Di Emmi Bevensee. Originale pubblicato il 12 luglio 2018 con il titolo Leftists and Libertarians Don’t See Eye to Eye on “Free Trade”. Traduzione di Enrico Sanna.
Libertari e sinistra non parlano lo stesso linguaggio in materia di “libero mercato”, e io credo che sulle rispettive posizioni si possa fare qualche appunto. Cercherò di fare da intermediario e questo potrebbe deludere entrambe le parti, spero a fin di bene.
Un onesto libertario per “libero mercato” intende qualcosa di profondamente anti-nazionalistico. Fa un pronunciamento cosmopolita: una persona non dovrebbe necessariamente avere più importanza perché è nata di qua o di là di un certo confine. Ha una fede quasi socialista nelle possibilità di dissolvere le concentrazioni del capitale globale e garantire il libero accesso alle risorse. È come dire che dazi e isolazionismi sono un male perché, ad esempio, sottintendono che i lavoratori americani vengano prima di chiunque altro. Ma anche perché… semplicemente non funzionano. E perlopiù è vero. I dazi e la politica America First di Trump sono fortemente regressivi. I costi finiscono sempre a carico dei consumatori americani. Si generano casi come quello della Harley-Davidson, che vuole spostare la produzione all’estero perché non può più acquistare acciaio cinese a basso prezzo.
Ciò che i libertari non afferrano sono le conseguenze di ciò che avviene, soprattutto a causa dei monopoli, dietro l’etichetta del “libero mercato”. Pensano soprattutto a come il libero mercato dovrebbe o potrebbe essere, ma sono anche interessati ai tanti benefici, concreti e dimostrati, derivanti dal fatto che le aziende del sud del mondo sono in grado di vendere sul mercato globale. Quando la sinistra si oppone a questa visione idealistica del libero mercato, sconfinando nel nazionalismo campanilistico o antimigratorio, anticommercio alla Bernie Sanders, non fa altro che mettere in pratica una variante del razzismo nazionalista e populista di Trump.
Quando la sinistra decente si oppone al libero commercio, lo fa dicendo che è profondamente neocoloniale e devasta interi settori dell’economia. Crea sistemi che permettono alle nazioni colonizzanti e alle loro multinazionali di sfruttare sistematicamente risorse da paesi costretti col ricatto ad accettare qualunque condizione venga offerta loro. È un danno alla sovranità e all’autodeterminazione del sud del mondo. Quello che la sinistra vuole dire è che il “libero commercio” così com’è impone alle economie del sud del mondo enormi monopoli nocivi per l’ambiente, le economie locali, i campesinos, le strutture sindacali eccetera. Dopo un primo aggiustamento strutturale, questi giganti aziendali cominciano ad arraffare diritti di proprietà e manodopera, e le piccole e medie aziende vengono tagliate fuori dalla competizione. Il problema è tutto nel potere negoziale e negli accordi.
Il mercato del mais in Messico ne è un chiaro esempio. Grazie ad un bizzarro intreccio di accordi, incentivi e altro, grosse multinazionali appoggiate dal governo americano (come la Monsanto) sono riuscite a mettere in scacco il mercato messicano del mais. Gli effetti sono particolarmente disastrosi per le comunità agricole indigene che da millenni fornivano il mais alla popolazione locale. Si sono ritrovate improvvisamente tagliate fuori, le loro terre scippate da sotto i loro piedi con un atto di appropriazione che ricorda moltissimo il colonialismo. Poi sono arrivate le monocolture, insostenibili e massicce, e gli effetti delle sementi brevettate. Bisogna ricordare che il libero mercato così come viene praticato è PROFONDAMENTE radicato nella proprietà intellettuale, che funge da strumento monopolistico. Il sistema degli incentivi è così contorto che le popolazioni indigene e i messicani più poveri finiscono per acquistare il mais da aziende occidentali spesso dopo che questo è stato trasportato negli Stati Uniti e poi rimandato indietro. L’acquisto diretto presso gli agricoltori è spesso impedito. La questione si è incancrenita al punto che il Messico è arrivato a interdire la Monsanto (ma sta facendo lentamente marcia indietro). Non è roba che mi invento io. In Chiapas ho parlato a lungo con estremisti e agricoltori indigeni che mi hanno raccontato le loro vicende. La sofferenza è molto, molto profonda e radicata.
Se non capite perché i latinoamericani sono nauseati da questo casino, e perché dicono che è colpa del “libero commercio”, non so in che pianeta vivete. Il movimento antiglobalizzazione, pur essendo diventato anticosmopolita, non si basa su fantasie vuote. Parla di sofferenze fin troppo reali e delle loro conseguenze.
Ovviamente ci sono piccole problematiche, critiche ed eccezioni da fare a molte di queste mie obiezioni. L’isolazionismo, ad esempio, diventa talvolta la volontà di non ammettere che non si può negoziare equamente e che dunque occorre limitare il commercio a nazioni che stanno alla periferia del capitalismo globale. E tanto ci sarebbe da dire sulle economie di sussistenza. Se da un lato sono perfettamente sostenibili e si basano su pratiche indigene, dall’altro comportano costi pratici in termini di sostentamento e accesso a certi beni moderni come i medicinali. Potremmo anche indagare a fondo il vasto intreccio di ragioni per cui gli “accordi di libero mercato” hanno dato luogo a risultati incredibili in un posto e risultati devastanti altrove. Uno dei modi in cui i moderni accordi di “libero mercato” generano diseguaglianze e alimentano monopoli è rappresentato dall’iniqua acquisizione dei diritti di proprietà terriera da parte di monopolisti, colonizzatori e schiavisti. Qui può esserci accordo tra libertari onesti e persone di sinistra dalla mentalità aperta. Nessun libertario dotato di senso può credere che il genocidio di una popolazione indigena sia una legittima forma di insediamento. Nonostante certe tendenze liberalizzanti, queste versioni moderne di “libero mercato” servono nella pratica a metastatizzare le disuguaglianze esistenti le cui origini sono da ricercare nella violenza. Ma sotto tutte queste questioni che dividono profondamente e che complicano il rapporto tra sinistra e libertari si nascondono le complessità della violenza e le sottigliezze della coercizione.
Anche se in materia di libero mercato sinistra e libertari hanno posizioni fortemente contrastanti, non credo che debba essere così per forza. È più una questione di storiche associazioni di parole che di differenze irreconciliabili. Come l’aspetto scientifico, di per sé importante, degli ogm, che per colpa di pessimi attori come la Monsanto è divenuto l’equivalente delle peggiori pratiche coloniali. E poi ci sono gli isolazionisti, fautori delle frontiere chiuse in nome di istanze antimperialistiche. Alla stessa conclusione, ma con una logica completamente diversa, arrivano i razzisti sostenitori delle frontiere chiuse che pian piano si stanno insinuando tra i libertari. Così come viene praticato, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, il libero mercato è formato da una serie di monopoli in funzione di agenti coloniali dediti allo sfruttamento e alla distruzione delle sovranità postcoloniali. Ma quella sinistra che pensa che la propria economia locale sia ipso facto più importante dell’economia di popoli lontani, e che vogliono proteggerla con la forza dello stato, è anch’essa un fascismo in miniatura.
La lotta deve essere diretta alla distruzione dei monopoli e alla promozione della libertà. Questo significa staccarsi dal significato superficiale delle parole con le loro associazioni. Significa andare alla radice del significato delle cose, con le loro implicazioni e gli idealismi, e riconoscerne gli effetti sulla realtà. Significa vedere il potere attraverso lenti differenti e a livelli differenti allo stesso tempo, vedere le esternalità e le conseguenze involontarie delle azioni. È per questo che qui al C4SS usiamo termini come “mercato liberato”, per distinguerlo dalle altre forme basate sulla razzia e il nazionalismo.