Di Asem. Originale pubblicato il 9 luglio 2020 con il titolo We Are in Midst of a Seismic Shift, It Is up to Labor to Decide the Outcome. Traduzione di Enrico Sanna.
Un decennio fa usciva The Third Industrial Revolution, seguito alcuni anni dopo da The Zero Marginal Cost Society dello stesso autore, un economista tradizionale politicamente moderato che fa da consulente per il governo tedesco e la Ue. L’autore si lanciava in previsioni estreme come il passaggio a una società senza denaro per effetto dello sviluppo industriale. Nello stesso periodo uscivano The Homebrew Industrial Revolution di Kevin Carson e Postcapitalism di Paul Mason. Sulla base di un’analisi simile, Carson immaginava un’economia politica basata su una produzione indipendente di quartiere, mentre Mason invocava una “socialdemocrazia estrema”. I tre arrivarono indipendentemente a conclusioni simili: il segnale costituito dai prezzi del mercato capitalista è destinato a sfumare in una qualche complessa entità gestionale e coordinativa. A dividerli era il risultato finale prospettato, che andava da un forte stato sociale ad un’economia socialista pianificata al baratto e lo scambio basato su monete locali.
Politicamente, il Green New Deal appare il candidato più probabile, ma non per meriti suoi oggettivi, bensì perché è la cosa più facile da mettere in pratica nell’attuale cornice liberaldemocratica. Questo programma, quando arriverà la crisi, sarà la realizzazione più facile; per riavviare, sostanzialmente, il progetto socialdemocratico. È un programma che farà uscire milioni di persone dalla povertà e migliorerà le condizioni di vita di tanti, ma è anche una pezza e non pone in questione la legittimità di tante istituzioni sociali attuali. Per capire come le cose possono andare nella direzione sbagliata, basta pensare al New Deal originale e ai suoi programmi sociali, che hanno portato a due terzi del mercato azionario nelle mani dei fondi pensioni; col risultato che i lavoratori hanno “vinto” perché sono diventati i legali proprietari dei mezzi di produzione ma, per effetto delle stratificazioni strutturali che attraversano l’economia, nel negoziato con i datori di lavoro vengono trattati sempre come classe nullatenente, mentre le istituzioni finanziarie usano i loro fondi pensionistici come leva contro di loro e a vantaggio di una minoranza di investitori del mercato immobiliare in crisi.
Il punto debole delle attuali istituzioni sindacali è che perdono efficacia nel giro di poche generazioni. Dalle corporazioni si passò alle associazioni di lavoratori dipendenti specializzati in settori particolari, finché i datori non riuscirono ad annullare il loro potere contrattuale introducendo la catena di montaggio che richiede personale non specializzato. Questo diede la possibilità ai sindacati industriali di riorganizzarsi secondo linee di classe, cosa poi superata dalle catene logistiche globali che aumentavano la mobilità del capitale rispetto al lavoro. In fin dei conti, l’economia politica si adatta per evitare frizioni, come accadde con l’anarco-sindacalismo tra le due guerre quando non poteva più essere ignorato. Il movimento dei lavoratori era consapevole del fatto che l’organizzazione non era fine a se stessa ma serviva alla transizione verso una società migliore, transizione che però restava nel lontano futuro e dipendeva da fatti come uno sciopero generale o una vittoria dei socialisti alle elezioni. Raramente, però, era vista come qualcosa da attuare qui e ora.
Immaginare una società dell’abbondanza materiale non è una novità. Risale almeno al 1971, quando Bookchin pubblicò Post-Scarcity Anarchism. È dagli anni sessanta che in Nord America è materialmente possibile vivere in una società con un surplus tale da permettere di distribuire le risorse senza affidarsi ai segnali costituiti dai prezzi e senza accapigliarsi sulle relazioni sociali. Col passare dei decenni, le barriere all’ingresso si sono progressivamente abbassate e oggi la transizione verso una nuova società è diventata pressoché inevitabile. Oggi un quartiere può avere l’autosufficienza energetica al 90%, e considerando che il solare dovrebbe salire del 16% annuo in termini di chilowattore per dollaro, ecco che l’autosufficienza diventa fattibile. Col calo dei prezzi, poi, sarà sempre più fattibile distribuire l’energia in eccesso a chi ha bisogno e senza scambi monetari. Lo stesso si può dire della produzione manifatturiera, con una capacità informatica che raddoppia ogni due anni generando una crescita esponenziale e un calo progressivo dei costi dei beni di consumo, tanto che alla fine le relazioni sociali potrebbero non basarsi più sullo scambio di merci e si potranno distribuire i beni seguendo preferibilmente il bisogno.
Per tanti beni e servizi una società post-scarsità non esiste ancora, ma è fattibile per tante necessità di base come l’alimentazione, l’acqua, gli alloggi e l’energia per uso domestico. Se non viviamo in una società in cui certi beni fondamentali sono distribuiti secondo il bisogno mentre gli altri sono lasciati al mercato – capitalista o meno – è perché occorre risolvere la questione dell’azione collettiva. I mercati non aiutano, anche se possono far calare i costi dei beni abbastanza da permettere ad attori collettivi non di mercato di risolvere il problema. Il più ovvio tra gli attori collettivi non di mercato è lo stato, che quando è democratico ha i suoi costi generali determinati dalla messa in pratica della volontà emersa dalle urne, e necessita di una maggioranza anche per l’atto più semplice. Tolti stato e mercato, c’è pochissimo. Dalle associazioni civili alle istituzioni comunitarie, si tratta perlopiù di gruppi con interessi particolari relativi a gruppi religiosi o comunità etnico-linguistiche, sono inadatti all’organizzazione di massa. Il resto è formato dai partiti, operanti fuori dall’ambito elettorale, e i sindacati.
Non si vedono molti partiti basati su linee esplicitamente antielettorali tranne, forse, i bolscevichi. Quelli esistenti tendono a diventare organizzazioni politiche sotto forma di organizzazioni di lavoratori. I sindacati, quando non sono occupati a fare negoziati con i datori di lavoro, possono offrire ai loro iscritti servizi utili in termini di “calcolo economico interno”, come assicurazioni e credito. Oggi non gestiscono più le risorse con la dovuta efficienza, ma c’è stato un tempo in cui i Cavalieri del Lavoro avevano al loro interno cooperative di consumo che fornivano servizi essenziali ai loro iscritti. Questi servizi e questa capacità organizzativa è proprio ciò che occorrerebbe ai moderni movimenti dei lavoratori per gestire la transizione verso un mondo post-scarsità piena o relativa.
Il movimento dei lavoratori, in quanto organizzazione di massa, è particolarmente adatto a coordinare il passaggio oltre lo scambio economico e altro. Data la sua posizione, può inserirsi negli ingranaggi, diventare l’attore e la guida principale della transizione, e allo stesso tempo migliorare le condizioni di lavoro sotto le vecchie istituzioni, dove ogni dollaro guadagnato dai lavoratori accresce i costi operativi e apre la porte ad ulteriori alternative. Uno degli aspetti peggiori del capitalismo è rappresentato dal villaggio operaio con le attività commerciali di proprietà dell’azienda, per cui il denaro dato con i salari tornava indietro con gli affitti e la vendita di beni. Questa “economia circolare” non può restare a vantaggio esclusivo del capitale; i lavoratori possono ribaltarla chiedendo che l’azienda finanzi e costruisca la rete elettrica a proprie spese, e imponendole per contratto che acquisti da cooperative della comunità una determinata percentuale dei beni necessari. Questo non risolve il problema della coordinazione, ma comporta che questa coordinazione facilita il transito delle risorse dalla vecchia economia politica ad una nuova. Seguirà un periodo di transizione, ricco di sperimentazioni, finché non si troverà il sistema ottimale che non faccia assegnamento sui segnali di prezzo. Tornando all’esempio dell’elettricità, sarebbe meglio distribuire una quota minima a tutti e mettere a disposizione il resto, o non converrebbe monitorare i consumi e, in caso di necessità, staccare per primo chi spreca così da incentivare un consumo attento? Molti sistemi simili dovranno essere sviluppati singolarmente al fine di risolvere problemi relativi ai vari generi di risorse, senza dover ricorrere ai segnali di prezzo, ma per fare questo occorre il giusto ambiente e sufficienti risorse materiali. Dunque occorre prima far transitare le risorse fuori dalla vecchia economia politica.
Tra tutti i testi sul socialismo cibernetico, il più libertario è apparentemente Information Technology and Socialist Construction, forse scritto da De Leon o da qualche comunista consiliarista. Nel libro, la coordinazione è ancora troppo basata sulle gerarchie e i consigli democratici dei lavoratori, ma almeno dimostra che è possibile pianificare l’economia senza uno stato centrale coordinatore. L’economia è diretta dai lavoratori, che manifestano apertamente i propri bisogni e le proprie capacità nei consigli. Il modello immaginato per coordinare il sistema in maniera ottimale, pur considerando i consigli dei lavoratori, e non i singoli lavoratori, l’organo principale della società. Quando Rudolph Rocker coniò il termine anarco-sindacalismo, trasformò la prassi attuale del sindacalismo in un programma politico e l’unione nel veicolo che avrebbe dovuto edificare la società anarchica, secondo una pratica che poi si rivelò utile alla realizzazione del maggiore esperimento sociale anarchico avvenuto durante la guerra civile spagnola. Se vogliamo risolvere il problema dell’azione collettiva, deve accadere qualcosa di simile: un movimento di lavoratori che gradualmente risolva il problema della distribuzione, una classe di risorse per volta. Contemporaneamente, occorre migliorare la situazione dei lavoratori salariati con una transizione ferma. Ovvero, come vuole la tradizione del sindacato Wobbly, costruire il nuovo mondo nel guscio del vecchio.