Neoliberalismo, Produzione Condivisa e Fabbriche Sociali

Di Eric F. Originale pubblicato il 19 luglio 2023 con il titolo Neoliberalism, Co-Production, and the Social Factory. Traduzione di Enrico Sanna.

Per capire i problemi che ci circondano dobbiamo dare uno sguardo al passato, considerando l’insieme più che il particolare. Molti dei vecchi con cui ho parlato sembravano concordare con Emma (nome di fantasia) sull’importanza della comunità e delle “reti assistenziali”, tutti ricordavano con nostalgia i tempi in cui per comunità e famiglie estese l’aiuto reciproco veniva prima dello stato sociale e dei consumi. Lucy (altro nome di fantasia), sessantanovenne, una delle principali organizzatrici del programma Hour Exchange, una delle persone con cui ho parlato, mi spiegava che “la società era molto impegnata in questa sorta di mutuo soccorso di base. Ma con il moderno capitalismo, e soprattutto con la globalizzazione, le persone hanno cominciato a isolarsi.” E poi c’era Peter (altro nome di fantasia), sessantaquattrenne, socio di lunga data di Hour Exchange, che mi diceva come

oggi la gente non cresce e lavora nello stesso posto in cui vive. Mio cugino Freddy, per dire, non è più nel paese qua accanto. È tre stati più in là. Se, poniamo, ti rompi una gamba o stai male, non puoi più chiamarlo per farti dare una mano in casa.

Anche se a tratti vedono il passato attraverso “lenti rosa” (soprattutto razziali), queste testimonianze sono doppiamente confermate dalla storia. Roderick Long, ad esempio, spiega come “[t]ra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, una delle fonti principali di assistenza e assicurazione sanitaria tra i poveri inglesi, australiani e statunitensi veniva dalla fraternal society” o “friendly society”[1]. Il Maine in particolare aveva una ricca tradizione di volontariato, come testimonia la Maine State Grange, nata dal Farmers’ Clubs Movement dopo la guerra civile, che non solo forniva alla popolazione contadina un luogo d’incontro, l’occasione di discutere di nuove tecniche agricole e di avere un’istruzione, ma poteva anche offrire un’assicurazione ai soci.[2] Queste associazioni rimasero in piedi finché non furono messe fuori gioco da normative emanate ad alti livelli e dall’allargamento dell’economia aziendale. L’associazionismo volontario e comunitario come fonte di assistenza subì un primo colpo sotto il New Deal con il massiccio allargamento dello stato sociale in risposta alla Grande Depressione (1929-39), ma fu solo cinquant’anni dopo che subì lo smantellamento ad opera dell’amministrazione Reagan (1981-89).

I risultati di questo abbandono della presunta promessa di “benessere comune” dello stato sono stati ampiamente analizzati da teorici queer, studiosi della disabilità e femministe. Come Khiara M. Bridges, che spiega come il neoliberalismo consideri “la famiglia un’entità che fornisce (e deve fornire) quel sostegno sociale fornito dallo stato in momenti politici precedenti”.[3] Nel caso dell’assistenza agli anziani, sono spesso i figli maggiori, o i più capaci, o le mogli ancora capaci che, non potendo permettersi di pagare una badante o un ospizio, sono costretti ad assistere a tempo pieno gli anziani di casa. La maggior parte di chi presta assistenza in questo modo lo fa senza un salario regolare se non gratis. Per certi versi, è commovente: assistere gli altri senza essere spinti dalla ricerca di un profitto (monetario). È questa la base cooperativa di tutte quelle società che David Graeber definisce “comunismo quotidiano”. Secondo l’associazione Community Economies (che si basa sulle teorie delle geografe economiche e femministe J.K. Gibson-Graham), il fenomeno è la punta di un “iceberg” fatto di “spazi reali di negoziato” distinti dal lavoro salariato e a struttura gerarchica.[4] In questi “spazi di negoziato” è possibile pensare fuori dall’egemonia di un “mondo capitalista”, vedere il mondo come un insieme di economie diverse coesistenti. Loro la spiegano così:

Quando l’economia è impostata in termini capitalistici, e quando si dice che il capitalismo si sta diffondendo in tutto il pianeta, si pensa subito che occorre una corrispondente lotta anticapitalista globale. Questo riduce il potenziale del locale come luogo della politica economica. Se invece pensiamo all’economia come a qualcosa costituito da un insieme di prassi diverse…

capiamo come queste prassi diverse “possono diventare i mattoni elementari delle economie comunitarie”[5].

Ma né Community Economies né Gibson-Graham dicono che siccome certe prassi non comportano l’uso dei salari o dei pagamenti questo non significa che sono avulse alla logica estrattivista della forma economica dominante, dicono invece che “la lotta economica avviene in siti diversi”, ed è qui che l’estrazione di ricchezza e il potere gerarchico devono essere costantemente e consciamente combattuti.[6] Io credo che uno dei modi migliori di vedere il problema rappresentato dai tentativi di opporsi agli elementi esterni all’economia salariata sia quello proposto nel 1962 dall’autonomista italiano Mario Tronti con la sua “fabbrica sociale”, in cui

la relazione sociale diventa un momento della relazione di produzione, la società intera è un’articolazione della produzione, ovvero esiste come parte funzionale della fabbrica, così che la fabbrica estende il suo dominio esclusivo alla società intera.[7]

Se ai tempi di Marx la fabbrica era l’ambito esclusivo del proletariato industriale, nell’era della globalizzazione economica la fabbrica è stata trasferita oltreoceano dall’economia statunitense. A partire dagli anni Settanta, i posti di lavoro in fabbrica, soprattutto nel Maine, sono diminuiti rapidamente. In città come Lewiston e Waterville il panorama è dominato da fabbriche abbandonate.[8] Ma la fabbrica in sé non è scomparsa. Come dice Dennis K. Mumby, “ora il capitalismo non si limita più ad estrarre plusvalore nel luogo di produzione dal lavoratore salariato, ma sempre più spesso cattura la (libera) socialità della vita quotidiana per trasformarla in plusvalore”.[9] Da un lato, questo significa che gli “atti sociali” sono sempre più mercificati, non tanto perché vengono acquistati con transazioni monetarie ma perché sono mediati da piattaforme, dispositivi e altro pensati per generare profitti che vanno ad altre persone. Dall’altro lato, la logica (e soprattutto la disciplina) della fabbrica, secondo il pensiero marxista per cui il modo di produzione (che oggi è un fenomeno globale) influisce sul contenuto della società, permea progressivamente le istituzioni culturali, le relazioni, i valori e anche il modo di vedere la realtà.

Se vogliamo avere un’idea della forte differenza che esiste tra la vita dentro e fuori dalla fabbrica sociale, pensiamo a come si accudiscono i vecchi in molte culture preindustriali. Certo, trasformare in un feticcio le culture indigene, in genere “non occidentali”, non aiuta ed è un errore, ma è verissimo che esistono sistemi migliori dei nostri per assistere i vecchi, e generalmente si trovano fuori dalla sfera anglo-americana. In Australia, ad esempio, certe culture aborigene, lo dico citando una ricerca di Lucy Busija e altri, vedono nei vecchi “una guida per la comunità, persone la cui posizione si basa sull’impegno per la comunità, lo spirito, il benessere fisico ed emotivo e la saggezza accumulata in una vita di esperienze”. Da qui il grande rispetto per loro.[10] Per contro, secondo il “modello deficitario d’invecchiamento” (termine coniato dalla psicologa Catherine Roland) che domina gran parte delle società “occidentali”, oltrepassare una certa età rappresenta una perdita netta per via del degrado mentale e fisico.[11] E la globalizzazione capitalista non ha fatto altro che accentuare il pregiudizio, da cui il concetto, diffuso negli Stati Uniti, di “tsunami grigio”. Che significa, come spiega [Ashton] Applewhite, che “l’invecchiamento della popolazione rende impossibile la competizione sul panorama economico mondiale. Perché imprese e investitori globali vanno dove c’è forza lavoro giovane” che costituisce un vantaggio competitivo.[12] È così che tutta l’economia interna degli Stati Uniti diventa un’impresa in concorrenza con l’economia mondiale, con gli anziani e i disabili penalizzati perché economicamente inefficienti, una logica che risale alle industrie locali a cavallo tra Ottocento e Novecento quando, come spiega Robert McRuer, occorrevano persone efficienti che facessero lavori ripetitivi, cosa che portò “le fabbriche a classificare le persone sulla base delle capacità lavorative. Classificazioni che finivano per considerare le persone poco capaci un problema da risolvere nello spazio domestico”.[13]

Questo “spazio privato o domestico”, spesso composto da un nucleo famigliare, è solitamente considerato uno spazio separato dall’economia capitalista. In realtà, oltre a dare la possibilità ai capitalisti di evitare di usare il plusvalore per assistere i lavoratori, la famiglia è anche l’unità economica che crea nuovi lavoratori. Vista l’importanza della famiglia per il funzionamento dell’intera società, dovrebbe preoccupare il fatto che il lavoro domestico, svolto soprattutto da donne, non sia retribuito come una qualsiasi occupazione simile. Secondo il New York Times, solo nel 2019 il suo controvalore sarebbe stato di 1.900 miliardi di dollari.[14] Come spiega la femminista italiana Silvia Federici,

[n]egando un compenso al lavoro domestico e trasformandolo in atto d’amore, il capitale ha preso molti piccioni con una fava. Ma soprattutto scarica un sacco di lavoro sulle spalle delle altre e arriva a fare in modo che le donne, che raramente si ribellano, ci vedano la realizzazione della propria vita (“la donna ideale”).[15]

Oggi che la fabbrica sociale cerca di pervadere tutti gli ambiti dell’esistenza, sono le casalinghe ad essere spinte verso il lavoro non retribuito in quello che è il centro produttivo famigliare, una realtà che dal 1972 è oggetto di riflessione da parte della Federici e di altre femministe socialiste che hanno dato vita al movimento Wages for Housework. Anche se qui l’attenzione è rivolta ai ruoli di moglie e madre in particolare, lo stesso ragionamento può essere applicato a qualsiasi attività assistenziale non retribuita, compresa l’assistenza agli anziani, perché ci si aspetta che l’assistenza degli anziani, quando questi non sono più abbastanza efficienti per il lavoro capitalista, ricada sui figli, sul coniuge se è capace, sugli amici coetanei o su altre persone.

Edgar S. Cahn, “padre della banca del tempo”, intende qualcosa di simile quando parla di “seconda economia”, esterna all’economia salariata monetizzata aziendale, senza la quale la seconda economia non potrebbe funzionare. Secondo Cahn, “almeno il 40% di tutta l’attività economica avviene fuori dalla cosiddetta economia di mercato”. Il pil e altri indicatori economici non tengono conto (apposta, forse) dell’impatto di attività extra-crescita come: “assistere chi non può stare in una casa di riposo”, “allevare i figli (attività non retribuita), assistere gli anziani (a carico della famiglia), fare volontariato” e altro. Ma questo “sistema operativo, incentrato sulle famiglie e il quartiere, è in cattive condizioni”, riesce sempre meno a “svolgere funzioni di base come la trasmissione dei valori, la crescita dei figli, l’offerta di aiuto, il mantenimento della sicurezza, il consenso, la salute e la condivisione di risorse limitate.” La conclusione di Cahn ricorda quella della Federici e di altre femministe autonome: il problema potrebbe essere risolto compensando il lavoro non retribuito ma non tramite un salario, bensì con quella che Cahn definisce “co-produzione”, ovvero: paghi per quello che che ottieni contribuendo quanto puoi. Niente prestazioni gratuite. Qualcosa del tipo: apprezziamo il tuo contributo, che non necessariamente dev’essere proporzionale al denaro che puoi permetterti di pagare”.[16]

L’espressione “niente prestazioni gratuite” a prima vista ricorda l’autosostentamento dei conservatori, salvo che qui non si dice che l’assistenza gratuita non deve esistere ma che quel qualcuno che la fa deve ricevere una ricompensa. Il fatto paradossale della fabbrica sociale è che quando si dice che le “prestazioni gratuite” devono essere ricompensate si arriva a una situazione tale per cui

Uber, Lyft, Airbnb e molte altre piattaforme simili intercettano cose come la condivisione dell’auto o di una camera e monetizzano tutto. Quello che un tempo era un atto sociale tra conoscenti è diventato una transazione economica mediata da una piattaforma che ha come fine la creazione di valore economico.[17]

Cahn va oltre la richiesta di un salario che riconosca il lavoro non retribuito; vuole una compensazione immediata ma senza uscire dall’ambito della “seconda economia”, rafforzando così le infrastrutture della comunità. Così si evita il problema citato, ovvero quella che Cahn definisce una “colonizzazione” di questi ambiti economici da parte dell’economia monetaria capitalista tramite “una progressiva sussunzione delle funzioni precedentemente svolte dalla famiglia, dagli amici, dal vicinato e da istituzioni extra mercato”, dando però per scontato che le reti e le istituzioni i cui compiti vengono sussunti continuino ad operare.[18] Ma dove trovare le risorse per ricompensare le prestazioni offerte in questa “seconda economia”? La risposta, per Cahn, è la banca del tempo.

Note

1. Roderick Long, “How Government Solved the Health Care Crisis: Medical Insurance that Worked — Until Government ‘Fixed’ It,” Formulations 1, no. 2 (Winter 1993-1994): 16, accessed April 13, 2023, http://www.freenation.org/a/F/1.2.pdf.

2. Stanley R. Howe, “To Improve the Farmer’s Lot: The Grange in Maine,” The Courier 34, no. 1 (2010)], accessed April 13, 2023, https://www.bethelhistorical.org/legacy-site/THE%20COURIER,%20Vol.%2034,%20No.%201%20%282010%29.pdf.

3. Khiara M. Bridges, “Reflection: Committing to Change,” 2013, in Feminist Activist Ethnography: Counterpoints to Neoliberalism in North America, ed. Christa Craven and Dána-Ain Davis (Lanham, MD: Lexington Books, 2013), 131.

4. David Graeber, “Communism,” 2010, in The Human Economy: A Citizen’s Guide, by Antonio David Cattani, ed. Keith Hart and Jean-Louis Laville (London, UK: Polity Press, 2010), accessed April 13, 2023, https://theanarchistlibrary.org/library/communism.

5. “Community Economies Research and Practice,” Community Economies, accessed April 13, 2023, https://www.communityeconomies.org/about/community-economies-research-and-practice.

6. Ibid.

7. Mario Tronti, “Factory and Society (1962),” Operaismo in English, last modified June 13, 2013, accessed April 13, 2023, https://operaismoinenglish.wordpress.com/2013/06/13/factory-and-society/.

8. “Manufacturing Jobs: Trends, Issues, and Outlook,” Maine Department of Labor, Center for Workforce Research and Information, last modified July 2012, accessed April 13, 2023, https://www.maine.gov/labor/cwri/publications/pdf/ManufacturingJobsTrendsIssuesandOutlook.pdf.

9. Dennis K. Mumby, “Theorizing Struggle in the Social Factory,” Organization Theory 1 (April 2020): 2, accessed April 14, 2023, https://www.researchgate.net/publication/341226490_Theorizing_Struggle_in_the_Social_Factory.

10. Lucy Busija et al., “The Role of Elders in the Wellbeing of a Contemporary Australian Indigenous Community,” The Gerontologist 60, no. 3: 514, accessed April 14, 2023, https://academic.oup.com/gerontologist/article/60/3/513/5222719.

11. Catherine Roland, “Defeating the Deficit Model of Aging,” Psychology Today, last modified June 9, 2015, accessed April 14, 2023, https://www.psychologytoday.com/us/blog/resilience-and-reframing/201506/defeating-the-deficit-model-aging.

12. [Ashton Applewhite, This Chair Rocks: A Manifesto Against Ageism (Celadon Books, 2019), 48, epub.]

13. Robert McRuer, Crip Theory: Cultural Signs of Queerness and Disability (New York, NY: NYU Press, 2006), 88.

14. Gus Wezerek and Kristen R. Ghodsee, “Women’s Unpaid Labor is Worth $10,900,000,000,000,” New York Times, last modified March 5, 2020, accessed April 14, 2023, https://www.nytimes.com/interactive/2020/03/04/opinion/women-unpaid-labor.html.

15. Sylvia Federici, Wages Against Housework (Bristol, UK: Power of Women Collective & Falling Wall Press, 1975), 2, accessed April 14, 2023, https://files.libcom.org/files/Federici-Silvia-Wages-Against-Housework.pdf.

16. Edgar S. Cahn, No More Throw-Away People: The Co-Production Imperative (Washington, DC: Essential Books, 2000), 48-49, 54, 57.

17. Mumby, “Theorizing Struggle,” 2.

18. Cahn, No More, 114-115.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory