Di Frank Miroslav. Originale pubblicato il 17 dicembre 2019 con il titolo Individualism Towards Abolition of the Self. Traduzione di Enrico Sanna.
Nell’attuale discorso politico, individualismo è uno dei termini più distorti.
Parlando di individualismo, si tende a confondere, a mettere assieme, due versioni dello stesso rappresentandole come inseparabili. La prima è “individualismo etico”, che vede nell’individuo la massima istanza etica. La seconda è “individualismo metodologico”, che vede nell’individuo l’agente e dunque l’oggetto di studio più rilevante. Le due versioni, nella mente di molti liberal e persone di sinistra, vanno assieme. È implicito l’assunto secondo cui, quando al centro del processo analitico poniamo l’individuo e il suo comportamento, si finisce inevitabilmente per cadere nel gretto egoismo o nel nazionalismo che poi genera l’individualismo sociopatico o la difesa di certi gruppi ad esclusione di tutti gli altri.
Credo che questa confusione sia un grosso errore all’origine di tanta confusione tra mezzi e fini molto diffusa nella società.
Per prima cosa, l’individualismo metodologico non fa affermazioni di valore e non ignora l’impatto che il sistema in generale ha sulle azioni del singolo individuo. Semplicemente, chiede di non fare di tutte le erbe un fascio riguardo le varie oppressioni strutturali note. Le oppressioni su scala sistemica non avvengono uniformemente. Al contrario, si manifestano in modi incredibilmente eterogenei, evolvendosi col tempo man mano che le parti interagiscono e il mondo cambia. Certo è sempre possibile trovare punti di riferimento comuni tra i vari conflitti, ma spiegazioni semplicistiche riguardo l’inevitabilità delle diverse dinamiche portano a soluzioni altrettanto semplicistiche, che alla fine sfociano nel dispotismo perché questo preferisce operare in ambiti semplici.
Perciò l’individualismo metodologico è in contrasto con i vari nazionalismi, perché ne disgrega le illusorie identità di gruppo. Enfatizzare l’individuo come agente significa enfatizzare, non il particolare contesto da cui questo emerge, ma piuttosto la sua capacità di elaborare le informazioni che riceve, di renderle utili e di selezionare le persone con cui interagisce. Filtrare semplicisticamente le idee sulla base di chi le esprime è ridicolo e produce assurdità come quella di certi nazionalisti che chiedono l’abolizione dei numeri arabi. Ci sono poi gli effetti positivi che una diversità di punti di vista, di modi di pensiero e di esperienze di vita porta alla soluzione di problemi pratici. Un’euristica semplicista può avere un qualche ascendente sulle masse, ma all’atto pratico è molto meno efficace.
È chiaro quindi che l’individualismo metodologico minaccia il concetto di identità statiche. Se si vuole qualcosa che vada oltre il mantenimento di queste identità, è chiaro che prima o poi si deve tradire tale purezza. Lo vediamo quando i nazionalisti, che parlano tanto di omogeneità culturale, dimenticano tutto di fronte ai benefici economici pratici dell’immigrazione.
E che dire di quelle personalità autocratiche, vere o aspiranti tali, che stanno sotto qualunque bandiera prometta loro il potere? Non è che per loro l’individualismo metodologico è l’ennesimo strumento?
Non esattamente. Qualcuno a sinistra sostiene che l’individualismo metodologico diventa uno strumento in questo senso perché si pensa che favorisca l’atomizzazione e la sconnessione tra individui. Ma questo è falso. L’individualismo metodologico dice che il miglior modo per arrivare ad una conclusione non consiste nell’isolare gli individui, ma nel considerare ogni persona un nodo unico capace di servire al meglio se stesso e la rete a cui appartiene quando è lasciato libero di trovare da sé le connessioni ad esso più utili.
L’individualismo metodologico fa poi a pugni con la presunzione di tanti che si autoeleggono individui unici. Certo, ci sono persone che possono contribuire con un talento o con esperienze inusuali, ma il punto non è ciò che ognuno può fare, bensì cosa può ottenere l’insieme. In alcuni casi può essere utile avere persone capaci, all’avanguardia delle conoscenze. Ma se non riescono a far partecipi gli altri di quello che fanno o che sanno, ecco che ci ritroviamo con i soliti problemi della centralizzazione, per grandi che siano questi talenti. Non ci sono individui onniscienti, pertanto la cooperazione in un mondo incerto diventa la strategia vincente per tante ragioni.
L’individualismo metodologico non si limita a sminuire il gretto interesse personale, ma punta anche ad eliminare l’illusione creata dalle barriere tra l’individuo e il resto del mondo. Se la ragione principale che spinge ad occuparsi dell’individuo è il fatto che è l’agente più dinamico e reattivo a noi noto, il più abile ad elaborare informazioni, allora è logico che noi vogliamo migliorare quella capacità d’agire e di elaborare informazioni. Uno dei modi più ovvi per far sì che questo avvenga passa per la moltiplicazione dei modi in cui ogni individuo può ricevere un feedback. Oggi ci confrontiamo in maniera incredibilmente rudimentale con molti sistemi complessi, riusciamo a vedere l’insieme solo sotto forma di astrazioni matematiche. La nostra capacità di capire il mondo e di capirci tra noi è chiaramente limitata dai nostri sensi. Le tecnologie che ci permettono una comprensione più intuitiva della realtà potrebbero migliorare enormemente la nostra capacità di capire quelle dinamiche che i nostri sensi basilari non riescono a toccare. Dopotutto, creare tali sinestesie artificiali è un obiettivo chiave della scienza, e ampliare le nostre capacità in tale direzione non può che essere un fatto positivo. Similmente, quelle tecnologie che ci permettono di capire in maniera più intuitiva quello che gli altri sanno possono accelerare enormemente la comunicazione tra individui, creando un’inaudita capacità di coordinamento.
Ma se da un lato questi sviluppi possono potenziare l’individuo in quanto luogo in cui si esaminano le informazioni, dall’altro possono privarlo gradualmente di un sicuro senso di sé. Con un feedback così immediato, è difficile mantenere la finzione di un sé coerente e unico quando si possono espandere o contrarre a piacere i propri sensi e sentire profondamente quello che sentono gli altri. Aumentare il numero di connessioni tra due reti porta ad una loro progressiva fusione.
Ovviamente, gli attuali strumenti tecnologici favoriscono anche il male. Despoti che vorrebbero parcellizzare l’umanità accoglierebbero con entusiasmo la possibilità di creare un legame diretto con il loro gruppo particolare. Chi teme il dissenso sarebbe ben felice di poter controllare i dissidenti con strumenti di controllo perfetti. E poi c’è la biotecnologia, che può offrire strumenti di tortura, anche fisica, senza precedenti. Le possibilità sono aperte al rischio.
Ma io credo che anche davanti alla minaccia di controllo totale di eventuali regimi autoritari ci sia sempre speranza. Una umanità manipolata e posta al servizio di una sovranità non può ovviamente avere la flessibilità delle masse interconnesse e sincretiche. Le divisioni imposte arbitrariamente limitano l’interconnessione tra individui. La potenza di calcolo da sola non basta per contrastare l’informazione distorta, le stupide strutture epistemiche, le restrizioni imposte deliberatamente alla capacità d’agire dell’individuo e necessarie al controllo dall’alto. Tecnologie simili nelle mani della resistenza avrebbero tutti i vantaggi di un’organizzazione a rete moltiplicati svariate volte, potrebbero fare molto di più con molto meno. Anche di fronte ad un potere autoritario molto più potente di qualunque altro potere del passato, ci sarebbero ragioni per essere ottimisti.
Lascio ai filosofi le discussioni su come affrontare la questione dell’individuo agente in un mondo simile, ma mi sembra chiaro che un individualismo metodologico sufficientemente radicale tende a distruggere perlomeno il gretto sé egoistico che pensa unicamente al suo bene, se non la nozione stessa di individuo discreto. padding: 1em; background: #e6e6e6;