Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 9 novembre 2023 con il titolo Zionism and the Nation-State. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
I palestinesi non sono le uniche vittime
In un articolo dal titolo “Memory Voids and Role Reversals,” la politologa Dana El Kurd, parla del suo choc all’apprendere dell’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre, dopo essere stata in visita alla Torre dell’Olocausto del museo ebraico di Berlino. Evidenzia l’ironia storica dei sopravissuti all’olocausto che nel tentativo di fuggire dall’oppressione espellono centinaia di migliaia di persone dalle loro terre, le rinchiudono in ghetti controllati dai checkpoint militari, e li controllano con punizioni collettive.
Ai palestinesi non sfugge l’ironia di uno stato nato come “antitesi” del ghetto che usa la ghettizzazione come sistema di controllo. Un’infrastruttura della coercizione accompagnata ovviamente dall’immancabile violenza fisica: arresti, distruzione delle case, attacchi aerei e così via.
La Kurd cita Aristide Zolberg: “la nascita di un nuovo stato può diventare ‘un processo che produce rifugiati’.”
Questo è vero non solo per i palestinesi. Lo stato nazionale vestfaliano, che col trattato di Westfalia è diventato elemento normativo del sistema internazionale, comporta necessariamente (soprattutto dopo il 1789 con l’identificazione del nazionalismo con lo stato nazionale) che le identità etniche, più che essere lasciate libere di esprimersi, siano soppresse. Tutte le identità nazionali create dal nulla e associate ad uno “stato appartenente a questo o a quel popolo” hanno comportato la sopressione e l’appiattimento delle innumerevoli etnie presenti nel territorio che lo stato reclama a sé. Ai tempi della Rivoluzione Francese, meno della metà della popolazione “francese” parlava uno dei tanti dialetti della langue d’oil della Francia settentrionale, ancora meno se si considera il dialetto della Ile de France (da cui deriva la lingua ufficiale “francese”). Il resto del paese parlava dialetti occitani o provenzali, o lingue non romanze come il bretone (il cui parente più prossimo oggi è il gallese). Lo stesso vale per il catalano, l’aragonese, il basco e il galiziano in Spagna, le lingue basso tedesche e l’ormai estinta lingua dei vendi in Germania, le etnie non giavanesi in Indonesia e molto altro. Vediamo capi di stato fare discorsi ampollosi sul “popolo nigeriano” o sul “popolo dello Zimbabwe”, riferendosi a quelle che in realtà sono entità multietniche la cui “identità” è stata definita alla Conferenza di Berlino tracciando delle linee su un pezzo di carta.
Quando dico che le lingue nazionali sono state istituite sopprimendo le lingue rivali, parlo, tra l’altro, di come le scuole residenziali degli Stati Uniti e del Canada punivano i bambini nativi perché parlavano nella loro lingua. O delle scuole che, dappertutto, imponevano la gogna agli studenti con cartelli con la scritta “Io parlo gallese (o bretone, o provenzale, catalano, basco, ainu, o una delle tante lingue vernacolari africane al posto dell’inglese, del francese, lingua franca, eccetera). E altro ancora.
E se parliamo di quei costrutti identitari nazionali artificiali imposti sopprimendo etnie reali, non possiamo non citare il “popolo ebraico”. Il cui costrutto fa parte della soppressione delle diverse identità etniche ebraiche create dalla diaspora in tutta l’Europa e in Medio Oriente. Alla “Nuova identità ebraica”, creazione del moderno sionismo, si associa la rinascita artificiale della lingua ebraica, che per 2.300 anni circa è stata una lingua esclusivamente liturgica e che oggi è stata trasformata in lingua nazionale ufficiale. Tutto ciò va di pari passo con la soppressione, ufficiale o meno, delle entità etniche ebraiche autentiche a cui corrispondono la lingua yiddish, la lingua giudeo-spagnola e l’ebraico arabico.
Lingue e culture plurisecolari di autentiche entità etniche ebraiche europee sono diventate una reliquia del passato di cui vergognarsi, da soffocare e amalgamare in un nuovo artificiale costrutto identitario ebreo incentrato sulla vecchia lingua liturgica ebraica.
Lo yiddish, la lingua parlata dagli ebrei aschenaziti d’Europa (derivata da un antico dialetto germanico e scritta con l’alfabeto ebraico) fu stigmatizzata dai capi sionisti della Palestina e dai primi governi israeliani. Spiega Max Weinreich in History of the Yiddish Language che “la trasformazione dell’ebraico in lingua parlata nasceva dalla volontà di separarsi dalla Diaspora.” Per i coloni sionisti, le identità ebraiche della Diaspora erano “un peso culturale da eliminare”. Il “Nuovo Ebreo” doveva essere un costrutto superumano idealizzato, quasi interamente avulso alle plurisecolari tradizioni e culture degli ebrei in carne ed ossa: “La lingua yiddish diventava pertanto il simbolo della diaspora e della debolezza,” spiega il linguista Ghil’ad Zuckermann. “Quello che cercavano i sionisti, invece, era un’entità dionisiaca: forte, muscolare e indipendente.”
Questo “disprezzo nei confronti della Diaspora” “si manifestò… in Palestina in una feroce campagna contro la lingua yiddish, fino al divieto di usare lo yiddish nei giornali e a teatro, e con atti di aggressione fisica contro chi lo parlava.” A partire dagli anni Venti, chiunque in Palestina osasse pubblicare qualcosa in lingua yiddish rischiava di vedere la propria tipografia devastata da organizzazioni che avevano nomi come “Battaglione dei difensori della lingua ebraica”, “Organizzazione per l’imposizione dell’ebraico” e “Consiglio centrale per l’imposizione dell’ebraico”. A Tel Aviv nel 1930 la proiezione del film Mayn Yidishe Mame (La mia mamma yiddish) causò disordini fomentati dal suddetto Battaglione. Con la nascita di Israele, “lo studio della lingua ebraica e l’adozione di un cognome ebreo divennero requisiti imposti a tutti gli immigrati”. I primi tempi lo stato israeliano arrivò a vietare per legge gli spettacoli e i periodici in lingua yiddish. Qualcuno scrivendo sul Jerusalem Post ha giustificato la pratica sostenendo che l’uso delle lingue della diaspora poteva “minare il progetto sionista”, ammettendo così che le vere identità etniche minacciavano l’identità fittizia creata dall’ideologia nazionalista.
Se questa fu la sorte dello yiddish, la lingua nativa degli ebrei aschenaziti che rappresentavano la maggioranza degli insediamenti sionisti in Palestina, peggiore ancora fu la soppressione delle identità etniche ebraiche fuori dalla minoranza dominante sefardita. Golda Meir bollò come “non ebrei” tutti quelli che non erano di discendenza aschenazita o yiddish.
Per capire cosa significa, basta pensare che oggi all’incirca metà della popolazione israeliana è composta da ebrei mizrahì provenienti dalle comunità mediorientali (comprese quelle che vivevano già in Palestina prima dell’arrivo degli europei). Gli ebrei mizrahì, convenientemente esibiti come vittime quando fa comodo alla propaganda israeliana (in maggioranza furono espulsi dai paesi arabi come l’Iraq dopo il 1948 in quella che fu una vera e propria carneficina), in genere sono visti con imbarazzo come cosa da poco e subiscono forti discriminazioni ad opera dei discendenti dei coloni aschenaziti. L’ex primo ministro David Ben Gurion disse degli ebrei mizrahì che
mancano anche della “cultura più elementare”, “non hanno la benché minima traccia di cultura ebraica, o umana”. Ben Gurion espresse più volte il suo disprezzo per la cultura degli ebrei orientali: “Noi non vogliamo che gli israeliani diventino arabi. Abbiamo fatto voto di combattere lo spirito orientale che corrompe le persone e le società, vogliamo preservare i valori autentici degli ebrei così come si sono cristallizzati nella Diaspora.”
L’attuale primo ministro Netanyahu ha detto scherzando che la stupidità è da attribuire ad un “gene mizrahì”. Uno spot pubblicitario di un’agenzia immobiliare israeliana, facendo leva sui sentimenti del tipo “guarda com’è ridotto il nostro quartiere”, mostra una famiglia dalla pelle chiara la cui pasqua ebraica è rovinata dai rozzi vicini mizrahì.
Nazionalismo e stato nazionale sono i nemici delle autentiche identità culturali etniche; prosperano sulle loro macerie. E niente illustra alla perfezione questo principio come il progetto sionista.
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