagonismo delle classi. È suo grande merito mostrare praticamente che il sistema attuale di subordinazione del lavoro al capitale, dispotico e pauperizzatore, può venir soppiantato dal sistema repubblicano e benefico dellassociazione di produttori liberi ed eguali.” E ne La guerra civile in Francia, riferendosi alla Comune parigina del 1871: “Ma se la produzione sociale non rimane semplice apparenza o finzione, se essa colpisce il sistema capitalistico, se l’unione delle associazioni regola la produzione nazionale secondo un piano comune, lo prende sotto la propria direzione e vuol farla finita con l’anarchia permanente e con le convulsioni che si manifestano periodicamente e che sono la sorte inevitabile della produzione capitalista – che altro sarebbe, signori miei, tutto questo se non il comunismo, il «possibile» comunismo?”[6].


Note

1. Vedi Kevin Carson, “Economic Calculation in the Corporate Commonwealth.”

2. La mia opinione è che nel lungo termine le catene logistiche internazionali saranno usate soltanto per beni essenziali, e avranno frequenza e lunghezza il più possibile ridotte. Il futuro è locale.

3. Per un’attuale revisione della teoria del valore del lavoro vedi Kevin Carson, Studies in Mutualist Political Economy.

4. Vedi Kevin Carson, “The Distorting Effects of Transportation Subsidies” e Pandemia: Lo stato cura o provoca?

5. Come dice Kevin Carson, “L’attuale assetto proprietario e organizzativo della produzione nella nostra cosiddetta economia di ‘mercato’ riflette l’intervento coercitivo dello stato precedente ed estraneo al mercato.” E in Organization Theory spiega come – tramite legislazioni particolari, incentivi (soprattutto alle infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni), proprietà intellettuali e dazi doganali – il governo statunitense abbia cementato il potere aziendale capitalista facendone la struttura economica predefinita; un fenomeno che avrebbe contribuito all’attuale capitalismo statalista. Senza l’intervento continuo dello stato, è il ragionamento di Anna Morgenstern, “dati i costi crescenti della protezione della proprietà [senza la protezione della polizia e dei militari], si arriva ad un punto critico oltre il quale accumulare capitale diventa economicamente sconveniente.” E poi: “senza un sistema bancario e finanziario protetto dallo stato, accumulare alti profitti indefinitamente sarebbe praticamente impossibile.” E: “senza la concentrazione di capitali la schiavitù salariale è impossibile.” E ancora Gary Elkin spiega come, in un mondo senza monopolio bancario e finanziario, “se l’accesso al credito mutuo dovesse far crescere il potere negoziale dei lavoratori fino al punto predetto [da Benjamin Tucker], potrebbero 1) chiedere ed ottenere la democrazia sul posto di lavoro, e 2) mettere assieme il proprio credito per acquisire l’azienda e gestirla collettivamente. Così eliminerebbero le strutture piramidali e priverebbero i padroni della possibilità di attribuire a se stessi grosse paghe.” Si potrebbe scrivere ancora molto, molto, molto di più, ma questo basta come nota.

6. Non trovo la fonte originale della citazione ma mi è capitato di leggerla in numerose occasioni.

7. Per una riflessione più approfondita sulla relazione tra marxismo e movimento cooperativo vedi: David Prychitko, Marxism and Workers’ Self-Management: The Essential Tension.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory