Originale: Kevin Carson, Communal Property: A Libertarian Analysis. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
Introduzione
La proprietà, intesa come forma naturale, nell’ottica prevalente tra gli anarchici di mercato, è la proprietà individuale assoluta frutto dell’appropriazione individuale. Pur accettando a denti stretti la proprietà collettiva come forma legittima – per quanto inefficiente – di “socialismo volontario”, si dà per scontato che tutte le forme di proprietà possano nascere solo per mezzo di particolari contratti tra preesistenti titolari di proprietà individuali assolute. La terra può essere appropriata, è il tacito assunto, solo individualmente.
I forum di oggettivisti e libertari di destra traboccano di dichiarazioni del tipo: “la proprietà collettiva non esiste”, “i diritti di proprietà sono solo individuali”. Ayn Rand diceva che i coloni europei non potevano aver rubato le terre ai popoli nativi perché questi ultimi non avevano diritti validi di proprietà:
Ora, io non voglio discutere di presunte lagnanze degli indiani d’America contro questo paese. Credo, e a ragione, alla versione più neutra fatta da Hollywood, e penso a quello che hanno fatto all’uomo bianco. Gli indiani non avevano diritto a un paese semplicemente perché erano nati qui, e poi si comportavano come selvaggi. L’uomo bianco non ha conquistato questo paese. Chiunque dica il contrario è un razzista, perché pensa che esistano persone che hanno diritto a certe cose solo perché appartengono ad una certa razza. C’è chi pensa di possedere un paese stupendo semplicemente perché ci è nato, senza averci mai contribuito. Ma non è così.
Gli indiani non conoscevano concetti come proprietà o diritto di proprietà, la loro non era una società sedentaria, avevano “culture” tribali prevalentemente nomadiche e quindi non avevano diritto alla terra, non c’era alcuna ragione per concedere loro un diritto che non concepivano né gli serviva. È sbagliato attaccare un paese che rispetta (o semplicemente cerca di rispettare) i diritti individuali. Chi lo fa è un aggressore e quindi ha moralmente torto. Se un “popolo” non protegge certi diritti, se i suoi abitanti sono schiavi dei loro capotribù, perché mai si dovrebbe rispettare quei “diritti” che essi non hanno né rispettano? … È sbagliato dire che bisogna rispettare i “diritti” degli indiani se questi non hanno alcun concetto di diritto né lo rispettano. Ma poniamo che fossero tutti uomini belli e selvaggi, cosa non vera. Per cosa combattevano quando si opponevano alla presenza dell’uomo bianco in questo continente? Per continuare la loro esistenza primitiva; per il loro “diritto” di mantenere intatta una parte della terra; per tenere lontani gli altri così che loro potessero vivere come bestie o cavernicoli. Qualunque europeo portatore di qualche elemento di civiltà aveva il diritto di prendere questo continente, ed è meraviglioso che qualcuno l’abbia fatto. Oggi a non rispettare i diritti individuali è l’indiano che, razzisticamente, condanna l’America.”1
Come sostiene Karl Hess in Libertarian Forum, la proprietà in senso libertario può assumere tante forme legittime:
Il libertarismo è un movimento di popolo e di liberazione. Vuole una società di genere aperto, non costrittiva, in cui la persona, l’essere umano che vive la sua vita liberamente, possa associarsi o meno o comunque avere una voce in quelle decisioni che riguardano la sua vita. Ciò richiede un vero libero mercato in ogni cosa, dalle idee alle idiosincrasie. Significa che le persone devono essere libere di organizzare collettivamente o individualmente le risorse della propria comunità; significa che la libertà deve avere un suo sistema giuridico basato sulla comunità e sostenuto da questa, laddove serve e se serve, oppure un servizio di arbitrato privato laddove appare più adatto. Idem per la polizia. E così le scuole, gli ospedali, le fabbriche, l’agricoltura, i laboratori, i parchi e le pensioni. Libertà significa diritto di forgiare le proprie istituzioni. Il contrario di ciò che fanno le istituzioni attuali che si arrogano il diritto di formare la persona in virtù di un potere aggregato o di uno status gerontologico.2
La proprietà comune della terra rappresenta un modello legittimo di diritto di proprietà in una società astatuale basata sulla libera associazione.
Roderick Long è tra i principali sostenitori di quella che lui chiama “proprietà pubblica”, opposta alla proprietà dello stato: “Quella che voglio sostenere non è la proprietà pubblica nel senso di ciò che appartiene a un’organizzazione pubblica (ovvero, lo stato). A dire il vero, non credo che la proprietà dello stato sia una proprietà pubblica; è piuttosto la proprietà privata di un’agenzia che si fa chiamare stato.”3 Solo l’occupazione collettiva, aggiunge Long, può dar vita alla proprietà comune:
Immaginiamo un villaggio sulle rive di un lago. Gli abitanti vanno spesso a pescare. All’inizio arrivarci è difficile per via dei cespugli e dei rami secchi che impediscono il passaggio. A furia di passarci, però, si forma un sentiero, e non grazie ad un lavoro coordinato da qualche autorità centrale, ma semplicemente grazie al fatto che tutti ci passano ogni giorno.
Questo sentiero è il prodotto del lavoro non di un individuo, ma di tutti assieme. Se qualcuno volesse trarne vantaggio mettendo una sbarra e facendo pagare un pedaggio, starebbe violando il diritto alla proprietà collettiva conquistato da tutti insieme.4
Dato che le collettività, così come gli individui, possono unire la propria opera ad una risorsa che non appartiene a nessuno al fine di produrre quelle risorse utili ai loro bisogni, ne deriva che anche le collettività possono vantare diritti di proprietà con l’occupazione.5
Testimonianze storiche molto convincenti fanno capire che la prima appropriazione della terra al fine di coltivarla sia avvenuta generalmente ad opera di villaggi in quanto unità sociali.
I. Origini e storia della comune di villaggio
La comune di villaggio rappresentava quasi ovunque il modello dominante di proprietà di quelle società che, per quanto ne sappiamo, erano quanto di più simile all’ideale libertario di associazione astatuale e volontaria mai esistito. Al culmine dello sviluppo umano, prima dell’ascesa dello stato, quando i villaggi astatuali e le piccole città mercato vivevano pacificamente senza dover pagare tributi ad alcun imperialismo conquistatore, la terra era pressoché ovunque proprietà della totalità dei contadini.6
La proprietà comune della terra era la norma nelle società dei villaggi astatuali del neolitico, dalla rivoluzione agricola alla nascita dei primi stati. Lo schema di base ricorda il caso ipotetico di ordinamento fondiario immaginato da James Scott:
Immaginiamo una comunità le cui le famiglie hanno diritto di usufrutto di alcuni terreni durante la stagione agricola. Possono essere praticate solo certe colture e ogni sette anni le terre in usufrutto vengono ridistribuite tra le famiglie residenti sulla base della loro consistenza e del numero di adulti in grado di lavorare. Dopo la raccolta, le terre ridiventano terre comuni in cui ogni famiglia ha diritto di spigolare, far pascolare le bestie e anche, nella stagione asciutta, coltivare specie a maturazione rapida. Il diritto di pascolo sui terreni comuni è esteso a tutte le famiglie, ma il numero di capi che si possono far pascolare dipende dalle dimensioni della famiglia, soprattutto nelle annate asciutte quando il foraggio è scarso. Tutti hanno diritto al legnatico secondo i bisogni della famiglia, mentre il fabbro e il fornaio hanno diritto a quote maggiori. Le terre incolte non possono essere sfruttate commercialmente.
Le piante messe a dimora e i frutti che producono sono proprietà della famiglia che le ha piantate, ovunque si trovino. Le vedove con figli e le mogli dei combattenti possono dare in affitto una parte delle loro terre…
Durante le carestie in seguito alle annate cattive molti di questi arrangiamenti vengono rivisti. Chi sta in condizioni relativamente migliori è invitato ad esprimere senso di responsabilità verso i parenti più poveri, cedendo loro parte delle proprie terre, assumendoli a lavorare o semplicemente donando loro da mangiare. Se la carestia persiste, l’insieme dei capifamiglia fa l’inventario delle risorse e dispone il razionamento.7
La comune di villaggio nasce nelle zone a civilizzazione più antica, agli albori della rivoluzione agricola, quando l’uomo comincia a coltivare la terra in insediamenti permanenti. Prima di allora, prevaleva il gruppo seminomade dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi si convertirono in insediamenti permanenti quando cominciarono a tenere in serbo parte delle granaglie raccolte.
Nell’Europa dei secoli bui, dopo il collasso di Roma, laddove si tornò alla proprietà comune, dagli insediamenti delle tribù barbariche nacque la comune di villaggio. (Anche in Europa, la comune di villaggio rappresentava il riemergere di una unità sociale che era stata parzialmente soppressa prima in Italia dalla Roma repubblicana e poi dall’impero nei territori conquistati).
In entrambi i casi, gruppi di cacciatori e raccoglitori e clan rappresentavano unità sociali seminomadi unite da un’origine comune. La comune di villaggio nasceva solitamente da un gruppo di coloni che consideravano se stessi membri di uno stesso clan, discendenti da un ceppo comune che generazioni prima aveva iniziato lo sfruttamento della terra con il lavoro congiunto. Non si tratta dunque, come accade nelle moderne città, di un gruppo di individui atomizzati che casualmente vivono nella stessa area geografica e che sono costretti a negoziare l’organizzazione dei servizi pubblici. Parliamo invece di una unità sociale di persone che si consideravano, in qualche modo, imparentate tra loro. Si trattava di insediamenti costituiti da “gruppi di famiglie unite da una presunta origine comune e che possedeva un certo territorio in comune.” Di fatto, nella transizione dal clan alla comunità del villaggio, il nucleo della nuova comune di villaggio era spesso rappresentato da una famiglia, anche estesa, con dimora e bestiame in comune.8
Ma anche quando il clan fondatore si divideva in casate patriarcali, riconoscendo l’accumulazione privata e l’eredità delle ricchezze,
la ricchezza assumeva la forma di proprietà mobile e comprendeva il bestiame, gli strumenti da lavoro, le armi e la casa. Quanto alla proprietà privata della terra, la comunità del villaggio non ammetteva, non poteva ammettere, niente del genere, e di norma non la riconosce neanche oggi. Il disboscamento e la coltivazione della pianura erano perlopiù compito della comunità, o perlomeno di un gruppo di famiglie unite. Questi terreni, sempre con il consenso della comunità, erano gestiti dalle singole famiglie per un periodo di quattro, dodici o vent’anni, passati i quali divenivano terre coltivabili comuni.9
Quando famiglie diverse si univano a formare un nuovo villaggio, si sviluppava tutta una mitologia su presunte origini comuni al fine di alimentare una certa solidarietà sociale.10 Come vedremo più giù, anche i gruppi di contadini atomizzati, senza terra, deportati da Stolypin in Siberia al fine di formare villaggi colonici, finirono per organizzarsi sulla base della proprietà comune propria del mir (nonostante l’intenzione di Stolypin fosse di far nascere aziende di proprietà assoluta facenti capo a singole famiglie). La comune di villaggio, insomma, era un esempio di quell’insediamento collettivo descritto più su da Roderick Long.
In alcuni casi, ad esempio in India e presso molte tribù germaniche, come spiega Henry Sumner Maine, nelle comuni di villaggio l’individuo aveva il diritto di separare la propria parte di terre comuni e prenderne possesso in quanto individuo. Ma era un fatto raro, spiega Maine, perché assai poco pratico.
In primo luogo, separare la propria quota di terre comuni significava sostanzialmente divorziare dalla comunità e far nascere il nucleo di una nuova comunità accanto (o dentro) la vecchia, e questo comportava qualche cerimoniale di ratifica. Secondo, a partire da quel momento le relazioni tra l’individuo in questione e la comunità diventavano complesse e delicate come tutte le relazioni tra due società organizzate.11 E poiché tante attività dell’anno agricolo, come l’aratura e la raccolta, erano organizzate in parte o del tutto collettivamente, i costi dell’organizzazione di tali attività in comune tra l’individuo e il resto della comune diventavano praticamente proibitivi.
Quando la grande maggioranza di una società vede nella proprietà comune la normalità, quando l’organizzazione delle funzioni sociali presuppone alla base questo stato di cose, anche quando nulla impedisce ad un individuo di separare legittimamente la propria parte dal bene comune ci sono comunque procedimenti che rendono onerosa e poco pratica la pratica. Anche se la partecipazione alle sue istituzioni è formalmente del tutto volontaria e niente impedisce di uscirne, un sistema sociale tende ad agire come quelle piante striscianti che creano un sistema intricato che impedisce la nascita di altre piante, o come quei boschi monospecie che escludono altre specie con la loro ombra.
Kropotkin riassume efficacemente così l’universalità della comune di villaggio come componente di base della società:
È risaputo, e raramente viene contestato, che la comune di villaggio non era esclusiva degli slavi o dei teutoni. Anzi rappresentava la forma prevalente in Inghilterra ai tempi di sassoni e normanni, e sopravvisse in parte fino al secolo scorso: formava la base dell’organizzazione sociale nella vecchia Scozia, in Irlanda e in Galles. In Francia, il possesso e l’assegnazione delle terre comuni, compito che spettava all’assemblea del villaggio, durò dal primo secolo fino ai tempi di Turgot, che ordinò l’abolizione di queste assemblee perché “troppo litigiose”. In Italia la comune di villaggio sopravvisse a Roma e riemerse dopo la caduta dell’Impero Romano. Era inoltre la norma presso gli scandinavi, gli slavi e i finlandesi (nella pittaya, e probabilmente anche nella kihla-kunta), i curi e i livi. Quanto all’India conosciamo le comuni di villaggio – antiche e di oggi, ariane e non – grazie all’opera epocale di Sir Henry Maine; mentre Elphinstone descrive la versione afgana. Ma la troviamo anche nell’oulous della Mongolia, il thaddart della Cabilia, il dessa di Giavva, il kota o tofa della Malesia e, con nomi diversi, in Abissinia, in Sudan, nell’Africa dell’interno, presso i nativi di tutto il continente americano e presso tutte le tribù, grandi e piccole, degli arcipelaghi del Pacifico. Insomma non sappiamo di razze o nazioni che non abbiano conosciuto, per qualche tempo almeno, la comune di villaggio. Precede il servaggio, e neanche le sottomissioni riuscirono a distruggerla. Rappresentò una fase universale dell’evoluzione, il risultato spontaneo dell’organizzazione tribale. In forme diverse ebbe, o ha ancora oggi, un ruolo importante nella storia.12
Una variante della proprietà comune la troviamo nel sistema giubilare di Israele, poi codificato nella legge mosaica dai sacerdoti e dagli autori del Levitico e del Deutoronomio, ancora prevalente, in misura maggiore o minore, sotto i giudici. La terra apparteneva in ultima istanza alla tribù, al clan e alla famiglia, a cui tornava nell’anno del Giubileo (ogni quarantanove o cinquant’anni, il dato è incerto). La vendita della terra era in realtà una concessione a lungo termine, e il prezzo variava secondo il numero di anni che mancavano al Giubileo. Tra gli statuti che regolavano il possesso individuale o famigliare c’era il diritto di spigolatura. Probabilmente la narrazione biblica della rivelazione sul Monte Sinai aveva una funzione simile a quella di una progenie totemica come legittimizzazione della proprieta comune, che legittimava la società dell’età del bronzo precedente la Torah. Durante l’età dei giudici, anche i cosiddetti documenti J e E non erano altro che poemi epici trasmessi oralmente, e le tribù di Israele rappresentavano una sorta di lega anfizionica imperniata sulla città di Betel o di Silo.
In un passo biblico il profeta Isaiah parla di “privatizzazione” (ovvero recinzione) della terra ad opera delle oligarchie terriere in violazione della legge giubilare: “Guai a quelli che aggiungono casa a casa, che uniscono campo a campo, finché non rimanga più spazio, e voi restiate soli ad abitare nel paese!” (Isaia 5:8) Uno degli appropriatori inglesi, Lord Leicester, dice in termini simili: “È triste stare soli qui. Mi guardo attorno e l’unica casa che vedo è la mia casa. Sono il gigante del Castello dei Giganti, ho ingurgitato tutti i miei vicini.”13
Henry Sumner Maine scriveva nell’Ottocento che le comuni dell’India erano quanto di più simile ci fosse a quella che un tempo era un’istituzione comune a tutti i rami della famiglia indoeuropea.
La comunità di villaggio indiana è ad un tempo una società patriarcale organizzata e un insieme di comproprietari. Le relazioni personali tra gli uomini che la compongono si fondono con i loro diritti di proprietà, tanto che il tentativo dei funzionari inglesi di separare le due parti è uno dei fallimenti più grossi dell’amministrazione anglo-indiana. Sappiamo che la comunità di villaggio indiana è molto antica. In qualunque epoca della storia indiana, generale o locale, troviamo sempre la comunità nel pieno del suo sviluppo… Conquiste e rivoluzioni sembrano essere passate sopra la sua testa senza distruggerla o intaccarla; in India i sistemi governativi più efficienti sono sempre stati quelli che ponevano la comunità alla base dell’amministrazione.14
Maine, e anche Kropotkin, riteneva che all’origine della proprietà congiunta della terra, propria della comune di villaggio, ci fosse un gruppo di famiglie con un’origine comune. “Nella sua forma più semplice,” scrive Maine, “la comune di villaggio non è altro che una comunità di famiglie imparentate che possiedono una proprietà comune…”Per15 quanto “la comune di villaggio formata da un gruppo esteso di famiglie possa essere considerata tipica”, esistevano numerose eccezioni. Anche nelle famiglie fondate da un singolo gruppo di consanguinei, accadeva di quando in quando che persone provenienti da fuori fossero ammesse nella famiglia.” Certi villaggi “apparentemente hanno avuto origine non da una, ma da due o più famiglie; in certi casi la composizione appare del tutto artificiale…”16 Anche in questi casi, però, all’interno della comunità nascevano miti che parlavano di una “origine comune”, anche quando questa “presunta origine comune… appariva chiaramente in disaccordo coi fatti…” Il villaggio viveva sulla finzione di un’origine comune, che si trattasse di un “gruppo di consanguinei” o di “un gruppo di comproprietari sul modello di una unione di consanguinei.”17
Come lascia intuire Maine riferendosi all’amministrazione indiana, la comune di villaggio rimase diffusamente anche dopo l’ascesa dello stato, il che equivaleva internamente ad una società astatuale con sovrapposto uno strato parassitico di monarchi, sacerdoti, burocrati e possidenti feudali. La comune di villaggio era “sotto il dominio di monarchie relativamente potenti” che dalla comune esigevano tributo e prelevavano coscritti, “ma che non interferivano con la società agricola.”18 Nelle relazioni tra stato e sudditi, il villaggio era considerato come un’entità unica, il che significa che l’autorità normativa non toccava il singolo individuo.
Secondo Maine, in Russia l’instaurazione della servitù sotto lo zar ricalcava un sistema sociale preesistente: “la vecchia organizzazione del villaggio.”19
Dove persisteva la comune di villaggio, lo stato aveva pochi contatti con i singoli individui. Il rapporto con i contadini avveniva collettivamente tramite l’istituzione della comune.
In materia fiscale, lo stato premoderno e della prima modernità… trattava con la comunità piuttosto che con l’individuo. Certe imposte individuali, come la ben nota “tassa sulle anime”, erano pagate direttamente dalla comunità, o indirettamente dalla nobiltà a cui i servi erano assoggettati. La punizione per il mancato pagamento era collettiva. Gli unici operatori fiscali che trattavano direttamente con le famiglie che coltivavano la terra erano i nobili e la chiesa quando esigevano la decima. Lo stato non possedeva né gli strumenti né le conoscenze per arrivare a questo livello.
Rispetto all’epoca prestatale, il funzionamento interno della comune mutò poco. Alla funzione di ripartizione delle terre e di risoluzione delle dispute tra famiglie si aggiunse la gestione delle relazioni della collettività con lo stato, nel caso in cui un componente della comune fosse chiamato a rispondere della violazione di una legge statale, nonché la ripartizione tra le famiglie delle tasse imposte dallo stato sull’intero villaggio.
Secondo Livio, al centro delle lotte politiche della repubblica romana c’era il tentativo dei patrizi di appropriarsi – di “privatizzare” – le terre comuni a cui tutti i componenti della comunità avevano diritto legale di accesso.
Il sistema inglese a campo aperto20, che a cominciare dal basso Medio Evo fu progressivamente eroso dalle enclosure21 delle terre coltivabili (soprattutto per pascolarci le pecore), rappresentava una delle tante versioni di quello stesso sistema di proprietà comune germanico (la marca coltivabile, la marca comune) le cui più remote testimonianze furono registrate da Maurer in Germania.
Il campo aperto era un’evoluzione di un sistema, citato da Tacito, comune presso le tribù germaniche. Il sistema di cui parla Tacito è quello dei teutoni che, nella fase semi-nomadica, potevano accedere a grosse estensioni di terreno. Il sistema era a campo aperto, ovvero un unico campo diviso in strisce, ognuna delle quali affidata ad una famiglia diversa. Quando il terreno non era più produttivo, la comunità si spostava verso nuove terre vergini. Ovviamente il sistema, probabilmente risalente all’età della rivoluzione agricola, poteva funzionare solo con una popolazione a bassa densità. Con la sedentarizzazione delle tribù, le terre disponibili diminuirono, e ci si adattò ad un sistema primitivo a due campi, uno coltivato e l’altro incolto, con una rotazione annuale. Quando i discendenti dei teutoni di Tacito arrivarono in Inghilterra, il sistema si era già evoluto in una versione a tre o anche quattro campi.22
La marca coltivabile, così come l’equivalente inglese del campo aperto, era un sistema a rotazione a tre campi con strisce affidate a singole famiglie e ridistribuite periodicamente. La marca comune era costituita da terre inutilizzate, boschi o pascoli, di cui ogni famiglia aveva diritto ad una quota.23 Ecco come William Marshall descrive il sistema a campo aperto nel 1804:
Premetto che giusto qualche secolo fa quasi tutte le terre d’Inghilterra erano a campo aperto e più o meno di proprietà comune… Questo per dare un’idea generica d’insieme di quello che possiamo chiamare il villaggio a campo aperto diffuso in tutta l’Inghilterra.
Grazie a questo ingegnoso sistema organizzativo, ogni parrocchia o ogni villaggio poteva essere considerato un’unica fattoria, pur composta da numerosi affittuari.
Attorno al villaggio, dove risiedevano gli abitanti, c’erano le terre recintate usate per il pascolo e la riproduzione dei bovini. Questa era la proprietà agricola comune…
Attorno a questa troviamo un insieme di terre coltivabili, comprese le migliori, le più profonde, non a rischio allagamento. Qui si coltivavano granaglie e legumi, ma anche foraggio e strame per i cavalli e il bestiame in genere durante l’inverno.
Al livello più basso…, oltre le terre coltivabili, troviamo i prati che in primavera e estate davano la paglia per le mucche e il bestiame da lavoro.
Attorno alle terre coltivabili, dove il terreno era più adatto al pascolo, o… poco adatto alla coltivazione…, troviamo una o più terre in cui pascolavano le mucche da latte, il bestiame da lavoro o altro bestiame che in estate necessitava di pascoli migliori.
Le terre più povere, le meno fertili, le più distanti dal villaggio, lasciate allo stato naturale, erano usate per legname da costruzione o da ardere, oppure erano a pascolo comune…
Le terre di ogni villaggio venivano distribuite secondo una sorta di buonsenso etico. Ogni occupante aveva una quota di terra di qualità e assortita proporzionale ai suoi bisogni; le terre coltivabili, in particolare, erano divise in numerose particelle…
Affinché l’insieme fosse gestito secondo un programma comune, come un’unica fattoria, le terre coltivabili erano ulteriormente divise in compartimenti, o “campi”, di dimensione simile, così da poter effettuare la rotazione triennale: maggese, grano (o segale) e colture primaverili (orzo, avena, fagioli e piselli).24
Secondo J.L. e Barbara Hammond, il sistema a campo aperto “storicamente precede l’ordine feudale… Quest’ultimo… finì per sovrapporsi al sistema comunistico…: il villaggio medievale è un villaggio libero gradualmente feudalizzato.” Si stima che ancora nel 1685 l’85% delle terre coltivabili non feudalizzate non ancora convertite al pascolo fossero organizzate secondo il sistema a campo aperto.25
In Russia, il mir, o obščina, era sostanzialmente una variante dell’antico sistema a campo aperto prevalente in Europa Occidentale, ma sottoposto al dominio di uno stato molto più dispotico del feudalesimo europeo occidentale.
Quando Marx faceva notare l’unicità del “modo di produzione asiatico”, con la sua arretratezza dovuta all’assenza della proprietà privata della terra e al dominio della proprietà collettiva del villaggio, e con lo stato in funzione di proprietario ultimo, probabilmente non faceva che riflettere la scarsa conoscenza, propria dei suoi tempi, dell’importanza del sistema a campo aperto prevalente nel Medio Evo. La differenza principale tra il “modo asiatico” e il sistema a campo aperto dell’Europa Occidentale era che nel primo caso alla società comunistica contadina si sovrapponeva uno stato centrale dispotico e parassitario, mentre nel secondo caso a sovrapporsi alla comune contadina fu un’organizzazione di tipo feudale.
In India, il modo di produzione asiatico descritto da Marx era sostanzialmente una variante del sistema a campo aperto, ma, come il mir in Russia, dominato da uno stato imperiale e non da un sistema feudale. Come spiega Maine:
In termini molto generali, le comunità di villaggio indiane erano simili a quelle teutoniche o scandinave. C’è la marca coltivabile, divisa in lotti separati ma coltivata secondo regole minuziose che valgono per tutti. Laddove il clima lo permette, si lascia, ai margini della marca coltivabile, una striscia riservata alla migliore erba da pascolo. C’è poi la terra comune, da cui si ricava la marca coltivabile, e il resto adibito a pascolo pro indiviso per tutta la comunità. Quindi il villaggio, con le famiglie governate da un pater familias dispotico. Ad intervalli regolari un consiglio, o giunta, si riunisva per decidere delle dispute secondo le norme consuetudinarie.26
Certo i libertari avrebbero obiezioni di ordine morali contro il “pater familias dispotico”, apparentemente un’istituzione indoeuropea diffusa anche tra gli antichi latini. Ma è anche vero che un ordine famigliare più democratico non avrebbe cambiato la situazione della proprietà comune.
II. Lo stato distrugge la comune contadina
È solo con l’ascesa dello stato moderno, verso la fine del Medio Evo, che le autorità cominciano a prendere in considerazione l’ipotesi di sottoporre a regole la vita dell’individuo. Il moderno stato centralizzato si ritrovò così a dover affrontare il problema dell’opacità [della società, NdT]. La sua principale preoccupazione era, per dirla con James Scott, “cercare di organizzare la popolazione al fine di semplificare le classiche funzioni statali di tassazione, coscrizione e prevenzione delle rivolte.”27 Per quanto questa preoccupazione abbia sempre accompagnato, in grado maggiore o minore, l’esistenza dello stato, è solo con lo stato moderno – o perlomeno dall’antica Roma – che ci si sforza di influenzare l’individuo nella sua quotidianità.
La leggibilità è una precondizione del controllo sociale. Qualunque intervento sostanziale dello stato sulla società – vaccinare la popolazione, produrre beni, mobilitare i lavoratori, tassare le persone e le loro proprietà, fare campagne di alfabetizzazione, arruolare coscritti, imporre standard igienici, arrestare i criminali, istituire l’istruzione universale – richiede la creazione di unità visibili. … Le unità da gestire, a prescindere dalla loro natura, devono essere organizzate in modo da poterle identificare, scrutare, registrare, aggregare e controllare. Il grado di conoscenza necessario a tale scopo deve essere all’incirca commisurato alla profondità dell’intervento. In altre parole, più si vuole andare in profondità con la manipolazione, e più dev’essere profonda la leggibilità.
È a questo fenomeno, giunto a maturità verso la metà del diciannovesimo secolo, che si riferiva Proudhon quando diceva: “Essere governati significa essere osservati, ispezionati, spiati, regolati, indottrinati, rimproverati, schedati, misurati, elogiati, censurati, comandati… Essere governati significa essere annotati, registrati, contati, prezzati, ammoniti, frustrati, riformati, richiamati, e corretti per ogni operazione, transazione, movimento.”
Il male denunciato da Proudhon, visto da un’angolazione diversa diventava una grande conquista dello stato moderno. Una conquista difficile e incerta, è bene dirlo. Molti stati sono, in genere, “più giovani” delle società che dicono di amministrare. Pertanto si trovano ad affrontare schemi insediativi, relazioni sociali e produttive, per non dire dell’ambiente naturale, evolutisi indipendentemente dai piani dello stato. Il risultato di tutto ciò è spesso una diversità, una complessità, un’irripetibilità di forme sociali che sono, spesso intenzionalmente, relativamente opache agli occhi dello stato…
Se l’obiettivo dello stato è minimo, la conoscenza della società può restare superficiale… Se invece i piani sono ambiziosi – se si ambisce ad estrarre quante più risorse e uomini è possibile, al limite del depredamento e della ribellione, se si vuole ampliare al massimo l’istruzione, le qualifiche lavorative e la salute, se si vuole che tutti parlino la stessa lingua e adorino lo stesso dio – allora lo stato deve allargare enormemente le proprie competenze e diventare molto più intrusivo.28
La necessità di rendere leggibile ciò che è opaco dà come risultato, soprattutto nel caso delle norme sulla proprietà terriera, un’ostilità verso certe forme di proprietà comune gestite internamente al villaggio secondo tradizioni locali:
…la proprietà terriera aperta… è meno leggibile e tassabile di quella chiusa, che a sua volta è meno leggibile della proprietà privata, la quale è meno leggibile della proprietà statale. … Non è un caso se la forma più leggibile e appropriabile può essere più facilmente convertita in una fonte di reddito, che si tratti della rendita di una proprietà privata o di una rendita monopolistica dello stato.29
La “privatizzazione”, ovvero la trasformazione in proprietà assoluta, e la più recente “collettivizzazione” (di fatto una proprietà statale) di tipo sovietico, sono due metodi utilizzati dallo stato per distruggere la comune del villaggio e aggirare – nell’ottica dello stato – l’opacità intrinseca. La comune di villaggio, pur mantenendo una leggibilità orizzontale tra gli abitanti del villaggio, era opaca agli occhi dello stato.
La proprietà privata assoluta, laddove esisteva, era quasi sempre una creazione dello stato.
Nel caso di terre agricole comuni, l’imposizione della proprietà assoluta faceva da chiarificatore non tanto per la popolazione locale – i diritti consuetudinari erano sempre stati chiari ai loro occhi – quanto per l’agente delle tasse e gli speculatori fondiari. Le mappe catastali fornivano informazioni documentali allo stato, ponevano le basi dell’osservazione sinottica dello stato e di un mercato sovralocale della terra.30
Il titolo di proprietà assoluta e una misurazione standard della terra ebbero per il fisco la stessa importanza centrale che ebbe la moneta emessa da una banca centrale per il mercato.31
Sostituire una società in cui gran parte della popolazione accede alla terra secondo norme consuetudinarie, con una società in cui le stesse persone devono affittare o acquistare una terra per poterla coltivare ha il vantaggio – dal punto di vista dello stato e della classe economica al potere – di costringere i contadini ad entrare nell’economia monetaria.
La mercificazione in generale, ottenuta denominando beni e servizi secondo una valuta comune, garantisce quella che Tilly chiama la “visibilità [di] un’economia commerciale.” Così scrive: “In un’economia in cui solo una piccola porzione di beni e servizi è soggetta a compravendita, prevalgono certe condizioni, tra cui: chiunque voglia estrarre rendita non è in grado di fare osservazioni e valutazioni accurate, [e] a vantare pretese su ogni particolare risorsa è una moltitudine di persone (Coercion, Capital, and European States, pp 89, 85)32
Inoltre, costringere contadini e braccianti ad entrare in un’economia monetaria significa costringerli ad avere un reddito monetario, il che porta ad un’allargamento del mercato del lavoro salariato.
La descrizione della proprietà assoluta individuale fatta da Scott è molto simile alla descrizione dell’“individualismo” fatta da Foucault a proposito del “panopticon”.
L’obiettivo, fiscale o amministrativo, a cui puntano tutti gli stati moderni è la misurazione, la codificazione, la semplificazione della produzione agricola, in modo molto simile a come la forestazione scientifica rifaceva il concetto di bosco. Accettare l’incredibile varietà della produzione agricola tradizionale era semplicemente impossibile. Storicamente, almeno per lo stato liberale, la soluzione tipica fu un’incredibile semplificazione della produzione agricola della proprietà assoluta individuale. La terra è di proprietà di una persona giuridica che ha il potere assoluto di decidere se e come utilizzarla, lasciarla in eredità o venderla, e questa proprietà è rappresentata da un titolo uniformemente definito dal potere giudiziario e dalle istituzioni di polizia dello stato. … In ambito agrario, il panorama amministrativo è definito da una griglia uniforme che rappresenta un territorio omogeneo, ogni particella del quale è proprietà di una specifica persona giuridica e dunque di un contribuente fiscale. Ecco quindi che diventa molto più semplice fare una valutazione della persona e della sua proprietà sulla base delle dimensioni di quest’ultima, del tipo di terreno, della rendita media presunta, piuttosto che cercare di orientarsi nel labirinto della proprietà mista e della sua variegata produzione agricola.33
Le enclosure34 in Inghilterra
La proprietà personale, per quanto poco diffusa, esisteva in Europa già agli inizi del Medio Evo. I proprietari di manieri, le cui terre in origine rientravano nel sistema a campo aperto, finirono per consolidarle in proprietà chiuse. Man mano che il villaggio convertiva le terre incolte in terre coltivate, queste andavano ad aggiungersi ai campi aperti esistenti. Alcune famiglie, però, cominciarono a gestire in maniera indipendente le terre incolte, recintandole e convertendole in proprietà privata. Gran parte della terra era comunque gestita comunisticamente secondo il sistema a campo aperto.35
Risalgono al tredicesimo secolo le prime proteste contro quei proprietari terrieri che recintavano senza consenso parti delle terre comuni, limitando i diritti di pascolo della popolazione rurale. Lo Statuto di Merton nel 1235 riconosceva l’autorità suprema del signore feudale sulle terre incolte, e gli conferiva il diritto di recintare i beni comuni a propria discrezione, purché ne rimanesse “abbastanza” da soddisfare le necessità degli affittuari (necessità che spettava al feudatario stabilire).36
Il primo importante attacco contro la comune di villaggio fu l’appropriazione avviata dai Tudor delle terre monastiche, circa un quinto delle terre coltivate in Inghilterra, a cui seguì la distribuzione delle stesse tra i nobili più importanti. L’epoca dei Tudor fu apparentemente caratterizzata da vaste appropriazioni di campo aperto al fine di pascolarci le pecore e alimentare il lucroso mercato tessile.
I possedimenti espropriati con la soppressione dei monasteri, a cui si aggiungevano quelli di cui la Chiesa aveva la proprietà feudale, “furono dati perlopiù a rapaci signori feudali, o venduti a prezzi simbolici a possidenti e speculatori cittadini, i quali cacciavano via in blocco chi aveva diritto di ereditare l’uso di quelle terre, riunendo i loro possedimenti in una sola unità.”37
Gli uomini del re a cui furono distribuite le terre monastiche ricorrevano spesso alla “rendita da strozzinaggio e allo sfratto, a cui seguiva la conversione delle terre coltivabili in pascoli.” I nuovi proprietari terrieri non avevano alcuna pieta verso gli affittuari:
“Voi certo sapete,” dice l’assegnatario di uno dei manieri del Sussex ricavati dal monastero di Sio, rispondendo ai contadini che protestavano per l’esproprio delle loro terre comuni, “che il re per grazia sua ha distrutto le case che erano dei monaci, dei frati e delle suore. Perché allora noi gentiluomini non dovremmo buttare giù le case di voi povere canaglie?”38
L’abolizione dei monasteri privò della terra 50 mila affittuari. I susseguenti espropri per pascolo, fino ai primi del Seicento, riguardarono un altro mezzo milione di acri circa (oltre 20 mila ettari, ndt) e 30-40 mila affittuari. Secondo Maurice Dobb questi numeri potrebbero rappresentare oltre un decimo “di tutti i proprietari terrieri piccoli e medi e tra il dieci e il venti percento dei lavoratori salariati… nel qual caso l’esercito di lavoratori di riserva avrebbe avuto dimensioni paragonabili a quelle dei peggiori momenti della crisi economica degli anni Trenta.”39
Gli affittuari non colpiti dagli espropri sotto i Tudor finirono per essere vessati da affitti salati e multe arbitrarie, e chi non poteva pagare era spesso sfrattato dalla terra; “terra” sulla quale, come spiega Marx, i contadini “avevano gli stessi diritti feudali dei lord”.40
Quanto alle terre coltivate direttamente, per quanto di dimensioni risibili, continuavano ad essere gestite secondo il sistema a campo aperto. Molti dei “vagabondi” espropriati dai Tudor trovavano una valvola di sfogo nelle terre comuni, migravano in “quei villaggi a campo aperto che permettevano loro di ritagliarsi un pezzo di terra ai bordi delle terre comuni o di quelle incolte.”41
Sotto i re Giacomo I e Carlo I gli espropri diminuirono. Fino alla guerra civile, gli Stuart tentarono sporadicamente, e con scarso successo, di contrastare lo spopolamento e l’impoverimento delle campagne. La possibilità di accedere alle terre comuni nei villaggi a campo aperto, oltre al proliferare di piccoli casali abusivi, rappresentavano una spina nel fianco dei proprietari terrieri che, finché esistevano mezzi di sussistenza alternativi, faticavano a trovare lavoratori disposti a lavorare per un salario basso. Un polemista del Seicento lamenta l’esistenza di “intrusi arrivisti” e “fannulloni” che “vivono in casali costruiti in spregio della legge ovunque ci sia un campo non recintato e di uso comunitario…” Con il risultato che queste persone “non accettano di lavorare se non per un salario spropositato come piace a loro.”42
Con la deposizione di Carlo I e il trionfo dei presbiteriani in parlamento, diminuirono gli ostacoli che impedivano alla piccola nobiltà di esprimere la propria rapacità.
La cosiddetta riforma agraria del 1646 (confermata dalla Convenzione nel 1660) abolì i feudi. Al contempo abolì anche la Court of Wards e le tasse di successione, e “[dava] ai possidenti terrieri, che fino ad allora avevano avuto diritti limitati sulle loro terre, potere assoluto sulle stesse, compreso il diritto di disporne con testamento.” Quanto alle terre acquisite in cambio di un servizio militare, diventavano proprietà assoluta.43
…L’abolizione dei feudi toccava chi stava in alto, non gli altri… Chi aveva diritti terrieri non otteneva alcun diritto di proprietà assoluta, continuava a dipendere abiettamente dai padroni della terra, ed era esposto ad arbitrarie tasse di successione usate talvolta come mezzo per sfrattare i recalcitranti. A completare il quadro, una legge del 1677 rese ancora più precaria la concessione feudale rispetto alla proprietà assoluta, a meno che non si esibisse a sostegno un titolo legale.44
Il parlamento bocciò due proposte di legge che avrebbero imposto un limite alla tassa d’ingresso per chi aveva una concessione feudale, e posto un freno alle appropriazioni; perché, si diceva, avrebbero “distrutto la proprietà”.45 I proprietari terrieri divennero proprietari assoluti delle loro terre esenti da obblighi verso il monarca e l’aristocrazia, mentre i contadini non riuscirono ad ottenere presso le corti alcuna garanzia riguardo i loro diritti consuetudinari di proprietà, al contrario del proprietario terriero. L’effetto fu la sostanziale eliminazione di tutte le barriere legali all’esosità degli affitti, agli sfratti e alle enclosure.46 Marx definì “usurpazione” l’atto con cui i proprietari terrieri “rivendicarono a sé il diritto della moderna proprietà privata di terreni sui quali potevano vantare soltanto titoli feudali.”47
Le terre reali espropriate sotto l’interregno furono perlopiù acquistate da uomini “alla ricerca impaziente di guadagni facili. Gli affittuari che non potevano dimostrare il loro titolo di proprietà con documenti scritti rischiavano lo sfratto.”48 Gli affittuari dei nuovi padroni si lamentavano del fatto che questi ultimi “privavano i poveri affittuari di tutte le precedenti immunità e libertà.”49
Niente di tutto ciò, ovviamente, passò senza contrasti. Qualche dubbio sulla guerra civile rimane, per quanto Chesterton la definisca una “ribellione dei ricchi”. Per quanto la parte che sosteneva il parlamento usasse una retorica repubblicana, egalitaria e libertaria per purificare quelli che in realtà erano intenti piuttosto venali, tale retorica filtrò negli strati più bassi e fu presa sul serio dalle classi lavoratrici. Durante la guerra civile, l’opposizione popolare delle zone rurali riuscì spesso ad impedire le recinzioni di terre comuni e inutilizzate. Alcuni tra i teorici dei Leveller cercarono alleati nelle campagne e li incitarono alla distruzione delle recinzioni. Nel 1649 William Everhard (“un ufficiale destituito dell’esercito, ‘sedicente profeta’”)50, Gerrard Winstanley e un gruppo di seguaci strapparono diverse recinzioni e iniziarono a coltivare in comune le terre inutilizzate, da cui il termine “Diggers” (zappatori, ndt). Ma l’ala sinistra delle forze repubblicane non riuscì mai ad assicurarsi un’ampia alleanza con i contadini, né riuscì nell’intento di fomentare una rivolta totale delle campagne, così che la restaurazione dell’autorità centrale ebbe gioco facile nel mettere fine a quella poca opposizione esistente, dando carta bianca ai proprietari terrieri. Gli emissari dei Digger, che giravano per le campagne in cerca di proseliti, riuscirono soltanto ad esacerbare la risposta dei proprietari locali contro anche la più modesta tra le proposte di riforma fondiaria.51
Durante la Gloriosa Rivoluzione del 1688-89, i grandi possidenti riuscirono ad approfittare del vuoto di potere lasciato dall’allontanamento di Giacomo II per appropriarsi di grandi estensioni o semilegalmente, tramite lo stato, comprandole o vendendole a prezzo di favore, o “annettendole ai loro terreni con l’appropriazione diretta.”52
Il parlamento Whig, sotto la regina Maria II e il re Guglielmo III, approvò una serie di leggi sulla caccia con l’intento di limitare ulteriormente le possibilità di sussistenza autonoma delle classi lavoratrici. Da sempre per le popolazioni rurali la caccia rappresentava un’integrazione dell’alimentazione. La recinzione dei boschi comuni e l’abolizione del diritto di accesso misero fine a tutto ciò. Come scritto nel preambolo, la legge del 1692 serviva a rimediare al “danno supremo” di “piccoli artigiani, apprendisti e altri viziosi che trascurano l’attività e il lavoro” per darsi alla caccia e la pesca.53
La recinzione dei campi aperti sotto i Tudor (e in misura minore sotto gli Stuart) avvenne perlopiù “con azioni violente individuali combattute legalmente invano per un secolo e mezzo…” Quando nel diciottesimo secolo il parlamento cominciò ad autorizzare le recinzioni, “la legge divenne lo strumento che autorizzava il furto delle terre del popolo…” La Legge sulle Recinzioni approvata dal parlamento era sostanzialmente un “colpo di stato parlamentare” attuato con “decreti con cui i possidenti elargivano a se stessi le terre del popolo…”54 “Dall’inizio del diciottesimo secolo in poi, le redini del comando passano nelle mani dei sostenitori delle enclosure o recinzioni, e la politica espropriatrice agisce senza più freni o remore.”55
Come accadde con la politica di Stolypin e Stalin nei confronti del mir, o con la distruzione della comune di villaggio in India ad opera del Permanent Settlement, anche in Gran Bretagna “la comunità rurale… nel corso del diciottesimo secolo fu smontata e poi rimontata alla maniera di un dittatore che rifà un governo libero”.56
Come altrove, anche qui l’obiettivo era la leggibilità – “gli appetiti semplificanti dei possidenti”57 – che qui serviva non solo ai fini della tassazione, ma anche, cosa forse più importante, per semplificare l’opera dei proprietari terrieri nell’estrarre un surplus dai lavoratori rurali.
I proprietari terrieri si consideravano la spina dorsale dello stile di vita britannico, vedevano nell’imposizione di un più efficace controllo della società nel villaggio un bene per la pace e l’ordine nella società. “L’ordine sarebbe tornato al caos originario se avessero perso il controllo della vita e del destino dei loro vicini,” pensavano, da cui la conclusione: “la vecchia comunità contadina, con i suoi imbarazzanti diritti, era un peso.”58 Il diritto consuetudinario dei contadini era un ostacolo al potere dei possidenti, che intendevano introdurre unilateralmente nuove tecniche colturali.59 L’obiettivo delle “classi di governo”, detto con un’espressione che avrebbe potuto usare Stalin per giustificare la collettivizzazione, era “la cancellazione delle vecchie tradizioni di villaggio e di tutta l’annessa rete di rapporti e interessi, risolutamente e spietatamente.”60
Ma nei loro propositi c’era anche, molto più conscia ma volutamente nascosta, l’intenzione di estrarre un maggiore surplus dai lavoratori agricoli. Le classi possidenti odiavano i common61 perché allentavano la dipendenza dal lavoro salariato della popolazione rurale, la quale era riluttante a lavorare per i possidenti come questi ultimi avrebbero voluto.
Un pamphlet del 1793 spiega che “per rendere miti e operose le classi inferiori bisogna ‘porle nella necessità di dover lavorare, per procurarsi di che vivere, tutto il tempo che non impiegano a riposarsi e dormire’.”62
Un altro pamphlet del 1770, “Saggio sulle Attività e il Commercio”, avvertiva che “i lavoratori non dovrebbero mai sentirsi indipendenti dai loro superiori… La cura sarà perfetta solo quando i lavoratori poveri si accontenteranno di lavorare sei ore al giorno per quel salario che oggi ricevono in quattro giorni.”63
Arbuthnot, nel 1773, accusava i commoner64 di “incitare la pigrizia; tolto qualcuno, se gli offri un lavoro loro rispondono che devono accudire le pecore, diserbare, pascolare le mucche, e magari anche ferrare il cavallo per le corse o il cricket.”65
John Billingsley, nella sua Relazione sul Somerset presentata al Consiglio per l’Agricoltura nel 1795, parla di effetti negativi del common sul carattere del contadino:
A forza di passeggiare appresso alla mandria, acquisisce un’indole pigra. Senza accorgersene, perde così un quarto, metà o anche tutta la giornata. Arriva a odiare il lavoro quotidiano, diventa sempre più accidioso, e quando riesce a vendere un vitello o un maiale malnutrito coglie l’occasione per aggiungere condire l’ozio con l’ubriachezza.66
Bishton, nella sua Relazione sullo Shropshire del 1794, è tra i più sinceri riguardo l’obiettivo degli espropri terrieri. “L’uso delle terre comuni porta i contadini a sentirsi indipendenti.” Con l’esproprio, invece, “i braccianti lavorerebbero tutti i giorni dell’anno, i loro figli verrebbero messi a lavorare molto presto, e questo assicurerebbe quella subordinazione dei ranghi inferiori di cui oggi si ha tanto bisogno.”67
John Clark del Herefordshire scrive nel 1807 che le fattorie della sua contea “sono spesso a corto di braccia; l’esproprio delle terre aumenterebbe la forza lavoro disponibile privandoli degli strumenti che consentono di continuare ad oziare.”68
Una relazione sul Gloucester del 1807 avverte che “in agricoltura il pericolo maggiore è l’indipendenza dei lavoratori”. Altrove troviamo scritto che “Le aziende agricole private hanno bisogno continuo di braccia, persone che non abbiano altro modo per procurarsi di che vivere se non il loro lavoro quotidiano”.69
Spesso, ovviamente, il fine veniva celato dietro la preoccupazione per il benessere del lavoratore, che, incapace di procurarsi di che vivere, sarebbe degenerato spiritualmente nella pigrizia e nella dissoluzione. “Com’è umano!” avrebbe detto Fracchia.
Gli Hammond stimarono il totale delle terre recintate (prima del 1700) tra un sesto e un quinto delle terre coltivabili.70 Secondo le stime massimaliste di E.J. Hobsbawm e George Rude, “qualcosa come un quarto della superficie totale tra campo aperto, aree ad uso comune, pascoli e terre incolte” fu privatizzato tra il 1750 e il 1850.71 Secondo Maurice Dobb, nelle contee più colpite i provvedimenti riguardavano da un quarto a metà delle terre.72 W.E. Tate stima, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, un totale di sette milioni di acri (2,83 milioni di ettari, ndt), oltre centomila miglia quadrate (260 mila chilometri quadri circa, ndt), ovvero l’equivalente di sei contee inglesi.73 Due terzi circa dei provvedimenti riguardavano “il campo aperto con piccole attività”, mentre il restante terzo riguardava boschi e brughiere.”74
Francia: La guerra del re, la repubblica e l’impero contro i beni comuni
Come in Inghilterra, anche in Francia la razzia delle terre comuni cominciò agli albori dell’epoca moderna. Alla fine del diciottesimo secolo, alla vigilia della Rivoluzione, “nobiltà e clero si erano già impossessati di estensioni enormi di territorio – metà delle terre coltivabili, secondo alcune stime – generalmente per lasciarle incolte.”75 Uno degli ultimi atti della monarchia, confermato due anni più tardi dall’Assemblea Costituente, fu la sostituzione delle assemblee di villaggio con consigli eletti formati da un sindaco e da tre a sei rappresentanti “scelti tra i contadini più ricchi.”76 Nel 1792, davanti all’insurrezione contadina, la Convenzione restituì alla proprietà comune le terre espropriate, ma…
ordinò allo stesso tempo che fossero divise in parti uguali ma solo tra i contadini più ricchi. Il provvedimento provocò nuove insurrezioni tanto che fu revocato l’anno dopo, il 1793, e sostituito con un altro che imponeva di dividere le terre comuni tra tutti i partecipanti alla comune, ricchi e poveri, “attivi” e “inattivi”.
Questa politica, tipica degli stati “liberali” quando vogliono imporre la proprietà assoluta sulle comuni agricole, fu approvata dai contadini più in violazione che in osservanza. Nella maggior parte dei casi furono gli abitanti dei villaggi a tenere unite le terre comuni che riuscirono a riconquistare.
Le terre furono poi ripetutamente confiscate, dichiarate demanio dello stato e usate come collaterale di debiti di guerra, salvo poi essere restituite al bene comune tra il 1794 e il 1813. Ad ogni passaggio, però, diminuivano sia la superficie che la qualità dei terreni restituiti.77
Anche dopo le guerre, si continuò sulla stessa falsariga. Tra il 1837 e Napoleone III furono approvate tre leggi “col fine di spingere le comunità di villaggio a dividere i propri possedimenti.” Le leggi, data la reazione delle campagne, furono abrogate ogni volta ma (come già durante le guerre napoleoniche) “ogni volta si riusciva a strappare qualcosa”. Fu infine Napoleone III, “col pretesto di incoraggiare il miglioramento tecnico dell’agricoltura, a dare in concessione grosse porzioni delle terre comuni ai suoi protetti.”78
L’insediamento permanente in India
Spiega James Scott che in India l’Insediamento permanente…
creò una nuova classe che, in virtù del fatto che pagava imposte fondiarie, finì per acquisire la proprietà della terra, col diritto di lasciarla in eredità, laddove prima non esisteva niente di tutto ciò. Al contempo milioni di contadini, affittuari e braccianti persero il diritto di accesso alle terre e ai loro frutti.79
Come spiega Henry Maine, gli effetti nefasti dell’Insediamento derivavano dalla necessità, per usare le parole di Scott, di rendere leggibile la proprietà terriera agli occhi delle autorità fiscali.
Immaginiamo una provincia annessa per la prima volta all’Impero Anglo-Indiano. Come primo atto civico questo nuovo governo deve valutare la rendita delle terre; ovvero si tratta di determinare le dimensioni di ciò che la terra produce, il suo valore, così come richiede il sovrano da tutti gli Stati Orientali, al netto delle spese governative. Tra le tante domande, quella che ha più importanza pratica è: “A chi spetta che cosa? Chi andrà a formare l’insediamento? Quali persone, quali entità, quali gruppi dovranno rendere conto delle rendite fondiarie davanti al governo britannico? Insomma, occorre determinare l’unità sociale responsabile dell’attività agricola; una volta individuato ciò, si è individuato tutto, si è dato carattere finale a tutta la costituzione sociale e politica della provincia. Si attribuisce alla classe individuata un potere che riflette il suo dovere nei confronti del sovrano. Non che vengano conferiti veramente nuovi poteri, semplicemente si istituiscono diritti in relazione alle altre classi… Non ti chiedo di ricordare i nomi specifici delle varie classi con cui ‘esiste un accordo’ nelle diverse parti dell’India – Zemindar, Talukdar, Luberdar… – semplicemente voglio che i vari interessi di quelle terre indicate da quei nomi appaiono come se prosperassero a spese degli altri. Quando sigli un accordo in una nuova provincia, e scopri che la proprietà terriera è stata usurpata da un’oligarchia potente, pensi che si debbano togliere le imposte ai contadini oppressi? Il risultato sarebbe il declino immediato… delle classi superiori. Accadde così con l’insediamento di Oudh, distrutto dalla rivolta dei Sepoy nel… 1857. Pensi che, facendo il contrario, i titolari superiori obbediranno al governo? Scoprirai di aver creato un’aristocrazia terriera seconda solo ai possidenti inglesi quanto a ricchezza e potere. Di questo genere è il più recente insediamento della provincia di Oudh, siglato solo ultimamente; e questa sarà in fin dei conti la posizione dei Talukdar, o dei baroni, tra i quali la terra è stata divisa.80
Nessuna delle due opzioni era ottimale, secondo Maine. Secondo quanto suggeriscono i documenti del tempo, in gran parte dell’India “non esistevano proprietà terriere, tranne quelle delle comunità di villaggio, a loro volta soggette al dominio statale.”81
L’insediamento più noto era quello di Lord Cornwallis nel Bengala Meridionale, descritto da Maine come “un tentativo di creare una proprietà fondiaria ad immagine della proprietà di questo paese [la Gran Bretagna], concedendo all’aristocrazia naturale la proprietà assoluta di certe parti dell’India…”82 Per contrastarne gli effetti negativi, l’amministrazione inglese sperimentò l’approccio contrario nell’India meridionale, attorno alla città di Madras, “al fine di eliminare tutte le entità frapposte tra l’amministrazione stessa e chi coltivava direttamente la terra, e [prendere] direttamente da loro la dovuta quota della produzione. L’effetto fu la nascita di una proprietà contadina.” Pur essendo gli effetti sulla produttività di gran lunga più favorevoli rispetto all’insediamento di Cornwallis, il sistema rappresentava una deviazione radicale dal sistema tradizionale.83
Come dice Maine, però, la politica insediativa inglese tendeva principalmente a creare col tempo un’aristocrazia terriera da tassare, “registrando tutti i detentori di diritti superiori in quando possidenti terrieri, secondo il concetto di possesso preso dall’Inghilterra…”84 Si trattava semplicemente di trovare in ogni provincia quella classe che più si avvicinava concettualmente al “proprietario” inglese: “la classe con cui ‘fare accordi’ era quella che vantava diritti sulla terra che più si avvicinavano ai diritti di proprietà.” Gli inglesi generalmente partivano dal presupposto che tali diritti fossero assimilabili al diritto di proprietà assoluta inglese, non tenevano conto del fatto che le classi in questione potevano avere, secondo le tradizioni locali, un concetto diverso di diritto di proprietà. L’effetto fu che una classe il cui diritto di proprietà era sempre stato limitato dalle leggi consuetudinarie fu trasformata in classe possidente con diritti di proprietà e poteri assoluti sulla terra, e con un potere illimitato di sfratto e di sfruttamento degli affittuari laddove prima tale potere era pressoché sconosciuto.85
Nel caso di Lord Cornwallis in Bengala – una provincia in cui il villaggio tradizionale era già “decaduto per conto suo” senza lasciare alcunché che somigliasse ad una vera classe di proprietari – invece di seguire quello che per Maine era il percorso obbligato, ovvero creare una “proprietà contadina”, “la regione fu trasformata in una serie di grandi possedimenti, il che costrinse Cornwallis a strappare i proprietari terrieri dalle mani degli esattori dei suoi inetti predecessori.”86
Oltre all’Insediamento, c’erano altre forze contribuivano a minare le regole sulla proprietà delle comuni di villaggio. Maine cita l’esempio del Bengala – la provincia in cui l’invasione del diritto inglese e l’indebolimento delle norme consuetudinarie sulla proprietà comune erano più avanzati –, dove le leggi testamentarie minavano la proprietà collettiva delle famiglie. Un numero crescente di plutocrati nativi, tra i quali Maine cita “un brahmano di alto lignaggio”, si serviva dei poteri testamentari concessi dal diritto inglese per ovviare al diritto tradizionale indiano e diseredare qualcuno al fine di favorire qualcun altro, una pratica in totale contrasto con le norme consuetudinarie, secondo le quali il diritto alla proprietà collettiva di una famiglia non poteva essere modificato neanche dal patriarca. Le leggi sulla libertà testamentaria, in netto contrasto con il diritto tradizionale in materia di proprietà comune di famiglie e villaggi, ebbero un forte potere distruttivo nei confronti del diritto nativo in fatto di proprietà.87
La distruzione del Mir in Russia
In Russia, prima Stolypin e poi Stalin affondarono il mir con l’equivalente di un micidiale uno-due.
Le cosiddette “riforme” di Stolypin miravano a rendere meglio leggibili e tassabili i contadini, e permanentemente alienabili le attività individuali o tramite la vendita o come collaterale di un debito, il tutto imponendone la proprietà privata; il che generava l’ulteriore beneficio, almeno dal punto di vista di Stolypin, di convertire gli abitanti delle campagne in conservatori possidenti.
Il sogno di funzionari pubblici e riformatori agrari, almeno fin dai tempi dell’emancipazione, era la trasformazione del sistema a campo aperto in una serie di aziende indipendenti e consolidate secondo quello che per loro era il modello europeo occidentale. A guidarli era la volontà di spezzare il dominio che la comunità aveva sulla famiglia individuale per poi passare da un regime che prevedeva la tassazione dell’intera comunità ad un regime che tassasse le singole proprietà…
…Era più che evidente che alla base dell’atteggiamento pregiudiziale verso la gestione divisa della proprietà comune c’era tanto l’autonomia del villaggio russo, ovvero la sua illeggibilità dall’esterno, quanto il dogma diffuso dell’agricoltura scientifica sulla base di prove concrete.88
Il tentativo di Stolypin di imporre una rivoluzione dall’alto riuscì a metà. In molti villaggi, la maggior parte dei contadini ignorò le nuove direttive sulla proprietà imposte da San Pietroburgo e continuò con la pratica della gestione divisa delle terre comuni propria del mir.89 Perfino nei villaggi di nuova formazione, composti da “contadini in eccedenza” e voluti da Stolypin in Siberia, i coloni spesso ignoravano i suoi piani, che prevedevano un nuovo modello basato sulla proprietà assoluta di lotti individuali, e optavano per una colonizzazione di gruppo con la proprietà comune.90
Dopo la Rivoluzione, i contadini avviarono unilateralmente una riforma fondiaria che prevedeva il ritorno al mir così come esisteva prima dell’attuazione dei piani di Stolypin.
Dopo il tracollo dell’offensiva bellica in Austria, con la conseguente diserzione di massa, molte delle terre dei possidenti e della chiesa, così come le “terre della corona”, furono fatte proprie dai contadini. Ricchi contadini che coltivavano aziende indipendenti (i “separati” delle riforme stolypiniane) furono generalmente costretti a tornare al sistema a ripartizione dei villaggi, e la società rurale nell’insieme ne uscì radicalmente appiattita. I più ricchi furono espropriati, e molti tra i più poveri divennero piccoli proprietari per la prima volta nella loro vita.
Secondo dati statistici, il numero dei lavoratori giornalieri russi dimezzò, e la dimensione media della proprietà crebbe del 20 percento (in Ucraina, del 100 percento). In tutto furono confiscati a possidenti piccoli e grandi, quasi sempre per iniziativa locale, 100 milioni di ettari, ceduti poi ai contadini la cui proprietà media era adesso attorno ai 28 ettari.91
Molti libertari direbbero che gli espropri dei separati furono un furto, ma sarebbe un’asserzione quantomeno dubbia. Se è vero che la proprietà collettiva propria del mir risaliva a tempi remotissimi, e dunque era da considerarsi proprietà legittima, ne consegue che fu la divisione e l’alienazione di parti di tale proprietà, imposta da Stolypin con la proprietà assoluta, a rappresentare un furto ai danni del mir. Pertanto l’azione restauratrice dei separati fu un semplice atto di giustizia.
I beni comuni, in questa forma nuova con cui lo stato sovietico dovette avere a che fare, erano pressoché illeggibili, e la loro produzione molto meno appropriabile rispetto a prima.
Dal punto di vista dell’agente delle tasse o di una unità di approvvigionamento militare, la situazione era praticamente imperscrutabile. La proprietà terriera di ogni villaggio era drasticamente mutata. Le attuali pretese non potevano basarsi sui precedenti attestati di proprietà che, quand’anche esistevano, erano del tutto inaffidabili. Ogni villaggio era unico sotto molti aspetti; se anche fosse stato possibile “mapparlo”, l’estrema mobilità della popolazione e i disordini militari del tempo avrebbero reso obsoleta qualunque mappa nel giro di sei mesi al massimo. Una combinazione di piccole proprietà e proprietà comuni, a cui si aggiungevano costanti cambiamenti spaziali e temporali, costituiva un’impenetrabile barriera contro qualunque rigoroso sistema fiscale.
A complicare le difficoltà dei funzionari dello stato si aggiunsero due ulteriori conseguenze della rivoluzione sullo stato delle campagne. Prima del 1917, le grandi aziende producevano quasi tre quarti del grano destinato al mercato domestico e estero. Erano queste a sfamare le città. Ma ora non era più così. Gran parte dei coltivatori ancora esistenti consumava una porzione molto più grande del proprio raccolto. E non era disposto a cederlo senza lottare. Prendere anche qualcosa di meno della “quota” di epoca zarista, con la nuova egalitaria divisione delle terre avrebbe posto i bolscevichi in conflitto con le necessità di sussistenza dei contadini piccoli e medi.
Seconda conseguenza importante, se non decisiva, della rivoluzione fu che questa aumentò enormemente la determinazione e la capacità delle comunità contadine di opporsi allo stato. Ogni rivoluzione crea un momentaneo vuoto di potere in cui il vecchio regime non esiste più e il nuovo non si è ancora imposto sul territorio. Nelle campagne questo vuoto di potere durò finché i bolscevichi rimasero nell’ambito cittadino, impegnati a combattere la lunga guerra civile. Per la prima volta… i villaggi, pur in condizioni disperate, erano liberi di badare a se stessi. Come detto, solitamente gli abitanti dei villaggi espellevano i borghesi o ne bruciavano le proprietà, prendevano con la forza le loro terre (compresi i diritti relativi alle terre comuni e ai boschi), e spingevano i separati a tornare alla proprietà comune. I villaggi si comportavano tendenzialmente come repubbliche autonome, con un occhio di riguardo verso i Rossi purché questi accettassero la “rivoluzione” locale, ma fieramente contrari a qualunque prelievo forzato di grano, bestiame o uomini.92
Ad esacerbare il problema dell’opacità contribuì anche la distruzione di quelle limitate conoscenze del territorio che gli esattori pre-rivoluzionari, i funzionari e i borghesi zaristi possedevano. I soviet dei villaggi, che avrebbero dovuto svolgere questa funzione, erano solitamente formati da persone la cui lealtà andava prima al villaggio e poi allo stato sovietico.93 Come già avveniva in passato con i piani di Stolypin, così ora la comune del villaggio offuscava deliberatamente i dati economici del villaggio al fine di renderli imperscrutabili agli occhi dello stato sovietico. Già prima della Rivoluzione, le comuni agricole riuscivano a nascondere agli occhi del potere il 15 percento circa delle terre coltivabili. Dopo la Rivoluzione la pratica continuò con le terre confiscate ai feudatari e alla borghesia terriera.
Le dimensioni e la suddivisione delle terre erano ovviamente leggibili orizzontalmente per i contadini del villaggio. “I comitati dei villaggi… tenevano nota della suddivisione delle terre, organizzavano le squadre di aratura, predisponevano i calendari dei pascoli e tutto il resto, ma i funzionari non potevano accedere a nessuna di queste informazioni…”94 Quando, dopo la Rivoluzione, le comuni ripresero vigore, il mir del villaggio prese a sovrintendere alle divisioni delle terre con le periodiche ridistribuzioni così come accadeva all’epoca di massima espansione del sistema a campo aperto.
Il programma di industrializzazione voluto da Stalin, con la sua necessità di garantire il flusso di alimenti provenienti dalle campagne, si trovò davanti il grosso ostacolo di una ridotta appropriabilità della produzione agricola. Il prezzo d’acquisto ufficiale del grano era un quinto del suo prezzo di mercato, il che generava opposizione tra i contadini. Lo stato ricorse ai prelievi forzati, sulla scorta delle requisizioni durante la Guerra Civile, ma si trattava di azioni inefficaci, come sotto la guerra e per le stesse ragioni: gli abitanti dei villaggi erano bravissimi a nascondere la quantità reale di grano disponibile. Fu soprattutto la volontà di sconfiggere queste pratiche a spingere Stalin a adottare il programma di collettivizzazione forzata totale.
Fu nel contesto di questa guerra del grano, e non come iniziativa politica pianificata, che nacque la decisione di imporre la collettivizzazione “totale” (sploschnaia) nel 1929. Gli studiosi, generalmente in disaccordo su tante cose, almeno su questo punto concordano: l’obiettivo principale della collettivizzazione era la necessità di assicurare le requisizioni di grano.95
Nei dibattiti precedenti la collettivizzazione forzata, i sostenitori (come Evgenij Preobraženskij) sostenevano apertamente che si trattasse di una forma di “accumulazione primitiva socialista”, sulla scorta dell’accumulazione primitiva che secondo Marx è un prerequisito della rivoluzione industriale. Se si voleva spingere l’industrializzazione delle città, occorreva estrarre dalle campagne il massimo della produzione extra.
L’obiettivo principale della collettivizzazione di stato era la trasformazione della terra incognita della tradizionale proprietà comune in qualcosa di leggibile dall’alto, così da permettere allo stato di estrarre il massimo in termini tributari. Si trattava del classico esempio dello stato che cerca di imporre la leggibilità, e per fare questo occorreva consolidare l’economia rurale in gigantesche unità controllate centralmente, con chiare catene di comando, proletarizzando i contadini e imponendo regole di lavoro tayloriste al processo produttivo. Questo prevedeva, tra l’altro, una divisione su larga scala del lavoro nei campi, per cui ogni kolchoz si specializzava in una monocoltura e il villaggio cessava di essere un’unità economica diversificata. Le fattorie collettive erano programmate per funzionare come un’enorme catena di montaggio agli ordini dello stato, così come le fabbriche di automobili obbedivano a Henry Ford. Le linee di comando delle fattorie collettive erano trasversali: c’erano kolchoz che comprendevano numerosi villaggi, mentre in altri casi i confini non tenevano conto dei villaggi preesistenti.96 A differenza dei soviet dei villaggi, subito cooptati nel mir, questi nuovi “giganti collettivi” potevano aggirare le tradizionali strutture sociali del villaggio, erano governati da “un consiglio di dirigenti e specialisti”, ed erano divisi in sezioni controllate da un responsabile nominato dallo stato.97
Se la collettivizzazione fu un fallimento miserabile in termini di quantità ed efficienza produttiva, fu invece un sostanziale successo nel senso che raggiunse, anche a costo di affamare le campagne, l’obiettivo preposto di rendere più efficiente l’estrazione e fornire una quantità di prodotti alimentari sufficiente a sostenere il programma staliniano di industrializzazione delle città.
In campo agricolo, la grande conquista, se si può chiamarla così, dello stato sovietico fu la trasformazione di un particolare assetto socio-economico decisamente avverso all’appropriazione e al controllo, in una serie di unità produttive istituzionali molto più adatte al controllo, alla gestione e al dominio dall’alto. Di fronte ad una società rurale tumultuosa, sciolta e acefala, difficilmente controllabile e con scarsi appigli politici, i bolscevichi, così come i fautori della forestazione produttiva, si disposero a ridisegnare l’ambiente con in mente pochi, semplici obiettivi. Al posto delle realtà esistenti, misero su un insieme fatto di fattorie gestite gerarchicamente dallo stato, con piani colturali e quote produttive imposte dall’alto, e con una popolazione statica per legge. Per quasi sessant’anni questo sistema garantì il controllo degli approvvigionamenti, ma generò costi enormi in termini di stagnazione, sprechi, sfiducia e disastro ambientale.98
Il programma di collettivizzazione dello stato sovietico fu sostanzialmente una reimposizione della servitù. Sotto la Guerra Civile ai contadini “il nascente stato bolscevico, nato come spesso accade sotto forma di saccheggio di guerra, appariva come una riconquista delle campagne da parte dello stato, con il marchio indelebile della colonizzazione che minacciava la riconquistata autonomia.”99 Passata la breve tregua della Nuova Politica Economica, i contadini subirono una vera e propria riconquista accompagnata dal saccheggio. I contadini vedevano nelle nuove fattorie collettive un ritorno della servitù, con l’obbligo di lavorare i campi del kolchoz agli ordini di un dirigente di stato in cambio di una paga fissa, in quella che era una rinascita della barscina (la corvé feudale). Come i loro bisnonni servi, anche i contadini sovietici erano obbligati ogni anno a lavorare gratis alla manutenzione delle strade. Proprio come i vecchi possidenti di una volta, anche i funzionari del kolchoz usavano i contadini per fini privati, e avevano il potere – se non per legge, almeno di fatto – “di insultare, fustigare o esiliare” i contadini disobbedienti. Come ai tempi della servitù, un sistema di passaporti interni privava il contadino della possibilità legale di scappare dalle campagne.100 Appare chiaro come i contadini considerassero il lavoro nel kolchoz – così come le corvé nel sistema feudale – qualcosa da fare in tutta fretta per poi tornare al proprio orto personale.
Come scrive Scott, “la collettivizzazione fu un fatto notevole tanto per ciò che edificò quanto per ciò che distrusse.”
L’intento iniziale della collettivizzazione non era semplicemente vincere le resistenze dei contadini benestanti e prendere le loro terre, ma anche smantellare quell’unità sociale che generava opposizione, ovvero il mir. Durante la rivoluzione, le comuni contadine erano state lo strumento che aveva permesso l’organizzazione dell’esproprio terriero, predisposto l’utilizzo di terre e pascoli, diretto le questioni generali e favorito l’opposizione all’esproprio della produzione agricola.
Il kolchoz non era… la tradizionale comune in forma abbellita. Cambiava quasi tutto. Tutti i punti di riferimento di una vita pubblica autonoma erano stati eliminati. La taverna, la fiera e il mercato, la chiesa e il mulino scomparvero. Al loro posto comparve l’ufficio del kolchoz, la sala per gli incontri pubblici e la scuola.101
…Al posto di un’economia contadina il cui raccolto, i guadagni e i profitti erano pressoché indecifrabili, furono create unità preposte appositamente all’appropriazione semplice e diretta. Al posto di un insieme di unità sociali, ognuna con la sua storia e le sue pratiche, furono create omologhe unità contabili che rientravano nel quadro amministrativo nazionale.102
Possiamo paragornare la collettivizzazione al fenomeno delle britanniche enclosure. Anche qui una classe contadina (ognuno è libero di coltivare l’appezzamento assegnato e tenere per sé gran parte della produzione) fu trasformata in una classe proletaria che coltivava la terra agli ordini di un supervisore pagato da un proprietario assenteista.
La politica terriera britannica in Africa
La politica terriera in Africa Orientale ruotava attorno all’“esproprio delle comunità indigene di gran parte delle terre che per tradizione erano sempre appartenute a loro”. Le terre incolte, le terre comuni, i boschi e i pascoli furono dichiarati proprietà dell’amministrazione coloniale, abrogando così i diritti tradizionali; a peggiorare le cose, l’imposizione di tasse pro capite costrinse i contadini autosufficienti ad entrare nell’economia monetaria.
In tutte le colonie la prassi consisteva nel dichiarare tutte le terre “incolte” proprietà dell’amministrazione coloniale. Si negava così, con un solo atto, alle comunità locali il diritto legale di disporre delle terre tradizionalmente poste a riposo, nonché dei boschi, i pascoli e i corsi d’acqua, tutte cose da cui le popolazioni dipendevano per la caccia, la raccolta di frutti selvatici, la pesca e l’allevamento.
Laddove, come capitava spesso, le autorità coloniali scoprivano che le terre che intendevano sfruttare erano già “coltivate”, si rimediava spingendo la popolazione indigena ad occupare le terre di bassa qualità giudicate inadatte agli insediamenti europei. In Kenya, queste riserve erano “strutturate in modo da permettere agli europei, che costituivano meno dell’uno percento della popolazione, di accedere alle terre alte più fertili che costituivano il venti percento del paese. Nella Rhodesia Meridionale i coloni, appena il cinque percento della popolazione, arrivarono ad acquisire la proprietà di due terzi delle terre…
Una volta assicurata la proprietà nelle mani dell’amministrazione coloniale, le terre comuni venivano solitamente affittate ad aziende per usi agricoli, estrattivi o forestali, oppure erano vendute a coloni bianchi.103
III. La questione dell’efficienza
Moltissime delle critiche riguardanti la presunta inefficienza del sistema inglese a campo aperto e a pascolo comune appaiono, ad un esame approfondito, false. Rientrano tra queste critiche gran parte delle obiezioni fatte da Chambers e Mingay e solitamente citate dai sostenitori delle enclosure, come vedremo in appendice. Una delle questioni più credibili, sollevata da Henry Sumner Maine, fu la pretesa di acquisire le terre incolte quando fosse assolutamente necessario ampliare le aree coltivate. A questo mancato ampliamento seguì una serie di distorsioni sociali all’interno del villaggio.
Pur essendo “ad un certo stadio del loro sviluppo” governate democraticamente, col tempo le comuni di villaggio tendevano a diventare “oligarchie”, come osservava Maine riferendosi in particolare ai villaggi indiani ai tempi dell’Insediamento. La relativa democrazia delle comuni di villaggio era il risultato di una relativamente superiore “capacità di assimilare gli stranieri” tipica dei primi tempi, “quando gli uomini erano più preziosi delle terre.” I villaggi, dato “l’alto valore della nuova manodopera”, erano dispostissimi ad assimilare gli esterni, facendoli accedere ai privilegi della fratellanza del villaggio con pari diritti di accesso alla terra. Ma quando la crescita demografica entrava in conflitto con l’estensione delle terre coltivabili, la terra diventava più preziosa delle persone; e il risultato era una stratificazione sociale basata sul controllo dell’accesso alla terra da parte delle famiglie più prestigiose, e sulla richiesta di una maggiore deferenza verso queste famiglie, necessaria ad assicurarsi il diritto di accesso. Allo stesso tempo il villaggio tendeva a diventare una “corporazione chiusa”, a cui gli esterni potevano accedere solo come fittavoli (creando così lo stesso problema dei lavoratori divisi in due classi che affligge le moderne cooperative e i kibbutz quando assumono giornalieri esterni). Il risultato era ovviamente un conflitto di interessi, per cui era nell’interesse delle famiglie più importanti rallentare la coltivazione delle terre incolte.
Secondo Maine, l’unico vantaggio offerto dalla forma finale dell’insediamento di Cornwallis in Bengala fu che risolveva il problema dell’utilizzo delle terre incolte. I britannici, elevando gli Zemindar a classe di proprietari terrieri assoluti, li liberarono da quelle tradizioni che limitavano “il loro potere sui subordinati affittuari”, dando loro il dominio delle terre incolte. Liberati da queste norme consuetudinarie, che nei villaggi regolavano l’accesso alla terra, gli Zemindar cominciarono a far coltivare le terre libere importando contadini senza terra. In un paese con enormi estensioni incolte e un’agricoltura insufficiente a sfamare tutti, spiega Maine, creare una classe di proprietari assoluti era un modo per ovviare alle restrizioni che la tradizione imponeva sull’uso delle terre incolte, allargando le zone coltivate.104
Io credo invece che a limitare l’uso delle terre incolte non fosse l’assenza di un potere dittatoriale capace di abbattere le tradizionali restrizioni all’uso di tali terre. Credo invece che il problema fosse il potere, illegittimo e antilibertario, della comune di villaggio di regolare l’accesso alle terre incolte. Le terre coltivabili del villaggio, i pascoli, i prati, così come le terre da legnatico, erano tutte appropriate secondo la logica dell’unione del lavoro con la terra, come spiega Roderick Long all’inizio di questo saggio. Ma le terre inutilizzate potevano essere appropriate solo collettivamente da parte di tutti utilizzatori uniti, non semplicemente reclamandone il possesso. Non avendo colonizzato le terre incolte, il villaggio non aveva alcun diritto di impedire ad altri, o ai propri abitanti più poveri, di fondarvi un nuovo villaggio.
Conclusione
Ne Il mutuo appoggio, Kropotkin definisce le enclosure e l’appropriazione privata del bene comune “una morte spontanea… perpetrata con le leggi dell’economia”. “Un po’ come dire che i soldati in battaglia muoiono di morte naturale”.
La cosa era semplice. La comunità del villaggio esisteva da migliaia d’anni; e i contadini, quando non erano martoriati da guerre o tasse, riuscivano a migliorare le proprie tecniche. Ma con la crescita del valore delle terre, conseguenza dell’industrializzazione, e con la crescita del potere nobiliare grazie allo stato, un potere superiore al potere feudale, la nobiltà finì per acquisire a sé le parti migliori delle terre comuni facendo tutto il possibile per distruggere le istituzioni dei beni comuni.105
Insomma, non bisogna confondere, come fanno i libertari, la dicotomia stato-privato con la dicotomia individuale-comune. Questa è la lezione di fondo.
Appendice: I dibattiti sulle enclosure
A partire dagli anni Sessanta – sulla scia di opere come The Agricultural Revolution e altre di J.D. Chambers e G.E. Mingay – comincia la reazione contro il pensiero radicale dominante sulle enclosure espresso, tra gli altri, da Marx nel capitolo sull’accumulazione primitiva del primo volume del Capitale, nonché da autori di sinistra come J.L. e Barbara Hammond o E.P. Thompson. Da allora è pratica diffusa, tra chi a destra intende difendere i “diritti di proprietà” delle classi terriere, affermare che Chambers ha “smentito” gli storici radicali.
Analogamente, tanti oggi attribuiscono a Jevons, Menger, Bohm-Bawerk, Mises e vari altri appartenenti alla tradizione marginalista-soggettivista una “smentita dell’economia politica ricardiana”. Si tratta di persone che hanno conoscenze di seconda mano in fatto di economia politica e marginalismo, persone che hanno poca o nessuna conoscenza delle questioni riguardanti le due scuole.
Un esempio è Thomas Woods, del Ludwig von Mises Institute, che liquida come “socialiste” tutte quelle teorie secondo le quali la Rivoluzione Industriale e il sistema salariale sono state condizionate dalle enclosure, che tra l’altro ne avrebbe accentuato il carattere sfruttatore.
Era uno dei temi principali dei socialisti: bisognava nascondere il fatto che la gente avesse abbandonato spontaneamente la terra per la fabbrica, il fatto che avesse scelto razionalmente ciò che era meglio per loro. Bisognava far credere che fossero stati costretti o imbrogliati in qualche modo… [Q]uasi tutti gli storici socialisti, prima di essere travolti dall’evidenza, hanno cercato di dipingere la realtà in questa maniera…
Qui non si tratta di capire se il processo di appropriazione delle terre era all’altezza degli standard libertari, anche se probabilmente si celano molte ingiustizie sotto le rassicurazioni di molti studiosi secondo i quali l’esproprio rese l’agricoltura più efficiente… Si tratta invece di sapere se l’esproprio sistematico, lo spopolamento delle campagne o la povertà rurale furono causate dalle enclosure. E la risposta è no.
Secondo Woods, quindi, al contrario della “moderna ricerca”, la vecchia storiografia di sinistra non è che “propaganda”.106 Le “prove lampanti” di cui parla Woods, quelle che lui descrive come “gli ultimi cinquant’anni di studi”, si riassumono sostanzialmente nell’opera di Mingay. Secondo Woods, Mingay avrebbe detto l’ultima in materia di ricerca storica. Apparentemente Woods ignora il fatto che il “revisionismo” di Mingay oggi rappresenta la nuova ortodossia, o che critici come J.M. Neeson hanno praticamente smontato le teorie di Mingay in materia di enclosure.
Secondo Chambers e Mingay, in The Agricultural Revolution, solo una piccola parte della popolazione rurale aveva diritto alle terre comuni, queste avevano un’importanza marginale e portavano pochi benefici a gran parte della popolazione rurale, il bestiame era malnutrito e piagato dalle malattie e nel 1750 la nobiltà terriera inglese era già scomparsa.107
Quasi niente regge ad un esame approfondito. Spiega ad esempio J.M. Neeson che nei documenti ufficiali l’entità dei diritti riconosciuti agli abitanti dei common era fortemente sottostimata perché non si teneva conto dei diritti di origine feudale:
Il numero dei casolari riconosciuti dal diritto comune, censiti al momento dell’esproprio dai signori feudali o dai sovrintendenti incaricati di effettuare le enclosure, corrisponde al numero delle persone coinvolte nel processo, ma si tratta di un valore sottostimato. Erano riconosciuti solo i diritti legali in senso stretto, mentre i più diffusi diritti consuetudinari venivano talvolta ignorati completamente.
I sovrintendenti ignoravano i diritti consuetudinari basati sulla residenza piuttosto che sul possesso del casale con relativi diritti.108 Chambers e Mingay ammettono il fatto in termini di principio, ma poi affermano che i sovrintendenti riconoscevano i diritti consuetudinari.
Chi godeva di diritti comuni veniva sempre compensato con una certa quantità di terra. (Da notare che gli occupanti di casolari che rientravano nel diritto comune e che godevano dei diritti comuni in quanto fittavoli non ricevevano compensazione perché, ovviamente, non potevano dimostrare diritti di proprietà. Si faceva distinzione tra proprietario e affittuario, non c’erano frodi o inosservanze da parte dei sovrintendenti nei confronti dei contadini).109
Non erano riconosciuti neanche i diritti di quelle attività comuni che, pur essendo inattive al momento dell’esproprio, si attivavano saltuariamente secondo le circostanze economiche.110
Gli storici sottostimavano il numero dei diritti comuni anche perché erano condivisibili: non di rado un casale era condiviso tra più famiglie.111
Al momento degli espropri, circa metà della popolazione era costituita da contadini che avevano “diritti di pascolo annessi alle terre lavorate o ai casali occupati da essi.” C’erano poi contadini senza terra che integravano il reddito da lavoro salariato, o da artigiano, con un piccolo diritto di pascolo, e poi le vedove che avevano figli o che occupavano terre incolte.112 È probabile che questi diritti consuetudinari fossero più importanti per i contadini senza terra o con poche terre che non per chi aveva diritto formale ad un pezzo di terra nel campo aperto. In alcune parrocchie, i diritti comuni erano riconosciuti agli occupanti di una terra più che ai possessori di un casale, e questo spiega perché i contadini erano molti di più dei possidenti.113
Ecco perché in certi villaggi, in cui secondo le tesi di Chambers e Mingay non avrebbero dovuto esserci contadini, troviamo una numerosa popolazione rurale “senza terra” ma con diritto di accesso alla terra.
Chambers e Mingay sottostimano l’entità economica dei diritti, che loro presumono minimi, di contadini e occupanti. Ma anche un piccolo pezzo di terra, come quello che possedeva gran parte della popolazione rurale, significava una grande indipendenza. Un acro (4.000 metri quadri circa, NdT) o anche meno di campo aperto occupato, un pollaio e il diritto di pascolare qualche pecora nel bene comune “significava molto”, spiega Neeson. Ad una famiglia bastavano da uno a tre acri coltivati a patate, grano, orzo o segale – con cui fare il pane – per vivere bene anche “in anni di magra”. I contadini senza terra godevano solitamente anche del diritto consuetudinario di pascolare i maiali nel bene comune. I maiali allevati nel bosco e le anatre delle zone paludose erano spesso venduti alle fattorie, che poi li ingrassavano per mangiarli; ed è da notare che dopo le enclosure la tradizione dell’anatra arrosto e l’utilizzo delle piume d’anatra si fanno più rari. Insomma, bastava una piccola proprietà ai margini delle terre incolte a rendere un servo “indipendente dalla fattoria e dalla nobiltà di campagna.”114
[A sentire le voci critiche], il valore del common non superava quello del legnatico che se ne poteva ricavare. Questi però forse non sapevano che le terre incolte potevano offrire molto di più. Seguire una mucca al pascolo, mettere trappole per i conigli o gli uccelli, pescare, raccogliere la legna, raccogliere il crescione, le noci o i fiori di primavera, il cardo selvatico, il giunco, funghi o bacche, cavare torba, tutto ciò rientrava nell’economia della comune, era il suo stile di vita invisibile che gli esterni non riuscivano a vedere.115
Ma anche quei contadini che non avevano diritto a coltivare o pascolare nel common potevano comunque usufruire del legnatico, nonché di tutto quel che di commestibile si poteva raccogliere, e anche dei materiali da costruzione e di “ogni genere di prodotti utili”116 che le terre incolte potevano offrire. Come noci, funghi, tartufi, erbe officinali e edibili, mele selvatiche, e la selvaggina minuta come gli uccelli e i conigli.117 Il legnatico praticato nei boschi e nelle aree incolte permetteva a una famiglia, in certe località, di garantire la scorta annuale con una settimana di lavoro; dopo le enclosure, la stessa quantità richiedeva da quattro a cinque settimane di salario di un lavoratore agricolo.118 La spigolatura era un’altra fonte significativa di sussistenza per i più poveri (garantiva la farina almeno fino a Natale),119 mentre il diritto di raccogliere la lana che restava impigliata nei cespugli o quella che cadeva durante la muta estiva forniva fibre sufficienti per la filatura. Secondo un testimone del tempo, almeno metà della lana del common non era tosata ma raccolta.120
Questi diritti offrivano ai senza terra anche “lo strumento per praticare lo scambio con gli altri abitanti del common, rendendoli così parte di quella rete di scambi che alimenta il rapporto reciproco. Anche per loro, diritti come la spigolatura e l’accesso alle terre incolte contribuivano ad allargare il margine di sussistenza e aiutavano a tenere unito il villaggio inteso come unità socioeconomica.121
L’unità socioeconomica così composta comprendeva una significativa rete di protezione sociale, del genere descritto da Kropotkin ne Il mutuo appoggio. Secondo Neeson, i lavori stagionali praticati in comune, come raccogliere giunchi, mietere e spigolare, raccogliere torba, bacche o altro, uniti a un’economia di scambio minuta a cui partecipavano anche popolani senza terra – “more, vino di tarassaco, marmellate o servizi di trasporto del legnatico” – alimentavano il rapporto tra le famiglie creando “legami reciproci”. Dopo le enclosure, dati i loro magri salari le famiglie povere, non avendo più accesso ai campi incolti, non potevano procurarsi ciò che permetteva loro di partecipare all’economia del dono; questo significa che non erano più in grado di ricreare quei legami e quei rapporti di mutuo aiuto che un tempo formavano un sistema di sicurezza.122
A tutto ciò possiamo aggiungere studi recenti che mettono a confronto il benessere sociale delle comunità in cui la terra è distribuita diffusamente con quello delle comunità in cui la proprietà terriera è concentrata in poche mega aziende.
In sostanza, come dice anche Neeson, è l’esistenza dei beni comuni che fa la differenza tra una comunità di persone libere e indipendenti e un insieme di lavoratori salariati:
Vivere di ciò che produce il common stimola la frugalità. Un common che produce ha sempre rappresentato una rete di sicurezza, la ricchezza nascosta dei popolani, è la forma più antica di un’economia arcaica. Forniva legna da ardere, alimento e materie prime che davano la possibilità di rimanere lontano dal mercato sia per quanto riguarda il lavoro che il consumo. E l’indipendenza dei popolani cresceva con la sua produttività.
L’abituale dipendenza pratica dal common riduceva il bisogno di un lavoro dipendente. I popolani facevano ricorso a ciò che era immediatamente disponibile, il common, che dopotutto era più antico del lavoro salariato. Questo non significa che il lavoro salariato non esisteva, o che non era necessario, ma prima che si diffondesse massicciamente aveva solo carattere integrativo. Laddove il common rappresentava una ricca riserva, un impiego regolare e costante non era necessario. Non a caso le lamentele più pressanti riguardo la scarsa disponibilità dei popolani a lavorare veniva soprattutto dai down del Hampshire e dai fen dell’East Anglia, dove tradizionalmente il tempo era diviso tra lavoro salariato e altri impegni. Tra questi ultimi c’erano attività come portare una mucca o un asino al pascolo, far legna, procurare legname da costruzione, stoccare fieno per l’inverno e fare conserve. Questo tempo non poteva essere comprato da un datore di lavoro…
Una delle conseguenze era che i popolani che sapevano vivere con poco difficilmente si lasciavano andare a bisogni costosi. Finché avevano tutto ciò che occorreva loro, non sentivano il bisogno di impiegare il proprio tempo per avere di più. Da questa libertà nasceva la possibilità di impiegare il tempo superfluo per fare cose che non rientravano nel lavoro, come la possibilità di dire no. Sulla base di questo fatto, i detrattori del common accusavano i popolani di essere pigri o di passare troppo tempo al mercato o alle corse dei cavalli. … Chiaramente lo sport, l’indolenza, il tempo libero, il godimento della vita, l’assenza di ambizioni (tutte parole cariche di significati, in un senso o nell’altro) [e se gran parte dei lavoratori e della classe media attuale condivide certi valori è solo perché il metodismo riuscì a produrre un forte cambiamento delle coscienze tra la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo ~ K.C.], tutto ciò era un prodotto della vita vissuta fuori dall’economia di mercato. Feste e ricorrenze in particolare avevano una funzione ad un tempo economica e sociale. Servivano a rinnovare legami e obblighi reciproci… Ma il fatto di avere pochi bisogni liberava anche dalla tirannia del tempo e del lavoro salariato. Dipendere poco dal mercato significava avere la possibilità di lavorare meno… Ovvero godersi la vita, non pensare unicamente a sopravvivere.
George Bourne, in alcuni scritti molto convincenti in cui parla del risparmio, spiega che i popolani vivevano un’esistenza particolarmente soddisfatta. Una soddisfazione che veniva, per certi versi, dalla varietà del lavoro. I popolani erano impegnati nei compiti più vari, molti dei quali richiedevano fantasia e capacità, ed essi sicuramente sapevano quanto erano importanti. Ma c’era qualcosa che andava oltre la versatilità e l’interesse… Secondo Bourne, per un popolano il benessere derivava dal possesso, era un senso di appartenenza, un forte attaccamento al luogo. Non era tanto il possesso di qualche terra, quanto tutto il paesaggio.123
Chi oggi fa un lavoro salariato, chi timbra il cartellino sente che sta buttando via un pezzo della sua vita, ha la sensazione di entrare in casa d’altri in qualità di parente povero, sente che sta lasciando fuori dalla porta i propri sentimenti, i valori, diventa uno strumento nelle mani di qualcun altro, il mezzo per soddisfare i fini di qualcuno, non i propri: è questo che vuole dire Bourne. I milioni di persone che timbrano il cartellino, e sentono la nausea che sale pensando “Quanta merda dovrò ingoiare oggi per mantenere il lavoro?” capiscono cosa significano il senso di appartenenza e di possesso perché ne sentono la mancanza.
Le parole di Neeson mi ricordano quello che dice lo scrittore di fantascienza Ken Macleod a proposito dei contadini delle Highland.
Molti di questi highlander sono come le creature onnicompetenti di Heinlein: possono adattarsi a fare di tutto. Sono come l’uomo immaginato da Marx in una società senza classi, che al mattino va a caccia, al pomeriggio va a pesca e dopo cena scrive una critica senza essere né cacciatore, né pescatore né critico. Ecco, loro sono proprio così…
…Molti highlander possiedono un podere, svolgono un lavoro salariato al mattino e di pomeriggio vanno a caccia di frodo, e leggono molto. Non si sono mai inseriti completamente nella società industriale, per questo hanno una vita flessibile.124
Quando Chambers e Mingay dicono che la scomparsa dei common era “compensata… dalla crescita in numero e in regolarità delle assunzioni”, dimostrano di non capire il discorso.125 Il common aveva un certo valore proprio perché permetteva a chi vi faceva parte di evitare il lavoro salariato. Furono i possidenti, come abbiamo detto, a promuovere le enclosure come strumento per estrarre “lavoro salariato” dai lavoratori, che questi lo volessero o no.
McNally risponde così a chi sostiene che dopo le enclosure la popolazione rurale si moltiplicò:
Un importante studio recente dimostra che al picco del fenomeno la popolazione cresceva sia dentro che fuori dalle enclosure, ma in proporzione più fuori che dentro. Possiamo quindi dire che le enclosure non hanno contribuito particolarmente alla crescita della popolazione. Lo stesso studio parla anche di un ‘chiaro nesso’ tra le enclosure e l’emigrazione dalle campagne. Ed esiste una correlazione precisa tra il diffondersi delle enclosure e il tasso di povertà. … Questo mina alla base le moderne tesi liberali e dà ragione alle vecchie tesi socialiste, per le quali le enclosure imposte dal parlamento producevano emigrazione e impoverimento.126
Altrove MacNally nota che Mingay non dice quanto le enclosure contribuirono a rendere impossibile l’attività dei piccoli contadini che coltivavano terre in affitto spingendoli verso il lavoro salariato:
Come afferma Mingay in un diverso contesto, “i piccolissimi coltivatori, quelli che al massimo arrivavano a 25 acri (10 ettari circa, ndt), difficilmente riuscivano a sopravvivere senza un reddito integrativo; la terra da sola, se non era usata per produzioni di nicchia o se non era sostenuta dal common, difficilmente poteva produrre abbastanza da poter pagare l’affitto e sostenere la famiglia.’ … Aggiunge poi che solo raramente questi piccoli coltivatori potevano praticare colture specializzate per il mercato. E proprio i mezzi di sostegno – le colture ‘fornite principalmente dal common’ – era ciò che il parlamento distruggeva con le enclosure, al ritmo di sei milioni di acri con l’enclosure Act (circa un quarto di tutte le terre coltivate in Inghilterra) più altri otto milioni con gli ‘accordi’. L’impatto sui piccoli affittuari privi di terre sufficienti per vivere fu semplicemente drammatico. Così come previsto da chi aveva proposto le enclosure, furono costretti a dipendere sempre più dal lavoro salariato.127
Molti dei problemi delle teorie di autori favorevoli alle enclosure, come Chambers e Mingay, derivano dal fatto che in genere prendono alla lettera i resoconti dei sostenitori delle enclosure settecenteschi, i quali in realtà, come nota J.M. Neeson, “erano sostenitori della causa, non studiosi imparziali”.128
Ma per quanto revisionisti moderni come Chambers concordino sul fatto che i beni comuni erano stati espropriati male e maldestramente, ciò che è davvero interessante notare è che quello che scrivevano gli apologeti ottocenteschi concordava molto più con i loro avversari di allora che non con i simpatizzanti di oggi. Secondo Neeson, nell’Ottocento sostenitori e detrattori…
Primo, concordavano sul fatto che gli abitanti dei common fossero tanti e molto diffusi geograficamente e temporalmente, in tutto il paese e nel corso di tutto il secolo; secondo, ritenevano che i loro diritti bastassero a fornire loro un reddito e uno status, o una preziosa indipendenza; terzo punto, concordavano nel credere che l’estinzione di tali diritti in conseguenza della enclosure marcasse il declino delle piccole fattorie e il passaggio dei popolani da una qualche forma di indipendenza alla totale dipendenza salariale. Tutti i commentatori del diciottesimo secolo vedevano una relazione tra la sopravvivenza, il declino del diritto dei common e il carattere delle relazioni sociali in Inghilterra.129
…È chiaro pertanto che dietro le loro discussioni c’era un accordo di fondo. I detrattori concordavano con i sostenitori sulla natura della società rurale inglese prima delle enclosure e sugli effetti prodotti da queste, ovvero la trasformazione dei popolani in salariati. Erano in disaccordo sul valore delle classi, ma nessuna delle due parti dubitava che la trasformazione fosse avvenuta, e che le conseguenze fossero profonde.130
Molti convinti fautoridelle enclosure, come abbiamo visto, erano deliberatamente, dichiaratamente motivati dal desiderio di migliorare non tanto l’efficienza dell’agricoltura e dell’allevamento, quanto dell’estrazione di forza lavoro dalla popolazione rurale. Chi sosteneva le enclosure era in parete spinto dalla visione profetica di una “totale dipendenza salariale”.
…molti libellisti, nonché gran parte di chi istruiva il Consiglio per l’Agricoltura, raccomandavano la creazione di una dipendenza salariale totale. Attribuivano grande importanza alla disciplina. Pensavano che la paura della disoccupazione, vera o minacciata, avrebbe portato benefici agli imprenditori agricoli, che a quei tempi dipendevano dai capricci di popolani parzialmente autosufficienti. La loro opinione era che… per porre fine al diritto del common occorresse creare un proletariato agricolo.131
Opinione diffusa tra i sostenitori settecenteschi delle enclosure era che “i commoner erano pigri”. Il fatto che fossero ossessionati da questo “problema” è di per sé un segno dell’importanza economica del common.
Se il termine pigrizia esprimeva disapprovazione morale, in realtà si accusavano i commoner di non essere sempre disposti a lavorare a salario per le aziende. Ma perché non erano disposti? … In realtà… tutti i commoner erano pigri, che il salario fosse alto o meno. Da qui si intuisce che il rifiuto del lavoro dipendente era dettato dalla capacità di vivere senza un salario, regolare o no. Dunque è una pigrizia che rivela la loro indipendenza dal salario. E il fatto che i critici fossero così arrabbiati fa capire quanto i commoner potessero fare a meno di un salario.132
Chi oggi minimizza l’entità delle enclosure dicendo che non sono né indipendenza né schiavitù salariale contraddice le ragioni, consce e dichiarate, dei loro sostenitori settecenteschi; sostenitori già citati ampiamente nel capitolo sulla storia inglese nella sezione principale di questo saggio.
A volte i sostenitori sottolineano la presunta equità del processo. In realtà le procedure formali, al di là di ogni retorica, facevano sostanzialmente da rullo compressore. Gli Hammond parlano del processo formale così come era giustificato in termini legali, ma spiegano anche che si trattava di un abuso puro e semplice. Il feudatario solitamente faceva un piano di appropriazione e lo portava all’attenzione del parlamento, presentandolo ai contadini come un fatto compiuto soltanto dopo che tutto era stato definito fin nei minimi particolari. Se qualcuno, davanti alla parola enclosure, si impuntava, il feudatario gli spiegava, del tutto ufficiosamente, che era una cosa inevitabile, e che “chi si oppone ne paga le conseguenze, mentre chi accetta alla fine ha tutto da guadagnarci.” Se poi il contadino insisteva, l’unica possibilità era fare appello “ad un vago, distante parlamento di grandi possidenti terrieri perché intervenisse in suo aiuto.”133
I membri del Consiglio dei Commissari incaricato di dar vita a un’enclosure erano nominati dai grandi possidenti terrieri che avevano proposto l’enclosure stessa prima ancora che la petizione fosse sottoposta ad approvazione pubblica. Questo significa che feudatari e grandi possidenti erano sovrarappresentati in consiglio, mentre i piccoli proprietari erano sottorappresentati, se non del tutto lasciati a se stessi; e al di là dell’assegnazione obbligatoria di porzioni definite del common al feudatario locale e al beneficiario delle decime, la commissione aveva “carta bianca su tutto, il suo potere era… praticamente assoluto” in materia di assegnazione della terra ai piccoli contadini.134
Altro aspetto interessante, almeno per chi si diletta di sapere quanto in basso può scendere l’animo umano: era normale che gli stessi nomi comparissero in più elenchi di commissari allegati a molte richieste di nuove enclosure. Pur essendo teoricamente vero il contrario, di fatto un commissario rappresentava interessi particolari.
…spesso dice la stessa cosa, cioè che se [un commissario] ‘muore, non ha la capacità o non vuole agire’, verrà sostituito da una persona segnalata da (a) il feudatario locale, (b) l’appropriatore e/o altro titolare della decima eccetera, oppure (c) i restanti proprietari. Dal che si deduce che la persona è scelta in rappresentanza di un certo punto di vista. Così, ad esempio, nell’Oxfordshire troviamo Thomas Hopcraft in cinque diverse commissioni, sempre in rappresentanza di interessi feudali; il reverendo John Horseman compare nove volte, sempre per conto del rettore, dell’appropriatore o del vicario. John Chamberl(a)in sedette in sedici commissioni tra il 1789 e il 1803, in dodici casi in rappresentanza di ‘altri proprietari’. Il commissario svolgeva ad un tempo il ruolo delicato di avvocato e giudice.135
Curiosamente, Chambers e Mingay citano la stessa sostanza dei fatti, sebbene in tono molto più panglossiano:
La messa in atto di una enclosure era una questione talmente complessa che finì per diventare un’occupazione professionale per molti gentiluomini di campagna, agenti immobiliari e grossi imprenditori agricoli esperti; molti commissari erano parte attiva in procedimenti diversi e in luoghi diversi.136
Per queste cose, la piccola borghesia è sempre pronta a dare una mano. Rientra in quella “gratuita grazia di vita” di cui parla Burke, credo.
Gran parte dei piccoli proprietari che avevano diritto al common erano svantaggiati per varie ragioni. Gli Hammond descrivono così la procedura dal punto di vista di un piccolo contadino:
Immaginiamo un contadino analfabeta che gode di certi diritti consuetudinari relativi al common senza però conoscerne le origini, la storia o le basi giuridiche: sa solo che ha sempre posseduto una mucca, fatto pascolare le oche nei prati, fatto il legnatico nel vicino sottobosco e falciato l’erba del common, e che così faceva suo padre prima di lui. Un giorno gli viene comunicato che entro una certa data deve presentarsi presso il balivo del feudatario locale, o presso i magistrati dai quali magari è già stato convocato in passato per questioni di piccolo conto riguardo una lepre o una pernice; oppure deve presentarsi a qualche procuratore legale del paese per dimostrare formalmente di avere pieno diritto alla sua parte. Teniamo in mente tutto ciò che abbiamo appreso da Fielding e Smollet riguardo la fama dei procuratori legali in fatto di crudeltà verso i poveri. È pensabile che un contadino sia in grado di affrontare una tale ordalia, o di presentare la documentazione in tempo, o di presentarla nella forma appropriata? La commissione aveva il potere di rigettare la sua istanza appellandosi a una qualunque irregolarità tecnica. … È significativo il fatto che a Sedgmoor, su 4063 istanze presentate, solo 1793 fossero state accolte.137
Christopher Hill, con un linguaggio che ricorda gli Hammond, ironizza sulle dichiarazioni di Mingay secondo il quale le enclosure non comportavano costrizioni.
Non ci furono costrizioni, così ci assicurano. Certo, quando uno o più grossi possidenti a cui appartengono già quattro quinti delle terre di un villaggio vuole appropriarsi il resto, la volontà della maggioranza dei piccoli che occupano il restante venti per cento può essere ignorata. Certo, il parlamento non andava a scavare nei dettagli dell’atto che autorizzava l’enclosure, li lasciava ai promotori che distribuivano le terre secondo il loro parere. Ma il povero contadino può sempre impugnare un atto parlamentare. Basta che impari a leggere, assuma un costoso avvocato, passi qualche settimana a Londra e si prepari ad affrontare l’ira dei potenti del suo villaggio. E se dopo l’enclosure decide di andarsene è lui a farlo deliberatamente. Sì, è vero, una mano gliela danno anche il costo del diritto di pascolo, di fare il legnatico e di recintare la sua proprietà quando ne ha una, la mancanza di un capitale con cui comprare i fertilizzanti necessari a trarre profitto dalla enclosure, e il fatto che gli affitti, almeno nelle Midland, in conseguenza delle enclosure raddoppiarono. Ma di costrizioni, oh no, neanche l’ombra! Niente di più antibritannico. Ad attenderlo c’era un posto di lavoro come bracciante nel suo villaggio, o in una fabbrica da qualche altra parte, sempre se riusciva a trovare un posto dove andare e la sua famiglia era in grado di seguirlo. ‘Solo i proprietari più piccoli,’ affermano rassicuranti il professor Chambers e il dottor Mingay, erano costretti a vendere.
In parlamento, il progetto di legge di un’enclosure per procedere richiedeva una maggioranza di tre quarti delle proprietà a favore. Ma sul calcolo di questi tre quarti pesavano parametri che variavano enormemente da caso a caso: estensione, norme del common, casolari con diritti al common, valore locativo delle terre; e con essi variavano anche le possibili misure di supporto. Talvolta il comitato sceglieva una misura piuttosto che un’altra se questa offriva un supporto migliore.138
Secondo, anche prendendo per buona la dichiarazione secondo cui i commons erano divisi proporzionalmente tra i vari titolari del feudo, la preesistente distribuzione della proprietà – come già visto a proposito delle enclosure delle terre monastiche e ecclesiastiche e delle terre coltivabili sotto i Tudor – non regge a un’analisi approfondita. In realtà il feudatario, erede di generazioni che avevano usurpato forse gran parte delle terre comuni nel corso di secoli, alla fine concedeva la divisione delle restanti terre comuni sulla base della distribuzione della proprietà risultato di furti plurisecolari. Il processo è molto simile a quello delle “riqualificazioni” urbane, per cui basta l’approvazione della maggioranza dei proprietari terrieri ma le tasse sono imposte a tutte le parti, consenzienti e non. Come il lupo e l’agnello che decidono cosa mangiare a pranzo.
Terzo, come già detto, i diritti consuetudinari del common – compresa probabilmente la maggioranza costituita da piccole rivendicazioni – raramente venivano compensati. La divisione delle terre comuni tra i vari proprietari lasciava fuori i piccoli contadini e gli occupanti temporanei, i quali secondo le corti reali non avevano diritti sul common, mentre avevano diritto d’accesso secondo le norme consuetudinarie del villaggio, cosa che faceva la differenza tra la fame e la sopravvivenza.139 Non era riconosciuta neanche la spigolatura, in passato diritto dei poveri riconosciuto dalle norme consuetudinarie.140
Studiosi apologeti delle enclosure di oggi e di ieri, come Clapham, Chambers e Mingay, liquidano spesso la questione dei diritti consuetudinari dicendo che, non essendo diritti legali, non avevano diritto a compensazioni. Secondo Clapham i diritti consuetudinari, come il diritto di pascolare le oche nelle terre incolte o dopo la mietitura, non erano affatto diritti, ma comportamenti “tollerati”.141
I diritti consuetudinari raramente venivano registrati nei documenti del feudo. E durante la procedura dell’enclosure spettava al contadino dimostrare i propri diritti fornendo documentazioni.142
Date le vicende della proprietà rurale, oltre al fatto evidente che i contadini con l’infeudamento e le incorporazioni fondiarie erano stati ridotti nel corso di mille anni alla condizione di affittuari, l’onere della prova avrebbe dovuto essere il contrario. Così scrive Ludwig von Mises:
Mai da nessuna parte le grandi proprietà terriere sono state il risultato unicamente delle forze economiche sul mercato. A fare il gioco sono sempre stati interventi militari e politici. Nate con la violenza, solo con la violenza sono state mantenute. Quando entrano nella sfera delle transizioni di mercato, i latifondi si sciolgono fino a scomparire del tutto.143
Le usanze ancora riconosciute nel diciottesimo secolo erano i resti di rivendicazioni che un tempo erano state rivendicazioni di diritto. Così spiega Neeson a proposito del legnatico nei boschi privati: “Occorsero molti anni perché questo concetto di diritto, a prescindere dalle sue origini, fosse degradato a privilegio, e altri anni passarono prima che i commoner accettassero di essere privati anche di questo privilegio.”144
A Mingay che dice che la campagna non fu spopolata dalle enclosure, Hill risponde così: “È vero, e allora? Una delle ragioni del mancato spopolamento era che “la popolazione cresceva a prescindere. L’estendersi delle aree coltivate e l’intensificarsi della produzione agricola richiedevano più lavoro.” Ma a prescindere da quante persone vivevano nelle campagne, la questione è: come vivevano? Privi di quella sicurezza e di quella indipendenza che deriva dal facile accesso alla terra, la popolazione era costretta alla condizione precaria del lavoratore salariato che dipendeva dalla buona volontà dei datori di lavoro, e che poteva essere licenziato senza preavviso per puro capriccio.145
Ma a parte la questione di quanti erano abbandonati a una vita di salariati senza terra, resta la questione di quanto bisognava lavorare per garantire un certo livello di vita prima e dopo le enclosure. Dopo il 1765 le enclosure furono la causa di un calo dei salari e un aumento dei fitti delle terre, con il risultato che era più quello che che si vendeva in città di quello che consumava chi lavorava la terra.146 Mingay avrebbe anche potuto vantare le enclosure dicendo che c’erano più cavalli da soma e meno cavalli selvatici, o che gli allevamenti industriali contenevano più galline, stipate come sardine, di quante non razzolassero nei prati. Forse le pecore selvatiche erano meno numerose delle pecore domestiche, ma non c’è dubbio che potevano tenere per sé più lana e più agnelli. Quanto all’aumento della produttività, al lavoratore non interessa molto sapere che produce di più se questo di più finisce nelle tasche di qualcun altro.
Secondo gli Hammond, le enclosure parlamentari del diciottesimo e diciannovesimo secolo rappresentarono “la seconda di due ondate”, superiore in dimensioni alle enclosure, sotto i Tudor, dei campi aperti da destinare a pascolo.147 Come spiega Dobb, sotto i Tudor la percentuale totale di terre recintate “non arrivò mai al 10% neanche nelle contee più colpite.”148
La Questione dell’efficienza nelle Enclosure. I sostenitori delle enclosure inglesi dicono che era una scelta obbligata necessaria ad introdurre nuove tecniche colturali come la rotazione migliorata dei raccolti, l’uso del trifoglio nelle terre incolte e lo svernamento del bestiame.149
Chambers e Mingay in The Agricultural Revolution elencano numerosi problemi relativi al campo aperto e ai pascoli comuni. In particolare,
la dispersione e la frammentazione delle tenute e il tempo perso a passare da un campo all’altro con gli attrezzi di lavoro; la povertà della terra, lo spreco costituito dalle strisce di confine (che però potevano essere usate come pascolo, come passaggi o come spazio per ruotare l’aratro); la rotazione rigida: due raccolti più un anno a maggese; l’impossibilità di migliorare l’allevamento, e il rischio di diffusione delle malattie dato che il pascolo era comune…
Forse il punto più debole del sistema era l’anno di riposo di una porzione, generalmente tra un quarto e un terzo, della terra coltivabile. Questo riposo serviva a recuperare la fertilità persa in due o tre anni di coltivazione.150
Secondo studiosi critici nei confronti delle tesi di Chambers e Mingay, nel Settecento i favorevoli alle enclosure esageravano enormemente il malgoverno delle terre e riportavano i fatti in maniera parziale perché spinti da interessi personali; autori come Mingay accettavano queste versioni dei fatti perché dicevano ciò che volevano sentirsi dire.
J.M. Neeson, ad esempio, cita prove che dimostrano come i contadini “non pascolavano le terre comuni fino all’esaurimento”: “[D]ifficilmente eccedevano nello sfruttare i loro diritti, e spesso non arrivavano neanche al dovuto.”151 Cita poi numerosi esempi, presi dai registri feudali, di efficiente gestione comune. Lungi dall’esaurire le terre o i pascoli, in molte località erano i commoner a stabilire calendari rigidi che limitavano il numero di capi ammessi. La Neeson cita poi numerosi casi in cui i responsabili del villaggio imponevano e facevano rispettare un calendario. Ma anche laddove il common non era regolato i diritti non erano illimitati. Il numero di capi ammessi era limitato, “fin da tempi immemorabili, da norme comunitarie che regolavano l’uso della terra, la fattoria o la residenza”.152
Erano invece i ricchi accaparratori di terre – come quelle “[a]ziende che potevano permettersi di acquistare altri possedimenti per allargare i propri diritti” – e i proprietari di grosse mandrie e greggi, che “sfruttavano i pascoli fino a portare i campi all’esaurimento.” “La minaccia per i pascoli veniva più dalle grosse mandrie dei ricchi che dai piccoli la cui attività aveva limiti ben definiti.”153 Se le istituzioni del villaggio non riuscivano ad imporre regole severe, o se le regole erano troppo deboli, ciò era spesso dovuto all’influenza politica di pochi grossi allevatori che invadevano il common con le loro mandrie e non lasciavano spazio ai piccoli.”154 Quando cominciava la procedura che portava all’enclosure accadeva spesso che i grossi allevatori e i signori feudali aumentavano lo sfruttamento dei pascoli così da ridurre l’indennizzo da pagare.155 I sostenitori delle enclosure partono da qui per dimostrare che i common erano gestiti male, mentre si trattava di un effetto collaterale della enclosure stessa.156
Altrettanto approssimative erano le affermazioni fatte da sostenitori e apologeti delle enclosure riguardo le malattie. Qui come altrove, Chambers e Mingay ripetono acriticamente accuse interessate scritte da autori di due secoli prima. Questi ultimi accusavano i pascoli del common di “generare promiscuità e diffondere malattie”, oltre che causare fame e malnutrizione. Una citazione in particolare: “nei grandi pascoli comuni, la promiscuità incontrollata favoriva il contagio e rendeva difficili i controlli”. Alla base di queste asserzioni c’era l’assunto, poco documentato, secondo cui “si facevano pochi tentativi intelligenti per tenere sotto controllo la salute delle bestie nei pascoli comuni.”157
In realtà erano le stesse autorità del villaggio che “con statuti e multe cercavano di evitare la diffusione di malattie.” Così come chi voleva le enclosure, anche loro capivano che la fonte delle infezioni era il contagio per prossimità. Pascolare bestiame malato, ad esempio cavalli o pecore con la rogna, comportava forti multe. “C’erano pastori e donne pagati appositamente per controllare lo stato di mandrie e greggi,” per cui era difficile che un animale malato pascolasse inosservato. Il forte interesse economico dei commoner a preservare la salute del bestiame, oltre alla facile individuazione delle bestie malate facilitata dalle “assemblee pubbliche, dal movimento e dal controllo del bestiame”, erano un potente antidoto contro l’infezione. Era però possibile, per qualche tempo, pascolare bestiame malato in “pascoli parzialmente controllati, dove i cavalli e le mucche potevano essere legati” e dove i contatti con altri animali erano rari.158
I sostenitori delle enclosure, sia di oggi che di ieri, condannano le pratiche d’allevamento dei commoner senza tenere alcun conto del contesto. Quasi mai si fa un raffronto con le pratiche dopo le enclosure. “L’affermazione forse più importante è che la scarsa conoscenza dei meccanismi di diffusione delle malattie rendeva difficile la prevenzione sia prima che dopo le enclosure.” I beneficiari delle enclosure, così come i commoner, credevano erroneamente che la causa delle malattie fosse solo il contagio, e non tenevano conto di altri vettori, come il vestiario.
Ovviamente, molti focolai non si estinsero con la divisione del bestiame in singole mandrie dopo le enclosure; aggiungiamo a ciò il fatto che il lungo periodo d’incubazione (30-60 giorni, in certi casi sei mesi) rendeva difficile evitare l’introduzione di animali malati in una mandria incontaminata, fatto che poteva avvenire sia prima che dopo l’enclosure.159
E va detto che neanche le recinzioni potevano evitare la trasmissione di malattie come la leptospirosi, diffusa dai corsi d’acqua inquinati e dai roditori.160 Le malattie tipiche delle zone umide erano poco controllate sia prima che dopo le enclosure; “le bonifiche iniziarono non prima di cinquant’anni dopo le enclosure.”161
Quanto fosse irrilevante l’enclosure ai fini sanitari si intuisce anche dallo sfasamento cronologico tra le enclosure e “il diradamento delle malattie”. Le pandemie continuarono a imperversare per buona parte dell’Ottocento. Il fegato marcio, ad esempio, principale capo d’accusa contro i common, uccise tra uno e due milioni di pecore solo nell’inverno 1830-31.162
Altra falsa credenza era che fosse “‘impossibile’ migliorare le specie dei common con la selezione.” In realtà, esistevano istituzioni che esercitavano un controllo minuto della selezione. I tori non erano mai lasciati liberi; arieti e tori erano ammessi nel common solo “in periodi specificati”.163 Feudatari e grosse aziende erano tradizionalmente costretti a mettere a disposizione le migliori bestie da monta lasciandole pascolare di quando in quando con le mandrie dei commoner.164
Quanto all’obbligo di lasciare a riposo una grossa parte dei terreni, sono gli stessi Chambers e Mingay ad ammettere che in questo caso “il contadino del campo aperto… dimostrava capacità”, ad esempio usando legumi e rape per recuperare la fertilità; il che fa capire come “le strutture precedenti non fossero poi così primitive o incapaci di migliorare come si supponeva.”165
Quando il contadino non era oberato da affitti e tasse, quando trovava il tempo per migliorarsi, i villaggi, che fossero a campo aperto o a terre comuni, si mostravano abbastanza progressisti da acquisire nuove tecniche colturali. Spiega Neeson come soprattutto nelle Midland i villaggi, già prima delle enclosure, fossero disponibili alle innovazioni; con il riapporzionamento dei campi e la rotazione delle colture, ad esempio, ma anche con l’uso del trifoglio nelle terre a riposo. Questi “grandi progressi” richiesero “una certa flessibilità pratica che portò ad un forte miglioramento della fertilità e della produzione molto prima delle enclosure parlamentari.”166
La coltivazione della rapa come coltura da campo, secondo W.E. Tate, era perfettamente fattibile nel sistema a campo aperto; sarebbe bastato riorganizzare la marca coltivabile e aggiungere un quarto campo. Già prima della legalizzazione parlamentare del 1773 – fatta sulla base del sospetto che le riorganizzazioni non autorizzate fossero illegali – i villaggi avevano già optato per un quarto campo da dedicare alle radici commestibili.167
Lo stesso fenomeno si ripeté più tardi con la proprietà comune a campo aperto del mir russo dopo l’emancipazione dei servi. Nell’ottavo capitolo de Il mutuo appoggio, Kropotkin cita numerosi esempi di villaggi che sperimentavano nuove tecniche sulle loro terre comuni. In molti casi il punto di riferimento era la gestione efficiente e progressista dei common ancora esistenti in Germania, e soprattutto in Svizzera, dove erano molto fiorenti. Così era anche in Russia, dove molti storici vedevano l’arretratezza del mir con gli occhi di Stolypin:
I fatti che ci si parano davanti dimostrano, al contrario che, laddove i contadini russi, data una serie di circostanze favorevoli, conducono mediamente un’esistenza meno miserabile, e laddove ci sono persone capaci e istruite, la comunità di villaggio diventa lo strumento adatto a migliorare sia l’agricoltura che la vita del villaggio in generale .”168
Una versione migliorata dell’aratro d’acciaio si diffuse rapidamente nella Russia meridionale, e “in molti casi i villaggi furono determinanti.”
La comunità comprava un aratro, lo sperimentava su un pezzo di terra comune, e dava consigli su come migliorarlo al fabbricante; spesso era la comunità stessa ad aiutare il fabbricante ad avviare una produzione di aratri economici nel villaggio.
A spingere il distretto di Mosca a adottare oltre millecinquecento aratri ottimizzati nel corso di cinque anni furono “quelle comuni che in qualità di istituzioni prendevano in affitto una terra al solo scopo di sperimentare il miglioramento della produzione. Nelle province di Samara, Saratov e Kherson l’adozione delle mietitrici fu opera soprattutto di “associazioni contadine che, al contrario dei singoli, potevano permettersi l’acquisto di macchinari costosi.”
Contrariamente all’opinione diffusa degli storici dell’agricoltura, secondo i quali “la comunità di villaggio era destinata a scomparire” quando la rotazione delle colture avesse preso il posto del sistema a tre campi, in realtà già allora “in Russia molte comunità di villaggio stavano introducendo la rotazione.” Se il sistema funziona, ai contadini “basta semplicemente rifare la divisione dei campi.”169
In centinaia di villaggi attorno a Mosca le comuni contadine introdussero di propria iniziativa la rotazione, intrapresero opere di bonifica, costruirono migliaia di chiuse per formare riserve d’acqua e scavarono centinaia e centinaia di pozzi profondi nell’arida steppa.170
A proposito dei numerosi casi di progresso delle comuni contadine citati, è bene ricordare l’osservazione di Kropotkin per cui il progresso aveva più probabilità laddove i contadini erano meno oppressi dallo sfruttamento. Aggiungiamo a ciò che tutti questi tentativi di migliorarsi avvenivano in un momento in cui i contadini erano sottoposti a forti tasse al fine di indennizzare i vecchi proprietari delle terre date ai contadini con l’abolizione della servitù. Appena una generazione prima, o anche meno, la gran parte dei contadini russi era composta da servi analfabeti in condizioni di semischiavitù. Possiamo immaginare cosa avrebbero potuto fare se nei secoli precedenti fossero stati liberi, se le loro terre non fossero state gravate da tributi dello stato e dell’aristocrazia terriera.
Alla luce di tutto ciò, obiettare dicendo “ma la vita dei contadini subì un miglioramento” oppure “ma era necessario per il progresso”, è vergognoso, è una cosa che ricorda la vecchia storia del fardello dell’uomo bianco. Credo che chi liquida i tradizionali diritti di proprietà dei contadini, definendoli un atavico impedimento del progresso tecnologico, sia parente prossimo dei consequenzialisti, i quali sostenevano che il progresso tecnologico non era possibile se non si sfrattavano i contadini dalle campagne per spedirli nelle fabbriche come bestie da soma, o che lo stato doveva promuovere il progresso e allargare la base fiscale confiscando le proprietà utilizzate in modo inefficiente per darle ad alcune aziende prescelte.
Istruttivo il commento di W.E. Tate sui “benefici” che i poveri, a sentire i sostenitori delle enclosure, avrebbero avuto:
I poveri meritevoli capiscono che è più utile avere lotti distinti, o piccoli pascoli recintati, piuttosto che pezzetti sparsi nella proprietà comune con vaghi diritti di pascolo. È certo che i vantaggi perlopiù illusori del common, con la tentazione dell’ozio che esso comporta, non li farebbero star meglio. Quanto ai poveri indegni, soprattutto gli abusivi che vivono nel common nello squallore delle baracche, migliorerebbero assai, sia moralmente che economicamente, se fossero costretti a lavorare regolarmente per un datore di lavoro.171
Com’è umano! direbbe Fracchia.
C’è molto collettivismo implicito negli scritti di J.M. Neeson quando dice che “i commoner impedivano la crescita economica.”172 Mi ricorda un commento di un mezzobusto neoconservatore di Fox News, che allo scoppio della Guerra in Iraq nel 2003 vantò la superiorità del capitalismo americano da cowboy rispetto all’esempio europeo con la settimana lavorativa breve e sei settimane di ferie. “Gli americani,” disse “forse preferiscono lavorare di più e fare meno vacanze così da permettersi tutte quelle portaerei.” Nessun patriota si lamenta se la razione di cioccolata viene ridotta (o “aumentata”?) a venti grammi la settimana, se questo significa avere un’altra fortezza galleggiante sul fronte di Malabar.
Ma con tutto questo parlare di “aumentata efficienza” non c’è nessuno che si chiede cui prodest? Il ragionamento di Coase, per cui non ha importanza chi possiede una risorsa perché tanto finisce sempre nelle mani di chi la sfrutta al meglio, mi è sempre sembrato una stupidata. Importa, eccome, a chi è stato privato di quella risorsa. Questi ragionamenti mi ricordano le tesi di chi approva gli espropri perché la terra viene destinata “a un uso più produttivo”. Ma se è vero che l’utilità è soggettiva – come anche la scuola austriaca non manca mai di notare, anche se in altri casi –, a dire cosa significa “efficiente” non dovrebbe essere il potenziale utilizzatore della terra?
Vai a dire a un contadino delle aree depresse che “il pubblico ne trae grandi benefici, perché laddove c’erano lucci e anatre selvatiche ora si ingrassano buoi o pecore; ti rispondono che se provano a prendere un bue o una pecora finiscono dentro, e che lucci e anatre bastava catturarli ed erano proprietà loro.”173
Con un tono simile, W. E. Tate descrive lo scetticismo dei commoner davanti alle immagini di prosperità dei ricchi possidenti:
Preferivano di gran lunga allevare capi di bassa qualità nel common per uso proprio, piuttosto che capi di qualità suprema nell’enclosure per uso altrui. Non si lasciavano incantare dalle parole di uno degli ispettori che diceva “i common diventeranno un mare di grano, ci pascoleranno innumerevoli mandrie e greggi, ci crescerà il miglior legname”, perché né il grano né le greggi né il legname sarebbero appartenuti a loro.174
Chi critica le “inefficienze” del common ignora il valore dell’indipendenza e dell’autosufficienza, non sa cosa significa possedere mezzi propri, intoccabili, di sussistenza.
Chi criticava il common valutava l’istituzione secondo la propria logica, che era la logica del mercato. Parlava di lavoro salariato e di utilizzo efficiente delle risorse. Ma i commoner vivevano dell’uso condiviso della terra. Vivevano, per certi versi, fuori dal mercato. Vivevano anche di quel guadagno invisibile che dà il pascolo o la raccolta di frutti selvatici. Agli occhi dei critici gran parte di tutto ciò era inconcepibile: non vedevano, o non volevano vedere. Per loro i commoner erano pigri, insubordinati e poveri. Quando uno storico parla in questo modo vuole dire che, tolta la povertà, tutto il resto non influisce sul livello di vita. E la povertà dei commoner più che altro era nella testa degli osservatori esterni: loro, i commoner, non si consideravano affatto poveri.175
Note
1. Ayn Rand, nel botta e risposta seguito al “Discorso ai neolaureati della United States Military Academy at West Point,” New York, March 6, 1974.
2. Karl Hess, “Letter From Washington: Where Are The Specifics?” The Libertarian Forum, June 15, 1969, p. 2
3. Roderick T. Long, “In Defense of Public Space,” Formulations (Free Nation Foundation), Spring 1996. Website offline, accessed via Internet Archive July 6, 2011 <http://web.archive.org/web/20090503091359/. http://libertariannation.org/a/ f33l2.html>.
5. Long, “A Plea for Public Property,” Formulations (Free Nation Foundation), Spring 1998. Website offline, accessed via Internet Archive July 6. 2011 <http://web.archive.org/web/20090416204308/http://libertariannation.org/a/f53l1.html>.
6. Consigli sulla terminologia di P.M. Lawrence tramite email. “Non tutti avevano lo stesso diritto al legnatico, il fabbro e il fornaio del villaggio avevano diritto a quantità maggiori. L’uso commerciale delle aree boschive era vietato.”
7. James Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed (New Haven and London: Yale University Press, 1998), pp. 33-34.
8. Pyotr Kropotkin, Mutual Aid: A Factor in Evolution (New York: Doubleday, Page & Company, 1909), pp. 120-121, 123, 123 fn1. 9 Ibid., pp. 124-125.
11. Henry Sumner Maine, Ancient Law (London: J.M. Dent & Sons Ltd, 1960 (1861)), pp. 159-160.
12. Kropotkin, Mutual Aid, pp. 121-122.
13. W. E. Tate, The Enclosure Movement (New York: Walker and Company, 1967), p. 90. 15 Henry Sumner Maine, Ancient Law, p. 153. 16 Ibid., p. 154.
14. Henry Sumner Maine, Ancient Law, p. 153.
18. Henry Sumner Maine, Village-Communities in the East and West. Third Edittion (New York, Henry Holt and Company, 1890) pp. 159-160.
19. Maine, Ancient Law, p. 157.
20. Traduco così l’espressione inglese open field. Si tratta di un campo di proprietà comune del villaggio diviso in lotti non chiusi da recinzioni. NdT.
21. Recinzione, appropriazione di un campo aperto, o di una sua porzione, mediante atti legali e conseguente delimitazione fisica, NdT.
22. Tate, The Enclosure Movement, pp. 40-41.
23. 22 Maine, Village Communities, pp. 78-87.
24. William Marshall, Elementary and Practical Treatise on Landed Property, quoted in Maine, Village-Communities, pp. 90-93.
25. J. L. and Barbara Hammond, The Village Labourer: 1760-1832 (London: Longmans, Green, and Co., 1913), pp. 26-27.
26. Maine, Village-Communities, pp. 107-108
27. Scott, Seeing Like a State, p. 24.
32. Ibid., pp. 367-368 no. 94.
34. Letteralmente, recinzione. NdT.
35. Tate, The Enclosure Movement, p. 59.
37. Karl Marx and Friedrich Engels, Capital vol. I, vol. 35 of Marx and Engels Collected Works (New York: International Publishers, 1996), p. 711.
38. R. H. Tawney, Religion and the Rise of Capitalism (New York: Harcourt, Brace and Company, Inc., 1926), p. 120.
39. Maurice Dobb, Studies in the Development of Capitalism (New York: International Publishers, 1947), pp. 224-225, 224-225.
40. Immanuel Wallerstein, The Modern World System, Part I (New York: Academic Press, 1974), p. 251n; Marx quote is from Capital vol. I, p. 709.
41. Dobb, Studies in the Development of Capitalism, p. 226.
42. Dobb, Studies in the Development of Capitalism, p. 226.
43. Christopher Hill, The Century of Revolution: 1603-1714 (New York: W. W. Norton & Co., Inc., 1961), p. 148.
44. Christopher Hill, Reformation to Industrial Revolution: A Social and Economic History of Britain 1530-1780 (London: Weidenfeld & Nicholson, 1967), pp. 115-116.
45. Hill, Century of Revolution, p. 149.
46. Christopher Hill, Reformation to Industrial Revolution: A Social and Economic History of Britain 1530-1780 (London: Weidenfeld & Nicholson, 1967), pp. 115-116.
47. Marx and Engels, Capital vol. 1, p. 713.
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55. J. L. and Barbara Hammond, Village Labourer, p. 35.
61. Comunità il cui territorio era di proprietà comune. NdT.
62. Hill, Reformation to Industrial Revolution, p. 225.
63. Marx and Engels, Capital vol. I, p. 231.
64. Ovvero, chi viveva nel e del common. NdT.
65. J. L. and Barbara Hammond, Village Labourer, p. 37.
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88. Scott, Seeing Like a State, pp. 41-43.
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