Di Dawie Coetzee. Originale pubblicato il 13 ottobre 2022 con il titolo The Long Shadow of Colonialist Ideology. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
È sconfortante notare quanto spesso, nell’attuale dibattito pubblico in Sudafrica, elementi dell’ideologia coloniale spuntano proprio in chi grida che non si può combattere il padrone con le sue stesse armi. Sconfortante perché vorrei che fosse vero! A prima vista, la metafora sembra senza senso: se sono efficaci, che importa a chi appartengono le armi? Dire che importa significa ignorare le intenzioni, come dire che le armi del padrone sono complessi e strutture ideologiche pensate appositamente per svolgere funzioni oppressive e nient’altro. Perché l’idea che tutto ciò che riguarda il padrone è permeato della sua essenza unica ed esclusiva è in sé un’arma del padrone, anzi una delle armi contemplate dall’espressione stessa.
Ho conosciuto persone convinte, immagino, che esistano persone geneticamente predisposte a parlare una lingua e non un’altra; che l’ingiustizia di imporre istituzionalmente una lingua a chi ne parla un’altra rappresenti non il mancato rispetto delle circostanze sorte da specifiche tradizioni di isolamento e oppressione ma un rifiuto della loro natura genetica. L’accusa non è di voler perpetuare un ordine ingiusto, ma di voler favorire una “razza”, qui intesa in senso prettamente fascista.
Ultimamente mi capita spesso di trovare, a proposito dell’invasione russa dell’Ucraina, posizioni che vanno molto oltre le solite balle comuniste che parlano di propaganda dei media più diffusi e della Cia. La logica apparentemente è:
1. L’Unione Sovietica e il regime di Putin sono due incarnazioni della stessa cosa: l’eterna anima russa;
2. Questa etnica anima russa mostrava simpatia per le lotte anticoloniali africane, ovvero per l’eterna anima etnica africana, durante l’era Brezhnev;
3. Dunque l’eterna anima etnica africana ha un vincolo di fedeltà verso l’eterna anima etnica russa, e gli africani hanno l’obbligo etnico-morale di schierarsi con Putin.
L’aspetto ironico è che questa fedeltà indiretta verso l’Unione Sovietica non è posta nei termini di un presunto marxismo sovietico, ma in termini etnico-nazionalistici che marxisticamente parlando sono una bestemmia.
A unire questi aneddoti è la fede in entità etnico-culturali immutabili e reciprocamente indipendenti di cui gli individui sarebbero semplici proiezioni semireali. Temo che questa fondamentale metafisica antropologica nella società sudafricana sia più pervasiva di quanto non appaia. Anche dalle voci più ragionevoli del panorama capita spesso di sentire commenti che fuori da questo contesto hanno poco senso.
Da dove viene questa fede? Non voglio dire che la gente è “plagiata” o “addomesticata”; non sono di quelli che dicono che la gente non è capace di decisioni autonome, sono anzi convinto che le persone siano in grado di avere opinioni proprie e che è questo che fanno tutti i giorni spontaneamente. Allo stesso tempo mi dispiace vedere come questa fede sia diventata una sorta di pensiero predefinito, degli uomini in generale o degli africani in particolare: nella storia documentata, è qualcosa che caratterizza un certo luogo. Eviterei del tutto di rispondere alla questione, se non fosse per la mia esperienza in quella cassa di risonanza che è il discorso politico nel Sudafrica dell’apartheid, un ambiente in cui la fede in entità etnico-culturali immutabili e reciprocamente indipendenti costituiva una diffusa metafisica antropologica di base.
Ricordo i dibattiti di allora. “Come può una nazione sperare di svilupparsi?” si diceva, e “Come può una razza sperare di sopravvivere?” L’idea di base, in senso quasi più lukacsiano che hegeliano, era che le razze fossero il vero soggetto della storia. Lo stesso termine apartheid (letteralmente, “separatezza”) conteneva in sé l’idea di entità etnoculturali reciprocamente indipendenti e chiuse in sé, ad un tempo necessità antropologica e traballante fine storico. Pochi mi capivano quando parlavo di società in termini di relazioni strutturate tra persone.
È significativo che si senta spesso parlare delle due guerre anglo-boere, 1880-1881 e 1899-1902, come di Vryheidsoorloë, ovvero guerre di liberazione. Laddove la “liberazione” non aveva niente a che vedere con la libertà d’agire dell’uomo, ma indicava solo l’eliminazione dell’egemonia imperiale britannica dal processo di “formazione nazionale” dei bianchi afrikaner. Vista così, è chiaro che ci saranno sempre piedi da leccare: non importa se “in uno stato affermato” si prendono i calci sui denti, importa solo sapere a chi appartiene il piede e a chi i denti. La libertà, dunque, non è altro che “una dittatura totalitaria tutta nostra”.
La cristallizzazione del nazionalismo bianco afrikaner dopo le due guerre anglo-boere, cosa che in ultima analisi portò alla nascita del pensiero dell’apartheid e pose le basi del National Party al potere dal 1948, si alimentava tanto del contemporaneo clima intellettuale hegeliano-nicciano-wagneriano che alimentava anche il nazismo tedesco, quanto di precedenti costrutti ideologici colonialistici europei. L’idea di entità etnico-culturali reciprocamente indipendenti si ricollega molto chiaramente al concetto coloniale, perlopiù britannico, di “profonda Africa nera”, con cui lo studio dell’Africa da parte di vari europei e per qualunque fine era interpretato in termini di scoperta, come un “portare la luce” guidati dall’imperialismo coloniale.
Questa idea necessitava di un concetto dell’Africa precoloniale come di un mondo astorico, unito dal suo isolamento dal resto del mondo (che fosse internamente omogeneo o meno): l’Africa doveva essere vista come una “cosa” omogenea, fondamentalmente e eternamente separata dal resto del mondo. La natura di fondo dell’universo doveva mutare al di là di Gibilterra, del Canale di Suez e di Bab-el-Mandeb: da quest’altra parte tutto doveva essere diverso, dalla forza di gravità al comportamento della luce. L’idea di una territorialità etnica immutabile, credere che questo sangue va con questa terra, diventava così una nozione centrale del pensiero coloniale, come si può ben capire dai tentativi coloniali di imporre il concetto di stato nazione alle popolazioni assoggettate, anche se si trattava di concetti sorti all’interno dell’epoca coloniale. L’oriente è oriente e l’occidente è occidente, dicevano; non s’incontreranno mai (basta leggere le righe seguenti per capire che Kipling non predicava ma descriveva un atteggiamento diffuso ai suoi tempi). Ancora oggi si parla automaticamente di un “Occidente” unito, una cosa fatta di calcolatrici tascabili e frigoriferi, opposto ad un “Oriente” fatto di musichette stereotipate e gong dal Bosforo alla Nuova Guinea, ma anche all’Africa. “Africa” e “Africano” dovevano pertanto diventare eterne verità di fondo, assumere un ruolo centrale nella natura fondamentale delle cose; e così anche “l’uomo nero”, “l’uomo bianco”, “l’Europa” e “l’europeo” e molto altro. A ciò si accompagna l’idea secondo cui tutti devono agire principalmente nell’interesse della “propria gente”. Il dogma della natura eterna non ammette contesti storici, dà luogo ad allegre proiezioni del proprio pensiero ideologico, genera panzane storiche di ogni genere che purtroppo sopravvivono imperterrite. Giusto la settimana scorsa mi è capitato di sentire che Gesù avrebbe fondato l’impero romano per garantire la supremazia alla razza europea (frase a favore o contro il colonialismo?)
Semplice world-building, poi associato a epopee spaziali: si ricostruisce un intero universo così che sembra fatto apposta per mettere in atto i programmi di certi empire-builders dai baffi a spazzola, il tutto imposto con una tale forza di persuasione da diventare l’idea di mondo per generazioni.
È stato questo milieu metafisico a mantenere per quarantasei anni un sistema dominato dal Partito Nazionale. Facendo ruotare ogni questione politica non attorno al “cosa” o “come” ma al “chi”; cambiando il discorso da “cosa vogliamo e come possiamo arrivarci” a, più semplicemente, “quali interessi servire a qualunque costo”, il Partito Nazionale è riuscito a ridefinire se stesso come rappresentante indispensabile, schietta manifestazione politica di una presunta “nazione” afrikaner bianca. Dicendo che il voto contro il partito era un voto contro “la nazione” riusciva a separare il dato elettorale dai risultati amministrativi o economici fintanto che la maggioranza dell’elettorato bianco si identificava negli afrikaner.
Credo di poter far risalire l’esistenza di questa metafisica antropologica in Sudafrica a una corrente intellettuale che, passando dall’ideologia dell’apartheid, risale a una precedente mentalità coloniale. Fino a che punto questa ideologia rappresenta la matrice dell’attuale tacita, canonica metafisica che impregna la cultura sudafricana? Quanto è profonda l’impronta lasciata dall’ideologia coloniale? Quanto è estesa la sua ombra? Tra tutti gli errori commessi dall’African National Congress da quando è giunto al potere nel 1994, quello che sono meno disposto a perdonare è il fatto di non aver voluto, per fini elettorali, fare a pezzi questa metafisica. Perché oggi, nei principi fondamentali, il discorso è esattamente lo stesso del 1975.
Possiamo dire che la maggioranza dei sudafricani, pur essendo stata esclusa a forza dal discorso pubblico durante l’apartheid, ne ha subito l’influenza profonda semplicemente perché viveva in un ambiente fortemente impregnato di ideologia coloniale, perché per decenni ha subito il bombardamento delle sue idee di fondo? È qui la rogna, perché parlare di entità etnoculturali reciprocamente indipendenti significa dire che le persone ragionano secondo linee etniche determinate dal loro bagaglio genetico, separatamente dal contesto più ampio. Nega la possibilità di uno scambio culturale, nega soprattutto la possibilità che lo scambio culturale sia universale, ricco di finalità e fondamentale ai fini del funzionamento della cultura.
È molto difficile dire no all’idea di un pensiero determinato geneticamente quando si è cresciuti in un ambiente impregnato di queste idee. Criticarlo diventa quasi impossibile. È come se l’ideologia coloniale ti facesse passare attraverso una porta che diventa invisibile una volta attraversata. È una vera e propria maledizione. Ha prodotto un movimento anticoloniale impregnato di idee nate proprio per consentire e appoggiare il colonialismo, un movimento pronto a difendere la “profonda Africa nera” contro la sua tradizione cosmopolita.
L’ideologia coloniale è riuscita a convincerci non solo che le armi del padrone sono anche le nostre armi, ma anche che tante altre armi, che non hanno niente a che vedere col padrone, sono ugualmente sue. Non sorprende quindi che il suo arsenale sia sempre pieno.
Noi dobbiamo andare oltre. Guardare il mondo che sta venendo alla luce dai recenti studi storico-antropologici. Se usciamo dalla mentalità della “profonda Africa nera”, vediamo un’Africa che è sempre stata in contatto con il resto del mondo, da cui ha sempre appreso e a cui ha sempre insegnato, un’Africa i cui confini sono sempre stati confusi e porosi. Non sarebbe meglio dire così? Non sarebbe meglio ammettere la proprietà (condivisa) del mondo intero?