L’economia globale pianificata centralmente
Di Kevin Carson. Originale pubblicato il primo marzo 2023 con il titolo The Myth of the Private Sector, Part II: The Centrally Planned Global Economy. Traduzione di Enrico Sanna.
Nella prima parte di questa serie spiegavo che la distinzione tra “pubblico” e “privato” è perlopiù insignificante dato che, in termini organizzativi, le somiglianze tra le diverse istituzioni burocratiche centralizzate e gerarchiche prevalgono sulla proprietà, privata o statale.
Ma il “settore privato” perde praticamente di significato anche perché il “mercato competitivo globale” è diventato perlopiù una favola moraleggiante.
Dalla nascita, subito dopo la seconda guerra mondiale, fino all’abolizione, il ministero del commercio internazionale e dell’industria giapponese ha fatto da pianificatore centrale capitalista dell’economia aziendale. Non che imponesse obiettivi di produzione, come nell’ex Unione Sovietica, ma più semplicemente il suo compito era di ripartire i fondi per la ricerca e lo sviluppo tra le diverse industrie giapponesi. Arrivava anche a fissare la ripartizione degli scambi con l’estero tra le aziende giapponesi, stabilendo così chi poteva importare tecnologie estere e chi no.
Similmente, nell’economia iugoslava il principio dell’autogestione del lavoratore e delle relazioni di mercato tra aziende era condizionato in pratica dalla possibilità della banca di stato di ripartire i capitali da investire. E quella che vediamo oggi a livello mondiale non è che una versione nominalmente privata della stessa cosa, organizzata tramite cartelli e direttorati che stabiliscono gli investimenti e sono intrecciati tra loro.
La novità sta solo nelle dimensioni globali. Nel 1967, G. William Domhoff, studioso delle élite di potere, sosteneva (in Who Rules America?) che la classe capitalista controllava l’economia privata americana non per mezzo di gruppi famigliari di azionisti nelle singole società, ma collettivamente attraverso “‘gruppi d’interesse’ che avevano come base grandi banche e istituzioni finanziarie, le quali controllavano un numero enorme di grosse società grazie alla proprietà minoritaria e a dispositivi legali” (”matrimoni d’interesse e gruppi sociali che operavano tramite holding, fondi e fondazioni familiari”). Una generazione prima, il marxista Paul Sweezy diceva che tutta l’economia americana era dominata da otto di questi “gruppi d’interesse”.
Non molto tempo fa, nel 2011, Stefania Vitali, James B. Glattfelder e Stefano Battiston spiegavano in uno studio che l’attività di decine di migliaia di multinazionali dipendeva da un nucleo di 1.318 società transnazionali a proprietà intrecciata. Queste 1.318, a loro volta, erano dominate da una “super-entità” costituita da 147 società fortemente unite. E tra queste 147, le dieci più importanti erano banche, compagnie d’assicurazioni o fondi d’investimento.
Dunque l’economia privata mondiale è in gran parte governata da “una super-entità” fatta di società intrecciate, a sua volta governata da un numero sparuto di banche, compagnie di assicurazioni e società immobiliari, le quali decidono come ripartire i capitali d’investimento.
Visti su questo sfondo, i licenziamenti del settore tecnologico delle ultime settimane appaiono spiegabili. Spiega Josh Berkus su m6n.io Mastodon: “La gente pensa che i recenti licenziamenti siano un fatto naturale, ma non è così. Sono invece chiaramente orchestrati dagli hedge fund.”
MarketWatch conferma. Il miliardario Christopher Hohn, gestore del hedge fund TCI (che possiede azioni di Alphabet per sei miliardi di dollari), secondo quanto ha scritto l’amministratore delegato di Alphabet Sundar Pichai il 20 gennaio, ha giudicato insufficiente (pur andando “nella direzione giusta”) il recente licenziamento del 6% dei dipendenti: servirebbe un altro taglio del 20%, ha detto. Inoltre, dato l’indebolimento della “competizione basata sul talento”, Alphabet potrebbe arrivare a fare tagli salariali significativi. Tra gli hedge fund, Hohn non è l’unico a fare queste richieste. “Molti gestori di hedge fund che investono in tecnologici stanno chiedendo tagli drastici sia nei costi generali che tra il personale.”
Ovviamente, come accade solitamente con le cure dimagranti capitalistiche, i tagli alla fine risultano controproduttivi e distruggono valore reale. Nota Bernard Marr che hedge fund e altri avvoltoi capitalisti giustificano la richiesta di tagli come reazione al precedente “boom di assunzioni” e di offerte salariali competitive durante il primo anno o due di pandemia, per cui ora occorrerebbe cambiare politica in fatto di assunzioni. Ma se andiamo a vedere in particolare, vediamo che mediamente i licenziati avevano undici anni e mezzo di esperienza. “Dunque non è del tutto vero che sono tutti lavoratori con poca esperienza e facilmente sostituibili, magari con l’automazione.”
Marr minimizza il fatto dicendo che il 28% dei licenziamenti è avvenuto nei reparti delle risorse umane; il che è ovvio, spiega, se si pensa che “se le società licenziano si suppone che assumano meno, e meno assunzioni significano meno personale per le risorse umane”, che oltretutto vengono anche in parte automatizzate.
Ma è vero però che il 72% dei licenziati, in maggioranza tra i più esperti, non provengono dalle risorse umane. Inoltre, la rappresentanza di quest’ultimo settore tra i licenziati non è costante. “Se Microsoft, Meta, Google e Twitter hanno licenziato anche personale delle risorse umane e addetti alla ricerca di talenti, più in generale ad essere maggiormente colpiti sono stati i tecnici del software.” Sostanzialmente dunque i licenziamenti delle industrie tecnologiche sono una versione molto più educata dello sventramento di Twitter ad opera di Elon Musk, vera e propria incarnazione dell’effetto Dunning-Kruger.
Anne Helen Peterson spiega perché i licenziamenti, pur essendo una reazione spontanea al calo di valore delle azioni, sono controproduttivi.
Cosa fanno i licenziamenti? Primo, costano: buonuscita, indennità di disoccupazione, ma anche calo della produttività e dell’innovazione. Secondo, distruggono la fiducia, come notano il docente della Harvard Business School Sandra J. Sucher e la ricercatrice associata Marilyn Morgan Westner, e aumentano l’ansia e il disimpegno. Il “calo del rendimento post-licenziamento” non è un’invenzione.
Questo conferma che il mercato competitivo, più che una realtà, è un mito: quando le principali aziende in un settore oligopolistico condividono la stessa cultura e la stessa prassi, quando tutti gli alti dirigenti traggono le stesse conclusioni errate dagli studi di economia aziendale, la competizione non avviene in termini di efficienza. Come diceva Jeffrey Pfeffer, docente della Stanford Graduate School of Business, quello che fa un dirigente diventa contagioso, si diffonde in un certo ambiente e finisce che le aziende si copiano a vicenda senza riflettere. “Certe persone che conosco ammettono che i licenziamenti danneggiano l’azienda, per non dire del dipendente, e che non risolvono molto, ma è che tutti fanno così e il consiglio d’amministrazione insiste nel voler fare altrettanto.”
Il risultato è un panorama economico in cui gran parte delle aziende sono dominate da una manciata di sigle che determinano i prezzi e competono tra loro soprattutto in termini di immagine e presentazione del prodotto piuttosto che sul prezzo, condividono la stessa cultura istituzionale e a volte anche gli stessi dirigenti. E gran parte delle decisioni più importanti riguardo assunzioni e investimenti sono dettate da un nucleo formato da banche, compagnie di assicurazioni e società immobiliari. Sono società di dimensioni mondiali che fingono di competere, mentre la vera competizione è solo tra i lavoratori che forniscono le braccia e tra gli sweatshop che producono in appalto.
Intanto vediamo polemisti libertari di destra che ancora giustificano un inesistente “libero commercio” in termini obsoleti come il ricardiano “vantaggio comparativo”: come se quello che chiamano “commercio internazionale” fosse veramente tale e non semplicemente un insieme di transazioni interne tra entità globali unite direttamente da un’integrazione verticale o dalla proprietà, o indirettamente tramite la proprietà intellettuale. Se i libertari vogliono riacquistare una certa credibilità dovrebbero cominciare a parlare del mondo reale.
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