Di Alex McHugh. Originale pubblicato il 4 aprile 2019 con il titolo The Pernicious Protection of “Hate Crime” Laws. Traduzione di Enrico Sanna.
Prima o poi la politica doveva saltare sul carro della protezione della “libera espressione”. Leggi come quella approvata nello Utah, che intende proteggere le opinioni politiche, non hanno niente a che vedere con la libera espressione. Si tratta invece di un’escrescenza di quella (perlopiù falsa) paranoia secondo cui i conservatori sono diventati una categoria emarginata, derisa dai media, esclusa dagli ambiti accademici, ignorata nei siti di incontri.
Ricapitolando, alcuni studi dimostrano come non esistano significativi preconcetti contro i conservatori nei campus, e io penso che non sia importante se gli amici conservatori non trovano amichette. Questo dibattito è una vera confusione in termini. Tengo molto alla libera espressione, ma controbattere non significa censurare, e nessuno ha diritto ad uno spazio in cui potersi esprimere, soprattutto se è uno spazio a spese dei contribuenti e se ciò che si esprime è un odio bigotto. Essere odiati a causa delle proprie idee odiose non è come essere soggetti a sistematico razzismo, o temere per la propria vita perché gay. Quando si diffondono idee odiose si sta deliberatamente promuovendo l’odio.
Qui però ci sono due grossi problemi. Non che la propaganda politica non debba essere protetta come le altre categorie, ma è l’idea in sé di una categoria protetta e di una legge contro il crimine d’odio ad essere profondamente viziata. La prima questione è pratica: le leggi contro il crimine d’odio aiutano le persone emarginate? La seconda è filosofica: cosa significano queste leggi in termini di individualità, identità e diritto all’autodifesa?
Se qualcuno su Twitter minaccia di uccidere il mio gatto perché odio i poliziotti, la cosa è certamente un problema, ma sarebbe un problema comunque, a prescindere dalle ragioni addotte. Se mi minacciano perché non mi piace il loro gruppo musicale o perché odiano i gatti, la cosa non fa alcuna differenza. A maggior ragione se passano dalle parole ai fatti. Abbiamo già gli strumenti per affrontare questa roba. Se la giustizia funziona (e ricordate che il crimine d’odio viene perseguito da questo stesso sistema), punirà chi ha ucciso il mio gatto, oppure mi darà gli strumenti per farlo, magari con un ordine restrittivo, una richiesta di risarcimento di danni civili o uno dei tanti strumenti disponibili. Fare differenza tra un crimine e l’altro porta a tutta una serie di problemi.
Prendiamo un caso esemplare: un assassinio per ragioni razziali. Anche in questo caso, eticamente e legalmente parlando, considerare il crimine in maniera diversa da un semplice assassinio, un assassinio per altre ragioni, è incredibilmente problematico.
Cominciamo dalla questione giuridica: giuridicamente, esiste differenza solo se il movente è diverso. Giuridicamente parlando, un movente o un altro non fa differenza; il fatto che si tratti di un crimine d’odio può indurre la corte a includere questo fattore come “aggravante”, cosa che la corte fa già di per sé. In altre parole, il sistema giuridico tiene già conto del movente quando emette una sentenza, e può tener conto di un movente razziale o di altra natura nella sentenza anche in assenza di leggi specifiche. Questo meccanismo è sufficiente a soddisfare qualunque richiesta di inasprimento della pena che dovesse essere ritenuto necessario (lasciamo da parte, per ora, il dibattito sulla giustizia riparatrice o retributiva).
A parte ciò, differenziare la pena sulla base del movente è un pessimo precedente. Le nostre leggi si basano sulla premessa filosofica secondo cui non esiste una ragione per uccidere qualcuno oltre l’autodifesa o la difesa altrui (l’attuale sistema prevede anche la difesa della proprietà, ma lasciamo da parte anche questo). Questo non solo conferma l’idea di uguaglianza davanti alla legge che sta alla base del nostro sistema giuridico ma, in teoria, alimenta anche il rispetto per la vita umana in generale. Quando facciamo differenza tra vite umane, stiamo minando questo principio e, cosa importante, stiamo dando allo stato il potere di formulare una scala gerarchica delle vite umane stesse. Allo stato attuale, lo stato dice che uccidere una persona per ragioni d’intolleranza è peggio che uccidere per altre ragioni. Ma come vediamo nel caso della recente legge approvata nello Utah, una tale gerarchizzazione non esiste ma dipende sempre più dalla volontà politica.
Infine, questa procedura è problematica perché ci costringe a sottoporre a giudizio, oltre all’accusato, anche l’identità della vittima. Al fine di determinare se si tratta di un crimine d’odio, dobbiamo stabilire prima se la vittima appartiene ad un gruppo oggetto di tale odio. Così si dà alla corte il potere di definire una persona, potere che invece dovrebbe restare unicamente nelle mani di tale persona. Un problema di tale pratica è che può portare ad attribuire ad una persona un’identità che essa stessa non riconosce. Per condannare una persona di un crimine d’odio, dobbiamo, ad esempio, stabilire che la vittima di un reato a movente razziale è per definizione negra, anche se quella persona ha varie discendenze e si considera altrimenti. Il che significa che, per poter avere giustizia, una persona è costretta ad accettare un’identità non di sua scelta.
Questo può portare a più discriminazione, non meno. Alcune persone hanno buone ragioni per nascondere la propria identità minoritaria, che un processo potrebbe costringerle a rivelare esponendole a dei rischi. Un transessuale potrebbe voler nascondere la sua identità di transessuale per evitare discriminazioni, identità che però un processo potrebbe costringere a rivelare in cambio di giustizia. Una sentenza, inoltre, non farebbe che vincolare, definitamente, una persona ad un’identità. Ma nella realtà le cose non sono così. In molti casi, l’identità di una persona non è X o Y, ma una sfumatura. Questo vale soprattutto per quelle persone LGBT che spesso riconoscono la fluidità della propria identità. Ancora, mettere nelle mani dello stato il potere di definire l’identità di una persona espone le persone la cui identità è marginale ad ulteriori repressioni da parte dello stato stesso.
Ma queste leggi servono davvero a dissuadere i crimini d’odio? No. Misure protettive ad hoc come queste indeboliscono la protezione vera e propria. Proteggendo, a parole, una minoranza, le leggi contro i crimini d’odio finiscono per indebolire altre forme di protezione e vuotare lo spazio politico. Molti pensano che l’approvazione di queste leggi, di per sé, risolva la questione, e pertanto abbassano la guardia, sono meno inclini alla lotta all’oppressione e meno preoccupati. Questo accade soprattutto in due modi.
La cosa più grave è che l’autodifesa diventa ingiustificabile agli occhi del pubblico. Quando lo stato dichiara solennemente guerra all’oppressione, l’opinione pubblica cambia, si pensa che un rappresentante di una minoranza non debba avere più ragioni per difendersi da sé. Caso esemplare è CeCe McDonald, che riguardava l’aggressione subita in un bagno pubblico da una transessuale, che ha reagito uccidendo uno dei suoi aggressori. Durante il processo, il fatto che il Minnesota avesse leggi contro il crimine d’odio è stato usato dagli avvocati degli aggressori per sostenere che la McDonald non aveva diritto di agire per autodifesa in quanto sufficientemente protetta dalla polizia. La giuria ha abboccato e la McDonald è stata condannata. Ma la polizia non era intervenuta se non quando la McDonald ha ferito qualcun altro. La polizia, apparentemente, ignora abitualmente i crimini contro le persone marginalizzate.
Secondo, l’approvazione di queste leggi esaurisce la volontà e l’attenzione politica, che invece potrebbe essere impiegata meglio per proteggere in altro modo queste persone. Da ricordare: queste leggi non aggiungono protezione perché aggressioni, persecuzioni, uccisioni, stupri e altre forme d’abuso sono già illegali. Queste leggi semplicemente aggiungono un aggravante al fatto compiuto. La volontà politica a favore delle minoranze è sempre limitata perché è più difficile che questioni di segmenti della popolazione più piccoli e meno influenti siano presi in considerazione, pertanto non abbiamo infinite possibilità d’azione.
Polizia e altre figure d’autorità (genitori, insegnanti, tutori), più che proteggere le minoranze, è probabile che le perseguitino, soprattutto quando si tratta di omosessuali. Pertanto, confidare nella polizia e nel sistema giudiziario per ottenere giustizia appare francamente ridicolo.
Ma l’aspetto peggiore è che queste leggi possono involontariamente alimentare il pregiudizio. Le persone condannate sulla base di tali leggi possono trasferire il proprio risentimento dallo stato che le ha condannate alle categorie protette. Imputano le proprie “sciagure” alle minoranze piuttosto che al governo, e questo alimenta il loro odio verso tali minoranze. Questo è particolarmente sentito in questo momento. E qui mi ricollego all’attuale accusa di censura contro la destra. L’accusa si ricollega al fatto che persone ideologicamente condizionate associano le minoranze al pugno di ferro dello stato. Una fantasia, certo. Ma che in parte spiega il vittimismo della destra, e perché la destra consideri censura il fatto che le minoranze denuncino certe espressioni contro di loro o quando controbattono. Lo stato dichiara, a parole, la volontà di soddisfare le richieste delle minoranze e quindi gli altri gridano all’oppressione. Non vedono la furberia: rappresentanti dello stato e minoranze sanno che questa volontà è di carta.
Quando poi le leggi dicono di voler proteggere determinate minoranze, di cui dà nome o descrizione, la cosa per riflesso genera un clima di esaltazione dei crimini contro tali minoranze stesse. Chi odia, ha adesso un obiettivo ben definito. Sa che, se preso, i suoi ci vedranno un “combattente” contro quelli che considerano il problema. I nazionalisti bianchi usano logore iconografie, atti visibili come le marce e le bandiere, per via dell’attenzione che attirano, un insano bisogno di identità alimentato anche da queste leggi. Leggi che danno loro l’attenzione che cercano, leggi che fanno di un criminale un martire.
In breve, le leggi contro il crimine d’odio non producono sicurezza. È più probabile, invece, che accrescano i problemi delle minoranze. Credo che stiano portando ad un precedente che permette allo stato di creare un ordine gerarchico nello status di individuo e vittima. Poco importa se alla base di quest’ordine gerarchico c’è l’intento di proteggere le minoranze; niente assicura che avverrà così. Il fatto che lo Utah abbia incluso i militanti della destra tra le categorie protette è un esempio di come questo slittamento può avvenire. Ed è solo l’inizio.