Essere “Altro”: Recensione di The Lie of 1652

Di Dawie Coetzee. Originale: “None of the Above”: A Book Review of The Lie of 1652 del 17 ottobre 2022. Traduzione di Enrico Sanna.

In Sudafrica le parole assumono un significato diverso. La sovrapposizione di particolari significati socio-politici, eredità del dispotismo razziale, ha oscurato, fino a perderlo del tutto, il significato ordinario con cui certe parole comuni sono note altrove. Ad esempio, la parola località intesa come “sobborgo”, ovvero quella compagna o città ombra che accompagna ogni insediamento urbano come un animale al guinzaglio, ha subito una riduzione di significato da luogo in cui ci si trova a oscuro termine tecnico. La gente dice: “stasera vado nella mia località”, oppure: “nella mia località si sta male”. Se chiedi “qual’è la località di Pretoria?” non ti rispondono con le coordinate GPS ma con tre nomi: Atteridgeville a ovest, Mamelodi a est e Soshanguve/Winterveld a nord: un esempio classico di pianificazione spaziale dell’apartheid.

Idem per l’espressione di colore così come viene intesa in Sudafrica. Secondo le leggi e la politica dell’apartheid aveva un significato particolare, anche se incoerente: indicava una persona di razza mista o non determinata, né bianca né nera, semplicemente “altro”. In Sudafrica, di colore non è sinonimo di negro, come altrove. Anche i sudafricani nati dopo la fine dell’apartheid ufficiale sono cresciuti con l’idea che di colore e negro siano due cose che si escludono a vicenda. Questo porta a innumerevoli possibili interpretazioni sbagliate; ad esempio, è difficile evitare che l’espressione persona di colore, nel senso inteso dalla teoria critica della razza, si riferisca specificamente alle persone meticce escludendo di conseguenza le persone dalla pelle “più scura”. Alcuni amici miei del locale movimento antirazzista sono costretti a impiegare un’ora al giorno per far notare l’errore.

Data la sua nazionalistica ossessione per i gruppi, il regime dell’apartheid usava inevitabilmente l’espressione di colore per indicare una comunità particolare perlopiù concentrata attorno alla Provincia del Capo Occidentale, e altrettanto inevitabilmente l’usava per costruirci sopra un intero edificio mitologico. Ed è proprio questo mito, e per estensione tutto il mito fondativo dell’apartheid, che Patric Tariq Mellet cerca di fare a pezzi col suo The Lie of 1652: A Decolonised History of Land, del 2020. L’autore attinge a recenti ricerche sulla storia del Capo di Buona Speranza, che nella quasi totalità sposano le nuove tesi che rivedono la preistoria locale come un periodo caratterizzato da frequenti contatti tra popolazioni lontane, vivaci scambi culturali e innovazioni non lineari di vasta portata.

La versione ufficiale, per contro, parla di un Sudafrica nato il sei aprile 1652, quando Jan van Riebeeck, in braghe di tela, arriva nell’estremità meridionale dell’Africa più nera, Prinsenvlag[1] in mano, tra lo sbigottimento di un gruppetto di nativi in perizoma il cui mondo non andava oltre le Boland Mountains. Questi omini dalla pelle brunastra, chiamati col nome difficile di Khoekhoen, rappresentavano un’anomalia razziale: erano gli ultimi eredi di una varietà quasi estinta, distinta, unitaria e del tutto avulsa alle popolazioni africane che allora si pensava che stessero migrando da nordest. Da qui la storia di una “terra disabitata”, occupata giusto da queste trascurabili eccezioni, e simultaneamente occupata, da un lato, dai bianchi e, dal lato opposto, da popolazioni nere. Con questa storia, il regime è riuscito a tessere una filosofia basata su una indispensabile nazionalità territoriale (volgarmente detta Blut und Boden) che ha condotto alla plateale appropriazione di una grossa fetta del continente africano.

Si tratta della Menzogna del 1652, che Mellet si accinge a fare a pezzi. La rivelazione più sorprendente, rispetto a ciò che ci ci hanno sempre insegnato, è che con il suo arrivo van Riebeeck non scopre nulla. Così come non nasce nessuna Città del Capo, la “città madre”, dato che già esisteva un insediamento indigeno più o meno dove oggi si trovano la Grand Parade e il municipio, insediamento fondato dagli ||Ammaqua, o Watermans, una comunità che ruotava attorno a un’industria che per più di mezzo secolo fornì l’acqua dolce del fiume Camissa (purtroppo oggi coperto e ridotto a scarico delle acque meteoriche) alle navi europee di passaggio. Gli ||Ammaqua conoscevano l’uomo europeo, se la cavavano con la sua lingua, secondo come gli andava ne scimmiottavano il modo di vestire, facevano lunghi viaggi con le navi europee, mantenevano durature relazioni commerciali e presero più di un marinaio europeo come vicino, amante o marito.

Col diario di van Riebeeck in mano, Mellet spiega come le relazioni tra quest’ultimo e Autschumao, le cui capacità come fornitore di acqua ne avevano fatto un portavoce della comunità ||Ammaqua, da precario rispetto reciproco precipitarono in aperta ostilità. Dai resoconti emerge un Autshumao capace, intraprendente e volubile, mentre van Riebeeck fa una figura mediocre, ottusa, amabile fino ad un certo punto. Perché, stando al diario, è possibile determinare con esattezza l’inizio esatto della storia coloniale sudafricana al 1658, quando van Riebeeck perse le staffe con Autshumao e invocò l’intervento militare della Compagnia delle Indie orientali olandesi, o VOC. Fu questa la reazione di chi si sente frustrato da un avversario più intelligente, il mediocre scacchista che tira fuori la pistola.

Questo fatto è importante per due ragioni. Primo, Mellet dimostra come la zona di Città del Capo fosse già abitata molto prima dell’arrivo di van Riebeeck e, secondo, non ci fu nessuna conquista coloniale. Questa condizione, pur con sbalzi d’umore, andò avanti per diversi anni. Non pare che van Riebeeck avesse intenzioni predatorie nel 1652. Le testimonianze parlano in effetti di una Compagnia delle Indie Olandesi inizialmente scettica riguardo l’utilità di una conquista, una compagnia che sperava che un van Riebeeck ammonito si limitasse a mantenere una relazione pacifica o poco più. Questo è importante perché se si fa risalire la conquista coloniale ad un preciso primo atto di aggressione col sostegno delle forze istituzionali si fornisce una valida rilettura in chiave anticoloniale alternativa alla semplicistica versione etnica, secondo la quale la conquista coloniale cominciò con l’arrivo dei bianchi (una specie invasiva, una trasgressione al Blut un boden) in terra africana.

The Lie of 1652 contiene molti dettagli interessanti. Le testimonianze riguardo gli ||Ammaqua fanno pensare ad una struttura sociale marcatamente orizzontalistica, non gerarchica, tipica dell’area a quei tempi. Ci sono anche le prove di relazioni inveterate tra i vari gruppi Khoekhoe e i Xhosa a occidente, tanto che è impossibile fare una distinzione netta, e questo discredita le voci che parlano di un’originaria divisione etnica, premessa di fondo di una tesi della terra vergine. Mellet parla anche del vecchio trucco dei colonizzatori che consisteva nel nominare governanti fantoccio, cosa che richiese l’istituzione, da parte degli olandesi, del kapteinskap, o “capitanato”, laddove non era mai esistito niente di simile. Ancora oggi, però, chi crede in una teoria etnica parla del kapteinskap come di un’istituzione tipicamente indigena, un mostro sacro la cui autorità era pressoché assoluta.

Mellet racconta come la Compagnia delle Indie orientali olandesi installò coloni europei tramite le leenplaatsen (fattorie a mutuo), un esempio di espansione latinfondista che unito al’istituzione della schiavitù diede come risultato certe forme di agricoltura, fattorie, comunità e insediamenti rurali che erano un fatto inconsueto per i coloni stessi.

Questo ricorda ciò che scrive Hans Fransen in Old Towns and Villages of the Cape (2006), quando parla delle origini delle tipiche cittadine sudafricane, nate per svolgere funzioni completamente diverse da quelle delle precedenti città europee, esempio chiaro di insediamenti dal caratteristico, inquietante fuori luogo, una periferia senza centro, un luogo in cui tutto punta ad un immanente, incombente altrove anche dopo la nascita delle “località”.

Il libro continua con un resoconto accurato delle guerre di frontiera, come la rivolta “Jij” di Louis van Mauritius nel 1808. Giusto qualche decennio più tardi, la cultura popolare dell’area di Città del Capo fu teatro di un tentativo, tragicamente breve, di istituire una società a-razziale ad opera di personaggi come Saul Solomon. Mellet illustra la grande varietà di persone che per scelta o per forza arrivarono nell’area, dai fondatori della comunità cinese agli schiavi fuggiti dagli Stati Uniti, ai mardijker e altri musulmani, e poi i primissimi fondatori della comunità musulmana locale, i malagasi, filippini, angolani, indiani, zanzibaresi e numerosissimi altri: olandesi, francesi, tedeschi, inglesi, portoghesi e greci. L’espressione americana “melting pot” riassume bene l’idea. L’immagine finale è di una feconda società cosmopolita.

L’apartheid non aveva bisogno di creare dal nulla un’impalcatura teorica con cui costringere questa realtà effervescente entro la camicia di forza di uno stato nazione westfaliano spacciato per indispensabile. In gran parte tutto ciò era già stato fatto, a diverse riprese, dal governo coloniale britannico e, dopo il 1910, dalla sempre più razzializzata Unione Sudafricana. A creare l’espressione persona di colore nell’accezione specificamente sudafricana non fu l’apartheid, che non fece altro che aggiungervi la sua caratteristica goffagine e stupidità. Il “vario” diventò un “altro” da segnare con una crocetta su un questionario.

Oggi, dopo aver insegnato per generazioni che le popolazioni si sviluppano nell’isolamento reciproco e che andrebbero in malora senza un senso di appartenenza nazionale, vediamo emergere un curioso nazionalismo “Khoi-san”. Vediamo popoli appartenenti al mondo intero (se la cosa ha un senso genetico) vantare una purezza genetica confinata ad un angolino dell’Africa sudoccidentale, e addirittura non contaminata da “sangue bianco”. Un falso antistorico.

Credo che dietro The Lie of 1652 Mellet nasconda il tentativo di confutare soprattutto queste teorie, dato il suo forte atteggiamento critico in proposito e data la complessa unicità rappresentata dal suo sfondo famigliare in grado di offrirgli un forte interesse a tale confutazione, così che il suo programma finisce per applicarsi necessariamente ad una realtà molto, molto più ampia. Ho voluto leggere il libro spinto da altri suoi precedenti in cui, secondo me giustificatamente, caratterizzava certi essenzialisti di colore della realtà locale come “fascisti”, e questo aveva mi aveva fatto una certa impressione. L’abbondanza di numeri ne fa in certi punti una lettura arida, ma ciò che più mi colpisce è la montagna di commenti a supporto di una rilettura radicalmente cosmopolita della storia.

Ma mi ha deluso la riluttanza dell’autore a fare il passo finale: smascherare l’apartheid che separa la propria appartenenza etnica dal resto dell’Africa; per quanto si dichiari contro l’essenzialismo etnico, Mellet non critica l’appartenenza etnica in quanto categoria definita. Proclama entusiasticamente una “identità africana” circondata da una distesa di rottami ideologici coloniali. Comprensibile, data la storia, visto che, per quanto ne so, Mellet non è anarchico.

Da quel che so, pare che si vada verso l’affrancamento da qualunque indispensabile identità assegnata, verso la libertà di crearsi un’identità in qualunque momento, o di cambiarla quando occorre. Per chi è cresciuto combattendo contro l’imposizione forzata di un nazionalismo spurio, questa è libertà. Le persone non sono emanazione di gruppi, sono i gruppi ad essere un’emanazione delle persone. Tra due persone si forma un gruppo reale quando nella loro relazione esiste un termine operativo, ma questo gruppo cessa di esistere quando viene a mancare il loro bisogno di rapportarsi in questi termini. Il gruppo si riforma, magari in forma leggermente diversa, ad ogni nuova relazione. Questo non significa che il termine non prenda forma da un’oggettiva struttura socio-pratica, ma che, con un minimo di comprensione, le persone sono libere di fare, disfare e rifare gruppi. Le identità di gruppo sono contenuti culturali, esistono come asserzioni e non come fatti. Pongono interrogativi, esistono nel porre interrogativi e si propagano come risposte permeabili alla nostra creatività individuale.

In un certo senso, tutti noi siamo “altro”, e nonostante tutte le sofferenze patite quasi invidio quella comunità che, in maniera prettamente estetica, è “altro”. Non è questa una realtà di cui essere orgogliosi?

Note

1. La bandiera del Sudafrica dell’apartheid comprendeva la Prinsenvlag con la Union Jack, la Vierkleur della Repubblica del Transvaal e la bandiera dello Stato Libero di Orange raggruppati nella fascia centrale, il che ho sempre ritenuto un’espressione coreografica appropriatamente sfacciata e sorda e volutamente ignorante. Non mi ha sorpreso, quando ho creato il link, vedere che la Prinsenvlag è uno dei simboli dell’attuale estrema destra olandese. Mi chiedo quanto abbia influito l’associazione di quel simbolo con l’apartheid.

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