[Di William Gillis. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 25 maggio 2017 con il titolo When Concerns Of Cultural Appropriation Risk Supporting Intellectual Property. Traduzione di Enrico Sanna.]
L’ultima ondata di panico in materia di giustizia sociale viene dalla mia città, dove qualcuno ha fatto una lista che mette alla gogna ambulanti e ristoranti di proprietà di bianchi che offrivano “cucina internazionale non europea”. Di conseguenza, uno dei ristoranti più offensivi ha chiuso. Se da un lato la lista (e altre derivate) ha generato quella sorta di reazione furiosa che ci si aspetta in materia di guerra tra culture, dall’altro solleva questioni complesse.
Da un lato, le liste di boicottaggio sono per certi versi il mercato al lavoro, una questione di libertà di informazione che aumenta le possibilità di scegliere informati. Dall’altro lato cinque anni fa quell’insieme chiamato giustizia sociale giurava a destra e a manca che il suo discorso sull’appropriazione culturale era una critica seria e coinvolgente del modo in cui le ingiustizie sociali ricadono sulla pratica culturale, e che a nessuno importava se i bianchi facevano i burritos. Quello che era il classico spauracchio sembra ora diventato punto d’attacco.
Eppure ci sono anche buone ragioni per boicottare alcuni dei ristoranti elencati. Come la scelta sciagurata di qualche sfacciato yuppie, che in un quartiere tradizionalmente nero ha aperto un ristorante chiamato “Saffron Colonial”, che romanticizzava il colonialismo britannico. Poco tatto, a dir poco. Il colonialismo era incredibilmente atroce, e quello britannico in particolare era una macchina del genocidio da paragonare al Terzo Reich. Bisognerebbe sputare sulla parola e onorare le vittime per il resto dell’eternità. L’unico futuro per la nostra specie è quello in cui la parola “coloniale” è una bestemmia. Purtroppo si tratta di un futuro ancora mal distribuito, e molti sono ancora inconsapevoli della mostruosità o non si sentono obbligati a riconoscerla. Reagire con disgusto davanti a qualcuno che vuole aprire un negozio di specialità dedicate all’olocausto non significa “cancellare la storia”. Ci sono casi in cui la semplice etichetta richiede un certo grado di sobrietà e rispetto verso determinati traumi del passato. O, se si vuole usare l’arma dell’irriverenza, che almeno lo si faccia con prudenza e autocontrollo.
Chi ha scritto la lista obietta dicendo di non essere contro i bianchi che vogliono cucinare “non bianco” a casa, ma piuttosto contro quelli che lo fanno sul mercato perché potrebbero danneggiare le attività delle persone di colore. E però è irritante vedere persone di sinistra considerare legittima questa piccola precisazione. Dire che qualcuno non può vendere specialità che non sono della “propria cultura” significa accettare pienamente il paradigma della proprietà intellettuale, anche se con le stesse pretese di una licenza con “attribuzione non commerciale”; tutta la putrida presunzione della proprietà dell’informazione lasciata intatta ma con una patina di progressismo.
Da quando sono anarchico, ho sempre mantenuto due punti fermi: antirazzismo e libertà d’informazione. Li considero tra i dettami più immediati e basilari delle aspirazioni che un anarchico possa avere, e chiunque mi conosca sa che sono serio e determinato nei propositi. Si diffonde il concetto di “appropriazione culturale” e molti ci vedono qualcosa che porterà ad un punto di svolta le due questioni di antirazzismo e libertà d’informazione. Questa potrebbe essere l’occasione per vedere come evitare che l’appropriazione culturale diventi una questione di proprietà intellettuale, ma anche per capire come questi due paradigmi possano pian piano sovrapporsi e infine come, secondo me, un anarchico debba fermarsi quando sale la tensione.
Razzismo e proprietà intellettuale sono direttamente responsabili della morte di milioni di persone e della sofferenza di innumerevoli altri; impediscono il progresso dell’umanità nel suo insieme. Credo però che sia importante notare che la nostra opposizione non è causata da particolari casi storici. Razzismo e proprietà intellettuale sono mali anche in astratto: dividono le menti e tagliano via le possibilità limitando la nostra libertà; fanno danni diffusi nella società, restringendo il flusso delle informazioni e di conseguenza la nostra capacità di agire. Anche togliendo l’impronta storica del suprematismo bianco e delle leggi sulla proprietà intellettuale, anche riuscendo ad eliminarne la violenza esplicita che sta alla base, la logica del razzismo e della proprietà intellettuale sarebbe comunque una logica oppressiva. Anche se la segregazione razziale fosse “volontaria” e la proprietà dell’informazione sostenuta da norme sociali non violente, per un anarchico sarebbero sempre cose offensive e noi spingeremmo comunque per cambiare tali norme.
Da notare che l’anarchismo, così come qualunque sforzo volto ad eliminare tutte le relazioni di potere e non solo certe varietà, limita gli strumenti. È causalmente incoerente cercare di liberare qualcuno rinchiudendolo in un gulag. E molte strategie presentano esternalità che per un anarchista sono intollerabili, anche se portano a realizzare il fine ultimo. Nuove tirannie possono realizzare con metodi brutali certi obiettivi limitati, ma non l’obiettivo dell’abolizione del potere. Certo ciò non costringe a diventare pacifisti o a fingere che gli orrori istituzionali del mondo non esistano. L’assassinio è un male ma non se si possono salvare milioni di vite assassinando Hitler. Fini e mezzi sono connessi tra loro, anche se non esattamente uno a uno.
Alla luce di tutto questo, credo che si debba puntare agli ideali dell’antirazzismo e della libertà di informazione.
Lo scambio culturale va benissimo; scimmiottare qualcosa che per altri, per persone oppresse, ha un forte valore simbolico, è da cretini. Ti pulisci il culo coi simboli di una religione storicamente repressa? Irrispettoso. Fai la caricatura di una categoria di persone? Irrispettoso. Ovviamente, c’è un luogo in cui si può essere irrispettosi. Cazzo, è fantastico quando rappresentanti di una categoria oppressa producono il loro equivalente del Cristo nella Piscia, perché in sostanza fa a pezzi il culto dei simboli di qualunque cultura o religione, ma se a farlo sono persone legate al colonialismo o all’oppressione autoritaria di una cultura o di una religione è generalmente brutto a vedersi, come minimo.
La maggior parte delle persone capisce che è diverso se a dire nigger è un bianco o un nero. A prescindere dalle intenzioni, la storia e il contesto del razzismo influiscono comprensibilmente sulle percezioni e le reazioni. Lo stesso vale per un bianco che indossa la kefiah. Ovviamente, come sempre quando si usano parole stregate come “oppresso e oppressore”, c’è spesso un’area grigia intermedia, dunque è importante non trattare la questione come se fosse un sistema legale rigido. L’anarchico si preoccupa dell’etica laddove i giustizieri parlano di applicazione delle norme sociali: due compiti completamente diversi.
Se c’è un caso in cui dobbiamo ripudiare completamente e strenuamente l’“appropriazione culturale” è quando comincia ad operare come una sorta di proprietà intellettuale collettiva. Come nel caso di chi pensa di avere il monopolio nella produzione di un certo disegno di tessuto. Distruggere il male rappresentato dalla proprietà intellettuale è infinitamente più importante di quelle strategie care a qualcuno per dare un po’ più di soldi alle persone di colore. Una cosa è “spendere soldi presso attività di persone di colore per contrastare la supremazia dei bianchi”, che va benissimo, e un’altra dire che “è antietico che un bianco venda burritos”, secondo la logica della proprietà intellettuale.
Notate la distinzione. Ci sono molti modi per aiutare gli oppressi e controbilanciare l’ingiustizia sistemica. Non serve appigliarsi ad uno qualunque, serve essere onesti e sinceri riguardo l’urgenza di un contro-sostegno senza condirlo con richiami alla proprietà culturale.
Il problema della supremazia bianca non si risolve né dando più poteri alla polizia e allo stato né rafforzando la proprietà intellettuale. Se imprese di proprietà di bianchi che vendono burritos spingono le persone di colore fuori dal mercato che un tempo era loro monopolio, impoverendole, allora dobbiamo combattere il problema andando alla radice, alla pratica diffusa e insomma violenta di incentivare le attività dei bianchi o di frenare quelle altrui; non dobbiamo cercare di mettere un cerotto con orribili e miopi strategie che legittimano la proprietà intellettuale collettiva. E non dimentichiamo che i monopoli economici, di qualunque genere siano, sono essenzialmente un male.
Se la questione è riparare il danno economico fatto dalla supremazia bianca, perché mai dovremmo sentirci più in dovere di incentivare un ristorante latinoamericano che vende burritos di uno latinoamericano che vende il filetto alla Stroganov?
In risposta si ricorre all’espediente di appellarsi all’indottrinamento, purtroppo diffuso, sulla proprietà intellettuale, condendolo con una certa dose di nazionalismo, ovvero separatismo, che la sinistra fatica a rigettare quando non è del tutto esplicito. Altra risposta è che molti pensano che i bianchi tendano a stravolgere tradizioni culinarie che non appartengono loro. Cose corrette e legittime, ma anche problemi diversi. Fare un elenco di ristoranti che stravolgono le tradizioni è altra cosa che fare un elenco di ristoranti di proprietà di bianchi.
Si dice spesso che appartiene all’ideale di libertà d’informazione cercare di identificare accuratamente autore e origine di qualcosa. Molti dei peccati additati dalla critica alla “appropriazione culturale” in effetti si riducono all’omissione delle informazioni. L’obbligo etico di essere onesti non è affatto come dire che il creatore di un’idea ha il diritto di controllare la sua riproduzione pratica.
La critica più diffusa della “appropriazione culturale” è che tende ad aggregare, lega razza e cultura in un modo da fare invidia ad un nazista, coagula le complessità fluide del mondo reale in una questione semplicistica in cui esiste un gruppo A e un gruppo B. Una cosa è parlare della cultura come di un ecosistema fluido di idee e pratiche troppo complesse da poterne tracciare i contorni, e altra è vedere nella cultura un monolite statico e totalizzante, una singola entità collettiva con un interno e un esterno.
Però è anche vero che culture discrete in senso nazionalistico esistono; noi non viviamo in un mondo in cui gli individui semplicemente si rapportano tra loro in barba a qualunque rappresentazione semplice che non sia quella basata sull’oppressione, e fatta di “razze”, “nazioni” e “culture” arbitrarie. È semplicemente una realtà storica, anche se tragica, una realtà che gli anarchici vogliono dissolvere.
Tutti sappiamo che questa miopia è una miopia voluta, l’eliminazione della conoscenza e della capacità di agire in un mondo in cui le razze sono un costrutto. Qualcosa di simile avviene con le culture e il razzismo storico e istituzionale. Ma dobbiamo anche ricordare che qualunque “cultura” con una storia distinta è già potenzialmente imperialista, o almeno pericolosamente nazionalista. Magari fa figo portare le treccioline, il bindi o le piume di guerra, ma il rastafarismo, l’induismo e i sioux Lakota erano imperialisti. Il fatto che i crimini di queste società o culture o nazioni siano poca cosa paragonate al colonialismo europeo e alle innumerevoli fosse comuni della supremazia bianca non li esime dal biasimo.
Come anarchico, non bevo il veleno della “soluzione facile” che consiste nello stare con le piccole nazioni contro le grandi. Cercare di “equalizzare” i rapporti di forza non risolve i rapporti di forza in sé; l’obiettivo è la liberazione dai rapporti di forza, non un’eguale costrizione. Noi stiamo dalla parte dell’individuo che si ribella alla nazione e elimina tutte le frontiere. Va bene dire “non fare il razzista rozzo, sappi che tutti i simboli e le percezioni degli artefatti culturali sono il risultato di un razzismo istituzionale”, anche perché mostrare sensibilità per le esperienze e i traumi unici degli altri si allinea perfettamente con gli ideali della libera conoscenza. Ma in fin dei conti essere anarchico significa tradire le culture. Attendiamo il giorno in cui la cultura si sarà diluita a tal punto che non sarà più possibile distinguere le culture singole, il giorno in cui la cultura sarà un caos fluido in cui tuffarsi, non qualcosa che ci lega e ci dice cosa dobbiamo essere.
Molte delle dinamiche evidenziate da chi critica l’appropriazione culturale sono valide, degne di nota se non di una risposta seria. È importante notare che i flussi, le derive, le mutazioni culturali non sono solo il risultato della libera associazione ma anche della violenza sistemica. Se è vero che una variante idealizzata della globalizzazione è all’apice delle aspirazioni anarchiche, è però anche vero che l’attuale globalizzazione ci impoverisce; alcuni in modo particolare. Il discorso sulla “appropriazione culturale” corre sempre il grave rischio di dissolversi in un appello alla legittimità percepita della proprietà intellettuale, che significa dare alle culture, alle nazioni o alle collettività il diritto tutelato di “possedere” idee, pratiche o tecniche. La sinistra tende da sempre a sostenere la possibilità di abolire una tirannia rendendola collettiva, e più volte ha abbracciato il nazionalismo degli oppressi dando per scontato che questo fosse l’unico modo di opporsi. Queste tendenze odiose spuntano continuamente quando si parla di appropriazione culturale. Un atteggiamento irritante a proposito di giustizia sociale è la tendenza ad oscurare o ad evitare un’onesta, etica e strategica discussione balzando in avanti e cercando di fare pressione sociale su certi comportamenti. Ma certi codici comportamentali hanno sempre alla base una certa logica o una giustificazione; la giustizia sociale dà gli strumenti a quelle persone che hanno obiettivi e strategie che molti non accetterebbero esplicitamente (come il possesso della conoscenza o la segregazione razziale o culturale) così da poter fare pressione per la normalizzazione delle loro premesse astratte tramite conversazioni iperparticolarizzate sulle tattiche e i comportamenti.
Preciso che, nonostante le critiche esposte qui, sono ottimista sulla giustizia sociale nell’insieme, soprattutto perché credo nel vecchio pensiero illuminista secondo cui i ragionamenti migliori tendono ad emergere. Credo che l’esplosione di attenzione verso cose come l’appropriazione culturale di quest’ultimo decennio sia prova provata della singolarità intellettuale scatenata da internet e la libertà d’informazione. Non ho mai sentito tanto bisogno di entrare nella questione e richiamarmi a dinamiche tossiche o analisi senza sbocco, anche perché ho una grande stima per il dialogo in sé. Il fatto che persone tradizionalmente emarginate condividano esperienze e pensieri e arrivino a conclusioni con il dialogo è esattamente l’ideale di libertà di conoscenza promesso. Se qualche ragionamento è sbagliato, se qualcuno assume un atteggiamento di superiorità, poco importa rispetto al silenzio ebete e all’oppressione supina precedenti la diffusione di internet: non potevo non scoppiare a ridere ogni volta che sentivo un pallone gonfiato parlare di esagerazioni e pericolosa giustizia sociale. Accade, è vero, ma è sciocco come dire che l’estremismo islamico è una “minaccia esistenziale”, e chi si preoccupa tanto per queste cose tradisce una mancanza di fede nel dibattito, l’empatia e l’acido inesauribile della diluizione culturale. Come internet vede un male nella censura e nella proprietà intellettuale e le aggira, così l’umanità vede nel nazionalismo e nella segregazione culturale un male da aggirare.
Non esistono frontiere che non sfonderemo, né muri che non abbatteremo. In fondo la liberazione viene dalla connessione, non dalla divisione, e dalla condivisione, non dal furto. Il possesso è giustificato solo dalla penuria, e la cultura non deve mai scarseggiare.