Per una Stagione di Pace Occorrono Azioni, non Canzoni
The following article is translated into Italian from the English original, written by Sheldon Richman.

In questo periodo la gente canta canzoni che parlano di pace e bene. Negli Stati Uniti, purtroppo, alle canzoni corrispondono scarse riflessioni. Altrimenti gli americani sarebbero in piazza a chiedere al presidente Obama di spegnere la macchina da guerra. E ripudierebbero quegli aspiranti presidenti, ovvero i principali candidati dei maggiori partiti, che difendono i fondamenti della criminale politica estera americana. Tutti credono che sia compito del governo americano distruggere l’Isis (che esso stesso ha contribuito a creare), mentre la maggioranza crede, contraddittoriamente, che gli americani debbano rovesciare il governo siriano a costo di fare strage di civili e avvantaggiare i fanatici, e nonostante né l’Isis né Bashar el Assad rappresentino una minaccia all’esistenza della nostra società.

L’élite di governo e i suoi tifosi di tutto l’arco politico non smettono di dirci che gli Stati Uniti, con il che intendono il governo centrale, sono una potenza benefica per il mondo. Forse la nazione è eccezionale ma, a nonostante le dichiarazioni magniloquenti, non in senso positivo. Sono più di duecento anni che uccide e opprime su larga scala, e quando non commette crimini direttamente appoggia chi li commette. Le vittime dell’America sono in tutto il mondo.

Le ragioni sono varie e intrecciate tra loro: un miscuglio nazionalista, geopolitico ed economico spacciato per predestinazione. L’America è considerata nazione prescelta, destinata a cambiare il mondo nonostante l’opposizione dei destinatari di questo dono.

Pochi immaginavano che Obama potesse fare più del predecessore George W. Bush in termini bellici, eppure c’è riuscito. Le guerre in Iraq e Afganistan, che aveva promesso di far cessare, sono tutt’altro che finite, e oltre quattordici anni dopo l’invasione dell’Afganistan il segretario alla Guerra Ash Carter si aspetta un altro anno “duro” dal 2016. L’Isis ora si è unito ai talebani per mandare via gli americani.

Lontano dalle telecamere, Obama impone o autorizza il sopruso contro le popolazioni di Pakistan, Somalia e Yemen, dove i sauditi con i loro partner del Golfo Persico hanno bombardato ed imposto l’embargo sulla strada della catastrofe umanitaria. E, ancora una volta, a vincere sono al Qaeda e Isis.

A giustificare questo casino made in USA è lo slogan imbecille secondo cui “verranno qui ad ucciderci tutti”. Cosa che più volte si è rivelato una fesseria. Anche la commissione ufficiale sull’Undici Settembre e uno studio commissionato dall’allora segretario alla Guerra Donald Rumsfeld hanno attribuito gli attentati del 2001 ai precedenti interventi americani in Medio Oriente, compresa la morte per fame di bambini iracheni, le basi militari vicino alla Mecca e a Medina, e l’intesa con Israele contro il popolo palestinese. Gli attentati dell’Undici Settembre sono crimini mostruosi ma non fulmini a ciel sereno. Sono la conseguenza di decenni di violenze ed eccidi da parte dell’America.

Prima che Bush II invadesse l’Iraq (nonostante Saddam Hussein non c’entrasse nulla con l’Undici Settembre) al Qaeda era formata da poche persone in Afganistan. Da allora, con il bombardamento e il cambio di regime libico ad opera di Obama, e con la sua caccia ad Assad, al Qaeda si è diffusa generando adepti ancora più virulenti come l’Isis. Il governo americano sta a Frankenstein come al Qaeda/Isis sta al mostro sguinzagliato in Medio Oriente e oltre. Il contributo fondamentale di Obama alla politica estera è l’aver messo l’aeronautica militare americana al servizio di al Qaeda in Siria e Yemen.

Gli americani non starebbero qui a temere il terrorismo islamico (nonostante la fantasia gonfiata) se non fosse per Bush e Obama. Ma le colpe vanno oltre questi due e si estendono alle amministrazioni Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, George H. W. Bush e Clinton.

Per sciovinismo e apatia, gli americani hanno lasciato che tutto ciò accadesse. I movimenti che si oppongono alla guerra sono stati deboli e fugaci, sono scomparsi dalla sera al mattino con la fine della leva obbligatoria nel 1973 e con l’elezione di un democratico nel 2008.

Dunque non sorprende il fatto che le elezioni presidenziali si giochino su variazioni minime sul tema dell’imperialismo. Nessuno mette in questione i fondamenti dell’impero.

Alla fine avremo un altro presidente di guerra, senza scrupoli quando si tratterà di uccidere civili e distruggere intere società purché continui la missione: mantenere l’egemonia americana globale e respingere chiunque cerchi un percorso indipendente.

Cantare canzoni che parlano di pace e bene ed esultare per lo stato guerrafondaio americano è uno spettacolo ributtante. E le prospettive di un cambiamento a breve sono poche.

Pubblicato anche su Free Association

Traduzione di Enrico Sanna.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory