Karl Hess Parla di Anarco-capitalismo

Di Charles Johnson. Originale pubblicato il 28 agosto 2015 con il titolo Karl Hess on Anarcho-Capitalism. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

Questo articolo, scritto da Charles Johnson, è uscito su Rad Geek People’s Daily il 14 agosto 2013.

Come forse saprete, in materia di “anarco-capitalismo” e capitalismo ho le mie idee. Credo che l’anarco-capitalismo sia incoerente come obiettivo, e distruttivo per certi versi nella pratica. Questo non perché fatico ad accettare la proprietà, il denaro, la competizione o lo scambio sul mercato, ma perché penso che unire questi aspetti del mercato all concentrazione della proprietà specifica del capitalismo e alle pratiche affaristiche aziendali sia l’effetto di una serie di concezioni errate e di svariati inciampi in materia economica. Aggiungiamo poi che, nonostante le divergenze su tanti argomenti, ad accomunare gran parte degli anarco-capitalisti è l’accettazione o il sostegno aperto di alcune delle peggiori rogne del capitalismo. Qualche esempio: 1) spesso l’anarco-capitalismo promuove molto più di una visione aziendale, opposta ad una visione popolare, della libertà economica, e cerca di spiegare perché è un bene; 2) l’immagine di una possibile società libera è spesso pericolosamente limitata[1]; 3) diffonde concetti falsi e fideistici riguardo le origini del potere statale[2]; 4) propone sistematicamente una concezione sottile, non grossa, di libertà, creando un forte nesso con un tossico conservatorismo e un atteggiamento difensivo nei confronti di tante forme di privilegio sociale della realtà attuale; 5) dimostra di norma una pericolosa e deliberata indifferenza verso gli effetti che la proprietà, la gestione e l’accesso ad una proprietà stratificata in classi può generare, effetti che danneggiano e deformano le dinamiche di mercato.

Credo personalmente che capitalismo e anarchia siano incompatibili: l’anarchia finirebbe per minare e distruggere gli schemi proprietari e gestionali capitalisti esistenti. Tentativi di difendere il capitalismo finiscono quasi sempre per incappare in seri errori o per accettare compromessi su importanti principi anarchici.

Detto ciò, non m’interessa formulare definizioni dogmatiche che escludano gli “anarco-capitalisti” dalla cerchia dei veri anarchici. Credo che spesso siano in errore e incoerenti. Ma lo stesso penso anche di molti anarchici anticapitalisti. Ma penso anche che certi anarco-capitalisti rendano un importante buon servizio a quegli anarchici che intendono studiare l’argomento, sia in termini storiografici[3] che in termini di teoria anarchica contemporanea. Si tratta di tesi che, anche quando profondamente erronee, vale la pena studiare attentamente e cercare di capire in buona fede e con umiltà. Purtroppo, ci sono libertari che, nel tentativo di criticare gli errori dell’antistatalismo e dell’anarco-capitalismo di destra, finiscono per colpire qualcosa che riflette più la loro immagine dell’attuale dibattito pro-capitalista che l’anarco-capitalismo storico. Qualche tempo fa, ad esempio, C4ss ha pubblicato un breve commento di destra sull’anarco-capitalismo criticandolo in un’ottica anticapitalista e libertaria di sinistra. Giustamente. Al che Tom Blanton ha aggiunto questo commento:

Credo che l’espressione “anarco-capitalismo” sia stata inventata per attrarre i (ragionieristici) conservatori. Per un conservatore, l’anarchia è uno spauracchio estremistico, al contrario un tipo in giacca e cravatta che si definisce anarco-capitalista fa meno paura, soprattutto se sostiene il candidato repubblicano. È uno che manda un segnale, vuol far capire che non vuole proprio abbattere lo stato, ma più semplicemente tagliare un po’ di tasse e normative: un Ronald Reagan!

E Dave Hummels gli ha risposto:

Ben detto, Tom! Hai riassunto perfettamente il pensiero di Murray Rothbard.

Se gli anarco-capitalisti cercassero un altro nome, io suggerirei bossertari [boss + libertari, ndt]. Non so se suona bene, ma credo che spieghi meglio dove stanno le loro simpatie.

Questo qua sopra è un atteggiamento comune, una sorta di autocompiacimento diffuso tra i libertari di sinistra quando cercano di spiegare cos’è l’anticapitalismo di libero mercato e in cosa differisce dall’“anarco-capitalismo”. Non sono in grado di valutare tutte le fonti delle citazioni di Murray Rothbard, ma posso certamente dire che, contrariamente a ciò che si crede, l’espressione “anarco-capitalismo” non è opera sua.

Certo, nella sua maturità Rothbard la usava spessissimo. Negli anni sessanta definiva se stesso “anarchico” e “anarchiche” le sue opinioni. E sicuramente i primi sedicenti anarco-capitalisti furono fortemente influenzati dalle sue idee. Ma l’espressione anarco-capitalismo non nasce, per quanto ne so, dalle opere di Rothbard. Compare sporadicamente negli scritti del 1969[4], ma per un suo uso diffuso dobbiamo aspettare i primi anni settanta. Le prime attestazioni risarrebbero a Society Without Coercion: A New Concept of Social Organization, un pamphlet dell’anarchico randiano Jarret Wollstein, che usa l’espressione “anarco-capitalismo” nel capitolo 2.4, “Naming a Free Society”. Ma ne riferisce come di un’espressione che già circolava nel suo ambiente, e io non ho gli strumenti per capire se il capitolo riflette il materiale originario del febbraio ’69 su cui si basa il pamphlet, o se è stato introdotto ad agosto ’69, quando il materiale è stato rivisto e trasformato in un pamphlet.[5]

In effetti, le prime attestazioni a stampa dell’espressione “anarco-capitalismo” che son riuscito a trovare[6] non provengono né da Wollstein né da Rothbard, bensì dal Karl Hess’s manifesto “The Death of Politics,” pubblicato su Playboy a marzo 1969. E se pensate che Hess usi l’espressione per attirare i conservatori aziendalisti, mi piacerebbe sapere che genere di conservatori conoscete. Ne pubblico il testo; con Karl che sfreccia oltre il muro del suono ideologico. Il neretto è mio.

Non è tempo di politiche radicali rivoluzionarie. Non ancora. Nonostante i disordini, le rivolte, il dissenso e il caos, viviamo in un’epoca dalla politica reazionaria. Sia la destra che la sinistra sono reazionarie e dispotiche. Ovvero, entrambe sono politiche. Cercano solo di cambiare il modo in cui si acquisisce e si pratica il potere politico. I movimenti radicali rivoluzionari, per contro, non vogliono cambiare ma abolire. L’obiettivo dell’abolizione è chiaro. È la politica stessa.

Radicali e rivoluzionari sono allenati a tenere di mira la politica. Quando uno stato fallisce, milioni di persone capiscono che lo stato non è mai riuscito e non riuscirà mai a gestire la loro vita; alla fine, l’inadeguatezza dello stato viene a galla, ed è su questa base che nascerà un vero movimento radicale rivoluzionario. Intanto i radicali rivoluzionari vivono una vita solitaria. Sono odiati e temuti tanto a destra quanto a sinistra, per quanto destra e sinistra debbano prendere da essi per sopravvivere. L’anima radicale rivoluzionaria è il libertarismo, mentre la sua forma socioeconomica è il capitalismo laissez faire.

Il dettato libertario dice che l’uomo è padrone assoluto della sua vita, che può fare e disfare come gli pare. Tutte le sue azioni sociali devono essere dettate da spontaneità. Alla base di una società aperta e umana c’è il rispetto di una eguale padronanza altrui della propria vita e, di conseguenza, anche dei frutti di tale vita. In quest’ottica, l’unica (ripeto: unica) funzione della legge o dello stato è di offrire quella sorta di autodifesa contro la violenza che l’individuo, se fosse abbastanza forte, eserciterebbe da sé.

Se non fosse che il libertarismo concede liberamente all’uomo il diritto di formare spontaneamente comunità o stati su base etica, il libertarismo potrebbe essere definito anarchico.

Il capitalismo laissez faire, o anarco-capitalismo, non è che la forma economica dell’etica libertaria. ~ Karl Hess, The Death of Politics, Playboy (marzo 1969).

L’articolo presenta diverse curiosità. Alle opinioni si intrecciano tanti errori (sono qui per parlare di anarco-capitalismo, non per elogiarlo). Ad ogni modo, è evidente che, adottando il termine “anarco-capitalista” (e non altre etichette comuni a quel tempo: “libertario”, “individualista”, “di libero mercato” e così via), Hess non stia affatto cercando di attirare conservatori o uomini d’affari, o di evitare l’accusa di radicalismo. Al contrario, sembra voler suggerire che il suo ideale di libertà economica e politica dovrebbe terrorizzare i conservatori:

Nel conservatorismo c’è una voragine in cui il discorso della libertà precipita sfasciandosi sulle rocce del dispotismo. I conservatori sono preoccupati perché lo stato ha troppo potere sulle persone. Ma sono stati loro stessi a dargli quel potere. Sono stati i conservatori di ieri, molto simili a quelli di oggi, a cedere allo stato il potere di generare nella comunità non solo ordine, ma un certo tipo di ordine.

Sono stati i conservatori, apparentemente spaventati dalla rivoluzione industriale (oddio, chiunque potrebbero arricchirsi!), a sferrare il primo colpo contro il capitalismo sostenendo e accettando leggi che hanno impedito innovazione e concorrenza, aprendo la strada alla vita facile e alla collusione dei cartelli.

Sono anni che le grandi aziende statunitensi hanno dichiarato guerra alla competizione, e quindi anche al capitalismo laissez faire. Vogliono un genere di capitalismo in cui lo stato e le grandi aziende agiscano come soci. Le critiche contro questa tendenza statalista delle grandi aziende oggi viene più da sinistra che da destra, e questo è un altro fattore che rende difficile distinguere le parti in gioco. John Kenneth Galbraith, ad esempio, ha recentemente rimproverato le grandi aziende per la loro mentalità anticompetitiva. La destra dal canto suo le difende beatamente come se non fossero diventate quel potere dispotico e burocratico che essi stessi attaccano quando si tratta dello stato.

L’accusa della sinistra contro il capitalismo clientelare è, a ben vedere, un’accusa contro un modello economico possibile solo se c’è collusione tra stato dispotico e aziende burocratizzate e anti-imprenditoriali. È una sfortuna che tanta parte della nuova sinistra sia così poco critica da arguire da ciò che tutte le forme capitaliste sono cattive, e che l’unica alternativa è la piena proprietà statale. Questo modo di pensare ha il suo analogo speculare a destra.

Sono stati i conservatori americani, ad esempio, a smettere fin da subito di combattere contro l’affiliazione e le normative statali, accettando queste ultime per tornaconto personale. Ancora oggi i conservatori venerano lo stato come strumento punitivo e lo rifiutano come strumento di beneficenza. … L’incubo che ossessiona la vita e le idee politiche (oggi spesso riassunte dall’espressione “legge e ordine”) di tanti conservatori è la rivolta. Per quanto ne so, per soffocare le rivolte i conservatori sarebbero disposti a concedere un potere illimitato allo stato.

Anche in una società dominata dal laissez faire, ovviamente, occorrerebbe ipotizzare il diritto all’autodifesa, ed è facile supporre che questo si fonderebbe sulla comunità. Pertanto, il diritto sarebbe sempre e esclusivamente difensivo. I conservatori tradiscono la facile volontà di credere che lo stato debba anche svolgere azioni offensive per prevenire problemi. “Fare il duro”, si dice solitamente. Che non significa solo fare i duri con i rivoltosi. Significa fare i duri con tutta una gamma di comportamenti: accorciare i capelli lunghi, far sloggiare chi suona la chitarra nei giardini pubblici, fermare chiunque non abbia l’aria da oratorio, arruolare tutti i fannulloni per metterli in riga, ripulire i cinema e le librerie dalla “sporcizia” e, sempre e soprattutto, far stare al loro posto “quelli là”. Secondo i conservatori, l’alternativa è fin troppo spesso tra conformità sociale e caos.

Ma anche se queste fossero le uniche alternative, il che ovviamente non è, ci sono molte ragioni per preferire il caos alla conformità. Credo che io (e sicuramente anche i miei valori) avrei più possibilità di sopravvivere in una città in fiamme piuttosto che con la nazione in galera. ~ Karl Hess, The Death of Politics, Playboy (marzo 1969)

Nonostante l’estremismo del saggio e l’aperta ostilità verso i conservatori e le grandi aziende, Hess è in realtà molto più esitante con il mondo “anarco” che non con il “capitalismo”, ma fa comprendere chiaramente che la sua antipolitica in fondo significa abolizione dello stato:

Sia i conservatori che i liberal condividono l’idea mistica che le nazioni significhino davvero qualcosa, magari qualcosa di eterno. Entrambi vedono in certe linee su una mappa, per terra o in aria, la capacità di creare magicamente una comunità umana che richiede sovranità e consenso. I conservatori, quelli che si avvolgono nella bandiera a stelle e strisce, ne sono inebriati. I liberal sentono la stessa cosa quando con certezza accademica dicono che bisogna “garantire” i confini ai sovietici per evitare di innervosirli. Oggi, al massimo della confusione, c’è chi pensa che le linee tracciate col sangue dall’Unione Sovietica sono meglio delle linee tracciate, sempre col sangue, dalla politica estera americana. I politici la pensano proprio così.

Radicali e rivoluzionari vedono, logicamente, nel futuro della nazione un non futuro, un passato; e spesso un passato interessante, e per certi tratti utile in senso storiografico. Ma alcune linee sulla carta, sul terreno o nella stratosfera non bastano a garantire il futuro dell’umanità.

È invece grazie alla tecnologia che possiamo immaginare un giorno in cui l’idea di nazione sarà morta come l’idea di due fazioni armate. Per prima cosa, possediamo abbastanza informazioni e ricchezza da sfamare tutti, senza dover passare dalla mattanza di qualcuno. Secondo, non c’è comunque più modo di proteggere niente e nessuno al di là di un confine nazionale.

Neanche l’Unione Sovietica, che ha quello che i conservatori temono come controllo “assoluto” sulla popolazione, è riuscita a fermare, tracciando linee e uccidendo migliaia di persone, il permeare di idee, atteggiamenti, musica, poesie, danze, prodotti o desideri sovversivi. Se il più grande stato di polizia al mondo (noi o loro, secondo l’orientamento politico) non riesce davvero a difendersi al di là dei propri confini, come possiamo noi, noi popolo, avere fede nei confini?

Dobbiamo supporre che sia i liberali che i conservatori reagirebbero con grida di offesa e reazioni inconsulte all’idea di una fine della statualità. I conservatori dicono che non può avvenire. Ci sarà sempre un ufficio doganale statunitense. I liberal dicono di volere allargare la statualità, non ucciderla, portarla a livello mondiale, creare una moltitudine di mini e micro nazioni nel nome della conservazione etnica e culturale, per poi far sorgere un’enorme superburocrazia che controlli tutte le altre piccole burocrazie.

Come Linus, liberali e conservatori non tollerano l’idea di lasciare la coperta, uscire dalla statualità e vivere per sé, abitanti del pianeta e non di uno stato. Qui gli isolazionisti (che a volte sono tali solo per interesse) incappano in un paradosso. L’isolazionismo non solo dipende dalla statualità, ma la rende inflessibile. Esiste una variante di isolazionismo che potrebbe evitare ciò optando per un’isolamento soltanto militare, per un uso soltanto difensivo della forza. Ma anche così, in questi tempi di missili, basi, bombardieri e sovversioni, servirebbe una definizione politica della difesa nazionale. ~ Karl Hess, The Death of Politics. Playboy (marzo 1969)

In questo saggio (il più simile a un documento fondante del sedicente “anarco-capitalismo” tra quelli che ho trovato) Hess sottolinea come un libertario, o un radicale, dovrebbe schierarsi in tutta coerenza con il socialismo spontaneo, la rivoluzione nera e gli studenti radicali della Nuova Sinistra.

Ricordo bene sull’argomento un commento di Roy Innis, direttore nazionale del Congresso dell’uguaglianza sociale. Parlava del sindaco John Lindsay che da liberal inflessibile distribuiva soldi ai negri fino a soffocarli, o a metterli a tacere. Innis commentò dicendo che Lindsay non avrebbe mai dato ai negri l’unica cosa che questi volevano: il potere politico. Voleva dire che la comunità negra di Harlem, ad esempio, più che essere annaffiata coi soldi, avrebbe preferito avere in regalo Harlem stessa. Dopotutto, era una comunità. Perché non avrebbe dovuto governarsi da sé, o almeno vivere per sé, senza essere un vassallo della politica di New York? Io però sono contro l’idea di fare a Harlem una struttura politica separata ma in fondo simile all’amministrazione di New York. Forse faccio un’ingiustizia a Innis, che è una persona eccezionale, se dico che questo è ciò che aveva in mente.

Ma al di là di tutto ciò esiste, tra le correnti nascoste del Potere Nero di questo paese, un’eccitante potenzialità che potrebbe diventare una rivolta contro la politica. Si tratta della possibilità di avere una comunità molto meno strutturata e con molte più istituzioni spontanee al suo interno. Non dubito che, a lungo andare, questo movimento e altri simili scopriranno che la nascita di una comunità volontaria passa per il laissez faire. Laissez faire è l’unica forma organizzativa socio-economica in grado di ammettere la presenza di un kibbutz a Harlem, un hippy che vende hascisc per strada e, appena qualche isolato più in là, una società d’ingegneristica che realizza a Detroit un’auto a propulsione nucleare a basso costo.

Cos’altro potrebbe tollerare una persona libera se non il kibbutz, che è un esempio di socialismo volontario? Quanto al venditore di hascisc, rappresenterebbe la fabbrica dei sogni istituzionalizzata ma spontanea, e gli ingegneri la creatività senza normative. Il tutto sarebbe capitalismo laissez faire in azione, senza bisogno di burocrati che aiutano, frenano, civilizzano o stimolano. Nella loro varia esistenza, gli abitanti di questa comunità volontaria, man mano che altri entrano in rapporti commerciali spontanei con loro, risolverebbero la questione “urbana” nella sola maniera possibile: con la scomparsa della politica che ha fatto nascere la questione.

Oggi gli studenti dissidenti, chiedendo che università e comunità agiscano responsabilmente con i propri studenti o abitanti, sembrano accorgersi di aver sfondato una porta dietro la quale si trovano nuove verità e nuove politiche. Ma molti giocano ancora alla vecchia politica. Quando i dissidenti lo capiranno, e quando si uniranno più per attaccare il potere politico e l’autorità che per acquisire tale potere, allora questo movimento potrà realizzare il luminoso potenziale nascosto nell’immaginazione di tanti di loro. Per inciso, quegli studenti attivisti che in tutto il mondo lottano contro il potere politico, e non per cercare di afferrarlo, non dovrebbero essere criticati per l’assenza di un programma alternativo, perché non spiegano chiaramente quale sistema politico vorrebbero dopo la loro rivoluzione. Ciò che dovrebbe venire in seguito non è altro che ciò che loro stessi implicitamente propongono: nessun sistema politico.

In quest’ottica, il modo d’agire del movimento sembra molto promettente: a maglie larghe, antidispotico coi suoi e rivoluzionario con gli altri. Per la libertà non servono studenti che piagnucolino contro il sistema ma che lo abbandonino per istituire una propria scuola di valore e concertare una rivolta interessata contro le norme politiche e contro quel potere che oggi dà soldi a scuole pubbliche e private, che invece avrebbero bisogno della competizione portata da nuove scuole con nuove idee.

La stessa logica, in retrospettiva, esisteva ai tempi dei sit-in negli stati del sud. Se il nemico erano le leggi statali che imponevano servizi segregati, perché non servirsi di una tattica appropriata che sfidasse queste leggi costruendo mense non segregate e difendendole a spada tratta? Questa è una causa a cui ogni libertario potrebbe rispondere.

Discorso simile riguardo la scuola. Chi si ribella contro le leggi sull’istruzione pubblica è un valoroso ribelle. Chi strilla perché vorrebbe che nel consiglio scolastico ci fossero più liberal o più conservatori è un passatista, una persona politicamente orientata; un ribelle di plastica.

La politica ha sempre rappresentato il sistema istituzionale costituito con cui qualcuno esercita il potere per vivere sulle spalle degli altri. Ma l’uomo non ha bisogno di vivere sfruttando gli altri, neanche in un mondo piegato a questi voleri.

È la politica che divora gli uomini. Un mondo basato sul laissez faire li renderebbe liberi. Ed è in una liberazione di questo genere che potrebbe già star nascendo la più profonda tra le rivoluzioni. Non avverrà dall’oggi al domani, così come i lumi della razionalità non si sono accesi in un secondo, e neanche oggi hanno ancora raggiunto il massimo fulgore. Ma avverrà. Perché deve avvenire. L’uomo può sopravvivere in una realtà avversa solo con l’uso del suo intelletto. Senza di esso, non basterebbe la forza delle dita, delle unghie, dei muscoli o del suo misticismo a mantenerlo in vita. ~ Karl Hess, The Death of Politics, Playboy (marzo 1969)

Cosa vuol dire che gli anarco-capitalisti hanno ragione? Che l’anarchismo è, o anche solo potrebbe essere, capitalista, o che Hess aveva ragione quando adottava queste sue etichette? Assolutamente no. Significa che gli anarchici di mercato dovrebbero accettare l’identità “capitalista”, o che l’idea che ne dà Hess è particolarmente coerente? Come ho detto, a questo proposito ho alcune mie idee personali, credo che in questa visione delle cose si intreccino vari errori, alcuni dei quali riguardano l’evoluzione semantica del termine nel dibattito recente.

A voler fare un’analisi attenta dell’espressione “anarco-capitalismo”, è importante osservare bene da dove viene la sua formulazione, quando nasce la tradizione, in quale epoca emerge. L’espressione compare per la prima volta in documenti dichiaratamente ultra estremisti scritti da persone della sinistra laissez faire. Persone che avevano il massimo interesse a rivelare il lato rivoluzionario di ciò in cui credevano e a dimostrare la massima avversione verso i conservatori e le grandi aziende convenzionali. Partendo da questo presupposto, è importante che un libertario di sinistra controbatta le tesi dell’anarco-capitalismo con onestà, che faccia dei distinguo con argomenti seri e sostanziali, non ricorrendo a tesi campate in aria e auto-adulatorie riguardo le motivazioni e le origini dell’avversario.

Detto tra parentesi, qualcuno penserà che non vale la pena passare tanto tempo a leggere o a cercare di capire scritti anarco-capitalisti. Non biasimo chi arriva a questa conclusione, il tempo è limitato e c’è altro da leggere. Una ragione in più per non fare affermazioni generiche sulla natura dell’anarco-capitalismo, le sue ragioni o le sue origini.

Note

1. In particolare, il tentativo di abbinare ideali di libero mercato a qualcosa di simile ad un commercialismo stereotipato e agli schemi proprietari e produttivi capitalistici produce spesso teorie economiche che ignorano completamente tutti i più importanti fattori della vita economica, eliminando dal mercato liberato gli aspetti più dirompenti e anarchici e la prassi più prettamente di mercato.

2. Come, ad esempio, l’illusione che gli ideali libertari debbano spontaneamente attirare i conservatori socio-economici; o l’idea assurda che lo stato controllore sia perlopiù l’effetto di fermenti populistici, che colpisca soprattutto i ricchi e chi ha le idee giuste, mentre al contrario è in gran parte il risultato di deliberate campagne concertate dalle grandi aziende che mirano ad accrescere le funzioni e il potere dello stato e ad imporre norme vantaggiose per le aziende stesse, campagne i cui effetti avvantaggiano inevitabilmente gli industriali e i finanzieri più protetti.

3. Le nostre conoscenze riguardo gli anarchici individualisti anticapitalisti dell’Ottocento sarebbero molto più scarne e incerte se non fosse per le opere di autori filocapitalisti come Carl Watner e Wendy McElroy, che scrivevano in tribune come il Journal of Libertarian Studies e Independent Review.

4. Vedi anche “Anarcho-Rightism”, del mese di ottobre 1969, e “The Movement Grows”, giugno 1969.

5. Credo che sia stato introdotto più tardi, dopo la discussione. Wollstein originariamente propose il titolo “Stato Senza Coercizioni”, e dai suoi commenti sulle parti del libretto che modificò, e perché le modificò, sembra di capire che le sue revisioni servissero a dare un tratto più esplicitamente anarchico, probabilmente frutto di una conversazione con Roy Childs che all’epoca già si definiva “anarchico”.

6. Se conoscete un esempio del contrario, lasciate un commento: questo è un lavoro in corso.

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