[Di Sheldon Richman. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 24 febbraio 2017 con il titolo In Defense of Extreme Cosmopolitanism. Traduzione di Enrico Sanna.]
Il cosmopolitismo è sotto assedio da parte di tutto lo spettro politico, negli Stati Uniti e altrove. Proprio ieri Steve Bannon, leader della destra alternativa, sedicente nazionalista economico nonché principale stratega del presidente Donald Trump, ha detto alla Conferenza per l’Azione Politica Conservatrice che “al centro di ciò in cui crediamo è il fatto che siamo una nazione con un’economia, non un’economia in un qualche mercato globale senza confini, siamo una nazione con una cultura e una ragion d’essere.” Questa è una falsa alternativa, ma la preferenza di Bannon per il tribalismo nazionalista dice molto.
Il rifiuto del cosmopolitismo è un male per la libertà, la pace e la prosperità, cose con cui va di pari passo. Il nesso tra libertà e cosmopolitismo non è solo concettuale. Certo libertà significa anche la libertà degli individui di associarsi pacificamente ovunque e con chiunque, generando a sua volta una pacifica interdipendenza e prosperità. Ma è anche un legame esistenziale: qualunque cosa sia stato insegnato loro dagli anziani, le giovani generazioni sono naturalmente curiose, vogliono conoscere altre persone, il loro stile di vita, la loro cultura. È normale che mettano in dubbio ciò che è stato presentato loro come una tradizione sacra (anche se “profana”). Questo porta inevitabilmente ad uno scambio culturale e materiale, e dunque all’evoluzione sociale. L’“ideale” di una cultura immutabile è una chimera, soprattutto oggigiorno; sarebbe impossibile anche se fosse desiderabile, cosa che certamente non è. Anche gli stati totalitari lottano inutilmente contro le influenze esterne “sovversive”, come ha dimostrato l’Unione Sovietica.
Non c’è bisogno di scomodare Aristofane per affermare che “il turbine comanda”, ma un cambiamento improvviso è inevitabile e anche ragionevolmente assimilabile in circostanze normali. In una società liberata gran parte dei cambiamenti avvengono ai margini (il mondo non ricomincia da capo ogni giorno), perché nessuna autorità centrale ha il potere di comandare tutta la società. Con la libertà, poi, l’effetto cumulativo del cambiamento è drastico e ampiamente benigno.
Il liberalismo cosmopolita originario, oggi chiamato libertarismo, incorpora questa realtà. La abbraccia con entusiasmo. La libertà e la prosperità che produce ci permette di affrontare con entusiasmo il futuro incerto che, essendo il prodotto dell’azione umana e non della programmazione, si dispiega spontaneamente davanti a noi. Si realizza la serendipità. In questo senso, il liberalismo sta tra i conservatori/tradizionalisti da un lato e i razionalisti/giacobini dall’altro.
Dice F. A. Hayek in “Perché non Sono un Conservatore”: “Come gli autori conservatori hanno spesso riconosciuto, uno dei loro tratti fondamentali è la paura del cambiamento, una timida sfiducia nella novità come tale, mentre la posizione dei liberali si basa sul coraggio e la fiducia, sull’accettazione del cambiamento anche quando non possiamo immaginare dove porterà.”
L’apertura verso il cambiamento di Hayek può sembrare in conflitto con l’evidente conservatorismo de La Costituzione della Libertà (1960) e della sua ultima opera, The Fatal Conceit (1988). (L’orgoglio fatale sta nel credere che i nostri principi attinenti la condotta morale sono originati dalla ragione e non dall’evoluzione sociale spontanea quando le persone affrontano la realtà alla ricerca di un miglioramento della propria esistenza). In realtà non esiste alcun conflitto. (“Perché non Sono un Conservatore” è il poscritto de La Costituzione della Libertà). In assenza di una buona ragione per deviare dalle pratiche quotidiane, si finisce per accettare quelle stesse pratiche perché, tra le altre ragioni, la loro longevità può apparire una prova del loro valore. (Longevità non garantisce questo). Questa deferenza “conservatrice” risale almeno ad Aristotele. (Vedi la discussione di Roderick Long sull’importanza degli endoxa: “the credible opinions handed down” [Stanford Encyclopedia of Philosophy], nel suo Reason and Value: Aristotle versus Rand. Nel saggio, Long ricorda che l’innovazione culturale comincia logicamente con la conoscenza ricevuta e confutabile opposta al suo rifiuto tout-court). Ma se il buon senso confida a priori nelle opinioni credibili, questo non significa che la tradizione debba essere fossilizzata: sarebbe arroganza ingiustificabile nei confronti dell’attuale condizione della nostra conoscenza. Dopotutto, le tradizioni di oggi sono le novità di ieri: come facciamo a dire che non esistono modi migliori ora sconosciuti per realizzare i nostri propositi ultimi, ovvero la realizzazione dell’individuo nella società? Perché dovremmo privarci dell’opportunità di apprendere queste conoscenze? E su quali basi riteniamo che tutto ciò che vale la pena conoscere si trovi entro i nostri confini nazionali? Ecco perché il liberale cosmopolitismo, parola di origine greca che ricorda “cittadino del mondo”. Ricordo l’osservazione di Adam Smith, secondo cui “la divisione del lavoro è limitata dall’estensione del mercato”.
Il tentativo evidente di romanticizzare la tradizione e la conservazione culturale (ovvero la stagnazione) può comunicare altro. Pensate al musical Fiddler on the Roof, ispirato ai racconti Yiddish di Sholem Aleichem. Il protagonista, il lattaio Tevye, apre lo spettacolo celebrando la tradizione che ha permesso a lui e ai suoi vicini (e ai suoi antenati) di rimanere “in piedi per tanti anni”. Dice: “Grazie alle nostre tradizioni, ognuno qui conosce se stesso e sa cosa Dio vuole da lui.” (E allo stesso tempo confessa: “Voi direte: ‘E come è iniziata questa tradizione?’ Ve lo dico io. Non lo so. Ma è tradizione.”) Nel giorno del riposo, al tramonto, Tevye e sua moglie pregano Dio perché tenga le loro cinque figlie “lontano dagli stranieri”.
Ma quasi immediatamente la struttura tradizionale di cui Tevye crede di non poter fare a meno comincia ad erodersi, e lui non può farci nulla. Quando acconsente al matrimonio della sua figlia grande, Tzeitel, al vecchio macellaio, come stabilito dal paraninfo del villaggio, lei chiede al padre di non obbligarla al matrimonio. L’anno prima, lei e il suo amico d’infanzia, ora sarto del villaggio, avevano concordato segretamente che si sarebbero sposati quando lui avesse potuto permettersi una macchina da cucire. (A parte: quando il sarto Motel Kamzoil ottiene la sua macchina, afferma con vanto che d’ora in poi i vestiti saranno fatti meglio e più celermente: niente più lavori a mano. Si potrebbe cavarne una lezione di economia.). Oppressa dal paraninfo, Tzeitel chiede a suo padre il permesso di sposare l’uomo che ama. Inizialmente, questa impertinenza fa infuriare Tevye, ma cede quando vede la cosa con gli occhi di sua figlia e del suo amato. La felicità della figlia viene prima della tradizione. (Prima di questa scena vediamo Tevye che celebra l’accordo di matrimonio con il macellaio partecipando ad una festa di danza russa, con profani russi, nella locale taverna, lasciandosi andare, sembrerebbe, alle usanze dei forestieri.).
La rottura con la tradizione di Tzeitel è solo l’inizio. La seconda figlia di Tevye, Hodel, si innamora di Perchik, un giovane e povero insegnante estremista di Kiev, la grande, strana, distante città. Lo stesso straniero accusato di essere “estremista” per aver detto che le ragazze dovrebbero istruirsi e per aver ballato con una donna (Hodel) al matrimonio di Tzeitel. L’“attacco” alla tradizione sale di un gradino quando Hodel e Perchik decidono di sposarsi. non chiedono il permesso a Tevye, ma solo la sua benedizione. Lui è scandalizzato da questo nuovo colpo alla struttura ma, in uno dei suoi consueti dialoghi con Dio, riconosce che “anche le nostre usanze un tempo erano nuove”, atto sovversivo per uno che vuole tenere i suoi figli lontano dagli stranieri. Cede ancora e dà la sua benedizione (e il consenso), spiegando alla moglie: “È un nuovo mondo, Golde,” un mondo in cui le persone si sposano per amore. Poi allarma la moglie, conosciuta solo il giorno del matrimonio, chiedendole: “Golde, tu mi ami?” Tevye si sta eccitando alle novità.
Tevye fa un altro passo quando la terza figlia, Chava, sposa un giovane russo che ama. Mentre fa i bagagli per traslocare la famiglia via dal loro shetl, Anatevka (da cui lo zar ha espulso gli ebrei), dà la sua benedizione a Chava e il suo novello sposo. Da notare che Tevye, come Sholem Aleichem, si trasferisce “in America, a New York”, non in Palestina (suo fratello si era già trasferito a Chicago).
Dunque neanche la piccola isolata Anatevka è esente dal cambiamento proveniente da fuori. Sholem Aleichem è un sovversivo? Se sì, pochissimi l’hanno notato. Ma come si fa a celebrare il tradizionalismo e allo stesso tempo mostrare l’inevitabile erosione di particolari tradizioni per mano di persone giovani e libere che vogliono solo vivere felici? Questa è una lezione per tutti, soprattutto per chi vorrebbe “riportare l’America alla sua grandezza”.
Il turbine comanda nonostante i desideri e gli sforzi. Certo questo non significa che tutti i cambiamenti sono un bene, ma il tentativo di impedire ogni cambiamento per evitare quello cattivo è futile e destinato alla sconfitta. E se qualcuno vede un male in un cambiamento, qualcun altro può vederci un bene. Le persone dovrebbero potersi proteggere dai cambiamenti che non vogliono, ma senza ricorrere al potere coercitivo.
La storia del liberalismo originario abbonda di riconoscimenti del fatto che l’apertura mentale e il cambiamento, essenza del cosmopolitismo, sono la linfa del benessere. I primi liberali sostenevano un mercato delle idee libero e concorrenziale, ad immagine del mercato di beni e servizi, proprio perché serviva ad allontanare l’ignoranza del pensiero ma anche dello stile di vita. Erano umili, riconoscevano i limiti della conoscenza quando lodavano il libero mercato delle idee.
On Liberty (1859), di John Stuart Mill, è notissimo proprio per questo. Mi limito ad una citazione:
“Che non siano infallibili; che le loro verità, perlopiù, siano solo mezze verità; che l’unità d’opinione, se non risulta dal più pieno e dal più libero confronto delle opposte opinioni, non sia desiderabile, e che la diversità non sia un male ma un bene, finché l’umanità non sarà capace più di oggi di riconoscere ogni sfaccettatura della verità; tutti questi principi si applicano tanto all’azione quanto alle opinioni dell’uomo. Se è utile che ci siano opinioni diverse perché l’umanità è imperfetta, è anche utile che ci siano diversi esperimenti di vita; che ogni diverso carattere sia libero di scegliere un obiettivo purché non faccia del male ad altri; e che il valore dei diversi modelli di vita si dimostri nella pratica, quando qualcuno pensa che sia bene sperimentarli. In breve, è auspicabile che, senza toccare gli altri, l’individualità si affermi. Se la regola di condotta non è dettata dal carattere della persona ma dalle tradizioni e dai costumi altrui, allora manca uno degli ingredienti principali del progresso sociale.” (Enfasi aggiunta)
Citando un precedente esempio d’oltremanica, Charles Dunoyer, pioniere dell’estremismo liberale francese e tra i padri dell’analisi di classe (che Marx dichiaratamente prese in prestito e distorse), criticava il socialismo di Henri de Saint-Simon proprio perché non riconosceva il valore del mercato delle idee. Scriveva nel 1827 che i sansimoniani “si lamentano di quello che loro chiamano il sistema critico, ovvero una critica generale e permanente, un dibattito, una competizione, attacchi contro la società nei suoi principi di vita più attivi, nei suoi metodi di sviluppo più efficaci.” Loro non vogliono “lasciare la società a se stessa”, affinché si evolva “secondo la libera concorrenza degli sforzi individuali.” E però si contraddicono quando dicono che talvolta “è necessaria una discussione franca”. Se è così, chiedeva Dunoyer, perché se la prendono contro la libertà?
E poi:
“C’è mai stato, nel corso dei secoli, un solo istante in cui la società non abbia teso, in vari modi, a modificare le proprie idee, a cambiare il proprio modo d’esistere? Accusare la libertà per la confusione che ancora circonda le dottrine morali e sociali significa vedere il male nel rimedio, lamentandosi proprio di ciò che tende a far cessare la confusione.”
E conclude dicendo che “l’errore della scuola organica [sansimoniana] è di credere che la libertà sia utile solo provvisoriamente…. È… nella natura delle cose che libertà e critica siano sempre necessari. Una società che vive prevalentemente di azione agisce, in ogni istante, secondo le nozioni in suo possesso, ma per migliorare l’azione deve operare per perfezionare le proprie conoscenze, e può riuscirci solo se agisce liberamente: ricerca indagine, esame, discussione, dibattito, questa è la sua dimensione naturale, e sarà sempre così, anche quando le sue conoscenze avranno raggiunto il massimo grado di certezza e comprensione.”
Alla ricerca di conoscenze che migliorino la vita, un programma politico basato sul cosmopolitismo liberale, o libertarismo, deve ruotare attorno al libero commercio e alla libera circolazione, ovvero nessun ostacolo all’ingresso di persone, capitali, beni di produzione e beni di consumo. Questo programma non è solo un’adesione alla libertà in astratto. Intende anche che il benessere dell’individuo in carne ed ossa, così come la divisione del lavoro, è limitato dall’estensione della società, i cui confini, tramite il libero e pacifico scambio, devono espandersi fino ad includere il mondo intero. Il programma tribalista e nazionalista di Trump e Bannon non è che una minaccia al benessere umano.
Pubblicato originariamente su The Libertarian Institute.