Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 14 febbraio 2016 con il titolo Which Way for the Gig Economy? Traduzione di Enrico Sanna.
Il termine “economia della condivisione” talvolta è usato come sinonimo di “economia dei lavoretti”. Quest’ultimo è sicuramente più rispondente alla realtà, dato che “economia della condivisione” fa pensare a cose come cooperazione e reciprocità, il che è, a dir poco, decisamente fuorviante. Nel caso di compagnie di ride-sharing come Uber e Lyft è fuorviante perché lascia intendere che guidatori e passeggeri effettivamente condividano il passaggio, quando in realtà i guidatori sono ai fini pratici dipendenti della compagnia, che mantiene la “proprietà intellettuale” dell’applicazione usata per la condivisione, mentre i passeggeri sono i clienti. I guidatori di Uber sono in prima pagina per una class action, con cui chiedono che la compagnia smetta di comportarsi come se fossero lavoratori indipendenti, e per una serie di scioperi di protesta contro l’unilaterale taglio drastico delle percentuali da parte di Uber. Una tale guerriglia significa che la situazione è inaccettabile. La questione rimane però aperta: quale alternativa?
Ripeto: la situazione attuale è inaccettabile. Si tratta di un arrangiamento interamente parassitario che permette ad un’azienda capitalistica di usare una sua piattaforma proprietaria per infilarsi tra tassisti e passeggeri e intascare una quota in cambio della possibilità di interagire tra loro. Se cerchiamo un’alternativa, possiamo solo o andare avanti o tornare indietro.
Tornare indietro significa riorganizzare il settore secondo linee guida novecentesche, con i tassisti che lavorano per una compagnia e prendono gli ordini da un capo in cambio di una paga oraria e un pacchetto di benefici. È un modello generalmente associato al controllo di produzione e servizi da parte di grosse aziende gerarchiche a forte intensità di capitale e con un grosso potere sul mercato, aziende che possono pagare salari elevati e benefici passando i costi ai consumatori grazie ad una politica oligopolistica dei prezzi.
Che piaccia o no, questo vecchio modello lavorista in cui la vita ruota attorno a relazioni di lavoro dipendente è vecchio. Sia i capitali necessari all’avvio di una produzione di beni e servizi che le dimensioni ottimali dell’attività produttiva calano rapidamente. Cadono le barriere all’ingresso dei piccoli operatori indipendenti. E cala anche il numero di ore lavorate necessarie a garantire un certo stile di vita. Sta venendo meno la base tecnologica del controllo della produzione da parte delle grandi aziende, nonché la necessità di organizzare gran parte del lavoro sulla base di relazioni salariali. Inevitabilmente, si accorcia la settimana lavorativa, e si intensifica il passaggio da un’attività economica su base salariale ad una basata su un’economia informale e sociale. Il fatto che occorra meno lavoro è un bene; il male è che i benefici dell’aumentata produttività non vanno ai lavoratori, ma sono risucchiati da un gruppetto di sanguisughe.
Il problema non è l’economia della condivisione, o il lavoro indipendente, o i lavoretti, in quanto tali. È che le persone sbagliate impongono le condizioni e rastrellano i benefici. A possedere le piattaforme sono aziende capitaliste che estraggono rendita a proprio vantaggio e a svantaggio di una forza lavoro incredibilmente sottopagata, impotente e precaria.
Non c’è niente di male se si condividono le capacità inutilizzate di beni capitali come le auto al fine di limitare il bisogno di possedere un’automobile e i costi dei trasporti per persona. Questo genere di condivisione (così come la condivisione di attrezzi da lavoro) non solo riducono la dipendenza dal lavoro salariato per la sopravvivenza e il costo medio della vita, ma riducono anche l’enorme spreco di risorse generato dalla moltiplicazione di beni capitali scarsamente usati. Al momento, il problema è che alla base della condivisione non c’è la volontà di ridurre la dipendenza dei lavoratori dai datori di lavoro capitalisti, ma il fatto che aziende come Uber si servono della proprietà di piattaforme condivise per fare la cresta ai guadagni. Il grosso del capitale è proprietà dei guidatori. La funzione di Uber è di mettere in contatto tra loro guidatori e passeggeri, e questo avviene con un software che potrebbe essere tranquillamente libero e open-source.
Il superamento di Uber richiede un misto di applicazioni open-source, cooperative di operatori, clienti e meccanismi istituzionali controllati dai lavoratori, come le vecchie corporazioni o le cooperative di lavoro interinale, in modo da condividere costi e rischi e fornire quei benefici oggi forniti da (sempre meno) datori di lavoro capitalisti.
Già prima che si affermasse l’economia della condivisione ci fu un movimento crescente che mirava a sostituire le agenzie interinali capitalistiche con agenzie cooperative composte da soci lavoratori. Le funzioni di base di un’agenzia interinale non richiedono grossi capitali. Potrebbero essere svolte da chiunque con un telefono, un indirizzo email, un fax, un recapito postale e del software gestionale, eliminando del tutto gli intermediari e livellando la differenza tra le alte tariffe per i clienti e i bassi salari dei dipendenti. Il principale ostacolo legale è rappresentato dalle clausole di non concorrenza eredità delle agenzie interinali. Negli anni novanta Sara Horowitz, sindacalista di San Francisco, diede una mano ad organizzare agenzie interinali che agivano sulla falsariga delle vecchie agenzie di collocamento portuali.
Da allora organizza la Freelancer’s Union, una cooperativa che, in modo molto simile ad una corporazione medievale, offre benefici a basso costo ai soci lavoratori indipendenti.
Non c’è niente di “progressista” in un datore di lavoro che offre benefici ai propri dipendenti. Sono benefici pagati con il valore prodotto dagli stessi lavoratori. La funzione di distribuire benefici su un gran numero di dipendenti potrebbe essere benissimo svolta da una piattaforma gestita e posseduta dagli stessi lavoratori, come accadeva nelle vecchie corporazioni di piccoli artigiani.
Quanto alle applicazioni di condivisione, si tratta di funzioni facilmente adattabili ad un software open-source. In tutto il mondo si sviluppano applicazioni per la condivisione in forma cooperativa. I sostenitori di una produzione paritaria basata sui beni comuni chiamano spesso questo modello “cooperativismo delle piattaforme” (in contrasto con quelle che Neal Gorenflo chiama “piattaforme della morte nera”, come Uber), ovvero piattaforme della condivisione possedute e controllate dagli stessi lavoratori. Come La’Zooz, il servizio israeliano di ride-hailing basato su una blockchain non proprietaria. Si tratta di un semplice servizio paritario diffuso che non ha fornitori di servizio al centro, grossomodo come il software per la condivisione di file che mette in contatto guidatori e passeggeri. A Portsmouth, nel New Hampshire, Arcade offre un servizio simile basato anch’esso su una blockchain. E ci sono anche cooperative di tassisti come Union Taxi che, grazie alle loro applicazioni, offrono un’alternativa al sistema tradizionale delle licenze e al modello precario di Uber.
Le alternative esistono. Ciò che impedisce di emigrare da applicazioni proprietarie come Uber non è la tecnologia, ma l’inerzia. Oggi qualunque cooperativa di tassisti e passeggeri può fare un elenco condiviso di contatti, inserirlo in un’applicazione open-source di sua proprietà, tagliare fuori gli intermediari e lavorare sulla base di un rapporto diretto. Man mano che tra i tassisti cresce la rabbia per il taglio delle quote e il trattamento arrogante, la prospettiva di guadagni più alti per sé e tariffe più basse per i passeggeri dovrebbe diventare sempre più allettante. Secondo il collega di C4SS Thomas Knapp, molti lo stanno già facendo:
Tutti i tassisti di Uber di mia conoscenza hanno il biglietto da visita.
Danno il biglietto da visita e dicono “se serve una corsa mi chiami direttamente invece di usare l’applicazione.” Così riescono a sconnettere Uber da ogni futura transazione.
Attorno alla metà dell’ottocento, l’anarchico Pierre-Joseph Proudhon diceva che la funzione dei capitalisti era parassitaria: interporsi tra i produttori, impedire che instaurassero relazioni cooperative orizzontali tra loro, ed esigere tributi, fare la cresta sul valore aggiunto creato dall’attività cooperativistica del lavoro sociale.
La funzione del cosiddetto “fondo salariale”, per cui il capitale anticipa la paga del lavoratore contro una produzione futura, corrispondeva sostanzialmente al fornaio che anticipa il pane al birraio, il birraio che anticipa birra al fornaio, e entrambi che anticipano il vitto dei lavoratori industriali contro la produzione industriale futura. La funzione poteva essere benissimo svolgersi con relazioni orizzontali tra lavoratori servendosi del credito mutuo. Il capitale, con l’aiuto dello stato, riuscì ad impedire queste relazioni per imporre un proprio servizio ed estrarre una rendita monopolistica sotto forma di usura.
Altra questione era l’aumento della produttività del lavoro combinato, una funzione che era il risultato della cooperazione tra lavoratori, più efficienti dei dirigenti della proprietà assenteista. Questa per il capitale era un’altra fonte di sfruttamento grazie al diritto di prelazione sulla coordinazione degli anticipi di credito tra produttori.
Proudhon era per il mutualismo: tagliare fuori il ruolo usurpato del datore di lavoro capitalista alleato con lo stato, che sfruttava passivamente la natura sociale della produzione e della cooperazione tra lavoratori, per lasciare che i lavoratori organizzassero direttamente il credito mutuo tenendo per sé i benefici dell’accresciuta produttività della cooperazione.
Oggi questo modello è più attuale che mai.
Articolo citato in:
Kevin Carson, Which Way for the Gig Economy?, P2P Foundation Blog, primo gennaio 2016