Politicamente morti
Di Black Cat. Originale pubblicato il 22 marzo 2019 con il titolo Pacifism and the Pacifistic: a Tale of the Politically Dead. Traduzione di Enrico Sanna.
Ci sono ancora, purtroppo, anche tra gli attivisti di sinistra, persone inerti, pacifisti ad oltranza. Ovvero, persone non solo intenzionalmente, esplicitamente pacifiste: tutti i pacifisti sono tali. Ma persone irrazionalmente (in senso strumentale) avverse alla violenza. Faccio un esempio.
Una volta ho partecipato ad una manifestazione di protesta contro la violenza della polizia. L’idea era di arrivare al sindaco e dirgliene quattro riguardo il comportamento dei suoi sgherri. Quando sono arrivato c’era una novantina di persone sulla scena. Erano mascherate e si passavano un megafono urlando verso questa o quella finestra del palazzo in cui pensavano che si trovasse il sindaco. Non ho mai capito con quale criterio scegliessero le finestre.
Ad un certo punto, qualcuno decide di entrare. Ci troviamo davanti due problemi, entrambi significativi di questioni più ampie e generiche. Primo, c’erano due poliziotti a guardia dell’ingresso. Erano in uniforme bruna smilitarizzata e sembravano disarmati. Secondo, entrando avevamo perso circa due terzi del gruppo: dentro il palazzo eravamo una trentina.
Il primo problema era curioso, perché noi eravamo molti più di loro: in proporzione, quindici contro uno. E però il gruppo si è bloccato al checkpoint, come se ci fosse un muro invisibile e invalicabile. Gli altri cominciano a mulinare a vuoto, passandosi il megafono per urlare qualcosa. Qualcuno ha chiesto ai poliziotti di lasciarci passare. Perché? Come potevano fermarci? Avanzando in gruppo, potevamo spazzarli via. Io non mi son mosso perché sapevo che se l’avessi fatto sarebbe stata una lotta due contro uno e mi avrebbero arrestato. Ho pensato che forse anche gli altri pensavano la stessa cosa per cui occorreva solo coordinare l’azione generale. Mi sono avvicinato a qualcuno che conoscevo. Gente sempre pronta alla lotta. Uno di loro lo prendevano sempre in giro per le sue bravate tanto casuali quanto inutili. Poi ce n’era un altro che istruiva altri attivisti sull’uso delle armi. Uomini d’azione, almeno di facciata; con una reputazione da difendere, perlomeno. Ma si scusano e mi incoraggiano a partire. Sembrano ottimisti, come se non stessero cercando di tirarsi indietro. Intanto, sono arrivati altri quattro poliziotti. Ma anche così eravamo cinque a uno.
Il secondo problema è interessante perché ha a che fare con la loro presenza. C’era un sacco di gente mascherata! Perché, visto che nessuno voleva fare niente di illegale? Neanche la bandana nera fosse una bandiera, o un’uniforme. E con obiettivi puramente simbolici. Mentre passiamo accanto a questi estremisti da marciapiede, vado a parlare con alcuni di loro. Faccio dei gesti come per incoraggiarli, spiego cosa stiamo facendo e li invito a unirsi a noi. Dopotutto, erano lì proprio per quello. Forse stavano fermi perché erano confusi. Qualcuno borbotta delle scuse. Quasi tutti restano in silenzio, confusi, mi guardano imbarazzati, come se io parlassi una lingua sconosciuta. Quando siamo entrati nel palazzo, con noi c’era solo uno o due di loro.
Alla fine la polizia ci ha mandati via dall’ingresso. Tre o quattro hanno opposto una qualche resistenza simbolica. I poliziotti sembravano terrorizzati anche da questa blanda reazione. Ce n’era uno che mormorava “no, no, no, no, no…” in continuazione, come in trance. Sembrava che qualche urlo e qualche viso coperto bastasse a fargli gelare il sangue. Insomma, la protesta è morta lì, senza grandi imprese da una parte o dall’altra.
Prima di allora non avevo mai creduto a cose come “avere il poliziotto in testa”. Pensavo fosse un’accusa che i più irascibili rivolgevano ai compagni codardi. Ora capisco. L’arma principale dell’autorità, dello stato e (più concretamente) della polizia è la paura che noi abbiamo di loro, l’inerzia che ci è stata inculcata, la nostra convinzione profonda che si può agire solo col loro permesso.
Per questo la maggior parte degli estremisti, pur rifiutando l’idea di un pacifismo inerte, lo praticano. Temono l’azione violenta dell’autorità e, peggio ancora, la propria violenza. E questo non va bene. Questo pacifismo deve essere rifiutato non solo a parole, ma anche con gli atti. Abbiamo rinunciato al pacifismo, ora dobbiamo rinunciare ad essere pacifisti inerti.
Tutta la politica, compresa quella anarchica, è violenza organizzata. La politica è fatta di teorie su come dovrebbe funzionare la società, ma anche di pratiche per far sì che la società funzioni in quel modo. La società è un’astrazione. Non esiste. Esiste l’individuo. È come dire che non esiste un mucchio di sabbia ma i singoli granelli. “Società” è solo una parola usata per indicare grossi raggruppamenti di individui che interagiscono tra loro. Per far in modo che un certo individuo interagisca, o non interagisca, in un certo modo, occorre convincerlo ad interagire (o non interagire) in quel dato modo, magari con incentivi materiali. E siccome non puoi convincere ogni persona ad accettare un certo principio, foss’anche il più ragionevole, ogni società è costretta a adottare incentivi materiali, come l’offerta di un bene o di un servizio, o una minaccia.
Offrire un bene ha senso solo se l’offerta si può negare. Se non vuoi (o non puoi) usare la forza sull’individuo per impedirgli di prendere il bene, lui può appropriarsene. Puoi impedirgli di prenderlo (ad esempio, mettendolo in una cassaforte e rifiutandoti di dare la combinazione), ma lui può fare violenza su di te, può ad esempio batterti con un martello finché non gli dai la combinazione, se non usi la forza per fermarlo. Se non lo fermi, può anche forzare le tue difese, ad esempio con una fiamma ossidrica.
Anche l’offerta di un servizio può essere usata contro di te, perché ti si può impedire con la forza di accedere a tale servizio. Se non vuoi, o non puoi, farti valere, finisci alla mercé delle autorità, tanto per parafrasare il grande Fred Hampton a cui va tutto il credito. Un pacifista, uno che ha rinunciato pubblicamente all’uso della forza, non può essere credibile quando fa una minaccia.
Pertanto i pacifisti (e gli inerti, che sono il loro inconscio specchiato) non possono nulla contro quelle persone che non riescono a convincere a seguire i loro ideali. E il pacifismo in fin dei conti non è che la dichiarazione di resa davanti alla volontà di chiunque sia abbastanza forte da vincere qualunque altra persona che intenda reclamare la proprietà dei pacifisti stessi.
Tolti gli inerti, la società è composta di individui reciprocamente violenti che usano la loro violenza per organizzare la società secondo il loro volere, ispirandosi a modelli capitalisti, comunisti, anarchici, fascisti o altro. Tutta la politica è il risultato del processo con cui le fazioni, a cui appartengono questi individui violenti, concordano su come utilizzare (o evitare) la violenza per modificare la società.
Tutta la politica, compresa quella anarchica, è violenza organizzata. Dato che un pacifista non può nulla contro questa violenza organizzata, è una contraddizione in termini dire che il pacifismo può essere politico. I pacifisti devono ammettere che mentono, o che non riescono ad avere opinioni politiche, oppure attenuare il loro status di pacifisti (almeno portandolo al livello minimo e cercando di convincere altri a usare la violenza a loro vantaggio).
Questo è quello che fanno i pacifisti, soprattutto i liberal. Protestano con il sottinteso che, se le loro proteste vengono ignorate, qualcun altro userà la forza per realizzare i loro fini presunti pacifici. Fanno votare leggi che verranno applicate (con la forza) dalla polizia. Fanno gli scioperi perché sanno che se vengono attaccati qualcun altro interverrà in loro difesa. E però affermano di non essere in grado di usare la forza, negano quello che fanno, e ridimensionano così il loro potenziale politico.
Gli inerti, dal canto loro, per quanto non si pronuncino come i pacifisti, subiscono lo stesso destino. Gli inerti oggi combattono i fasci perché i fasci sono perlopiù privi dei simboli dell’autorità. Ma devono andare oltre e combattere anche la polizia. Devono uscire dalla sbornia dei liberal, e vedere il mondo per quello che è: una guerra; e una guerra da cui non possono sfuggire. Gli inerti devono uscire da questo stato se non vogliono diventare inutili come i pacifisti.
In analogia con il concetto marxiano di alienazione del lavoro, esprimo il concetto parallelo di alienazione della violenza. Che non è necessariamente il prodotto del vivere in una società capitalista, ma piuttosto del vivere in una società statualizzata, a prescindere dalla sua organizzazione economica. Se una persona viene punita per essersi difesa da sé, se si sente dire sempre che gli agenti dello stato sono lì per proteggerlo dalla violenza, se si sente dire che tali agenti non sono veramente violenti ma solo in apparenza… bè, alla fine uno arriva a pensare che la violenza non potrà mai interferire con la sua esistenza. Puoi pensare che non puoi fare violenza (perché ti è stato insegnato che saresti immediatamente fermato) e che neanche gli altri possono fare violenza su di te (per la stessa ragione). Da qui uno può facilmente arrivare alla conclusione che la possibilità di usare la forza non gli appartiene, e può altrettanto facilmente arrivare a vedere la violenza come un fatto raro ed evitabile, e non come parte intrinseca della vita.
Negandosi a quella lotta violenta che è intrinseca alla vita, si nega la propria esistenza; il pacifista è passivo, l’apparato dello stato ne fa un’altra vittima dell’impotenza inculcata e della morte vivente. Noi che ancora viviamo, noi ancora orgogliosamente violenti, noi siamo costretti a sentire il richiamo dei politicamente morti, che ci invitano ad unirci alla loro passiva nullità, al loro stile di vita insulso.
Gli inerti sono quelli che, pur negandolo pubblicamente, ascoltano il canto delle sirene. Sono quelli che non hanno ancora ucciso il poliziotto dentro la loro testa, per quanto dicano di odiarlo. Hanno alienato la loro violenza. Sono preda dell’impotenza inculcata. Ma l’aspetto comico dell’impotenza inculcata è che spesso basta un solo esempio contrario per eliminare l’indottrinamento. Ancora oggi in India si usano gli elefanti per trasportare tronchi. Solitamente, questi elefanti vengono catturati da piccoli e tenuti incatenati durante la crescita. Un elefante adulto può spezzare facilmente le catene, mentre uno piccolo non può. Una volta cresciuto, non sa di poter spezzare le catene. Sa solo che da piccolo non ci riusciva. A volte però capita che un elefante spezzi le catene accidentalmente. E allora sono cavoli amari. Soprattutto, per quello stronzo del padrone che pensava di possedere uno zombie di elefante.