Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 24 settembre 2024 con il titolo Meritocracy is Bullshit. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.
Intervistato recentemente da Jordan Peterson, Elon Musk dichiara che tra le cose che più ammira c’è “la meritocrazia, tanta meritocrazia: far carriera in base alla propria bravura e nient’altro.”
La “meritocrazia” è una di quelle cose che secondo i liberali se ci fosse davvero sarebbe un bene, perché il sistema attuale non è meritocratico. L’attuale sistema è sbagliato perché non offre pari opportunità di studio e formazione per tutti, ma anche perché gli avanzamenti di carriera e la paga non riflettono gli standard oggettivi di abilità e resa sul lavoro.
Anche se il sistema funzionasse sulla base di queste regole, però, la meritocrazia sarebbe comunque un male. A parte ciò, poi, è un imbroglio perché presuppone la legittimità del quadro istituzionale dominante e di ciò che esso intende per “merito”.
Il “merito”, la “bravura”, non esiste. Si può essere particolarmente capaci nel fare qualcosa, un determinato compito. L’idea di “bravura” in quanto caratteristica neutra misurabile oggettivamente ignora il fatto che è chi ha il potere che decide i compiti e li assegna ai subalterni, in un contesto in cui gli obiettivi istituzionali generali sono determinati da chi ha quegli interessi di cui i subalterni sono i servitori.
In realtà le persone sono classificate, in termini di “merito”, sulla base della bravura nel a) servire quel sistema di potere che ha come fine principale l’estrazione di ricchezza, e b) svolgere quelle attività necessarie a far funzionare quello stesso sistema.
Immaginiamo una Auschwitz che funziona secondo criteri meritocratici, gestito da personale valutato sulla base della “bravura”. Basta riflettere un attimo per capire che il concetto di “meritocrazia” non dice nulla se non si tiene conto della liceità etica delle funzioni e delle parti i cui interessi vengono serviti.
Prendiamo i lavori meglio retribuiti sotto il capitalismo americano. Questi in gran parte riflettono il fatto istituzionale che gran parte delle grandi aziende è gestita gerarchicamente al servizio di una proprietà assenteista. Date le innumerevoli distorsioni subite dal flusso informativo in un sistema gerarchico, le decisioni di un alto dirigente in cima alla piramide sono meno adeguate di quelle che prenderebbe il lavoratore a contatto con il sistema produttivo o il suo immediato responsabile. Ma un’azienda capitalista a proprietà assenteista non può permettersi di mettere i lavoratori a capo del processo produttivo a causa dell’implicito conflitto di interessi. Il lavoratore sa che ogni suo contributo alla crescita della produttività verrebbe fatto proprio dai dirigenti e convertito in ritmi di lavoro esasperanti o tagli al personale.
Per questo c’è tutto un proliferare di mansioni come contabile, sorvegliante o dirigente di basso livello, per la stessa ragione irrazionale di base: non si fidano della capacità dei lavoratori di operare al meglio o di servirsi della propria esperienza sul lavoro, perché sanno che i loro interessi sono opposti a quelli di chi gestisce l’organizzazione. È per questo che le cooperative che producono compensato nell’area Pacifico nord occidentale hanno circa un quarto dei quadri delle loro controparti a proprietà capitalista. Quando i lavoratori possiedono e gestiscono la fabbrica, il loro interesse personale basta a spingerli a operare al meglio, a mettere in pratica le conoscenze e penalizzare gli scansafatiche.
Per ragioni simili, la società è infestata da guardiani di ogni genere, dai poliziotti ai vigilantes ai legali societari e così via: servono a compensare il conflitto d’interesse generato dalla concentrazione della ricchezza e dalla proprietà assenteista.
Se tracciamo un diagramma di Venn con tutte queste mansioni (la bravura nello svolgere determinati compiti, che è la base della valutazione del “merito”) e quelli che David Graeber chiamava “Bullshit jobs”, notiamo una forte sovrapposizione.
Gran parte di questi impieghi ha un carattere secondario rispetto alla produzione vera e propria, semplicemente riflette le irrazionalità istituzionali indotte dal possesso e dal controllo del processo produttivo. Ma questo modello organizzativo e produttivo è solo uno tra i tanti possibili, ed è determinato soprattutto da interessi istituzionali e di classe piuttosto che da generici standard di “efficienza”.
Rispetto alla produzione comunitaria decentrata, la produzione di massa è più “efficiente” solo perché, in genere, ci sono incentivi e prezzi distorti dai forti aiuti statali che agendo a livello di input creano una barriera contro la concorrenza. E data la preponderanza della produzione di massa, le capacità tecniche che il sistema richiede e promuove sono molto diverse da quelle che prevarrebbero in un’economia decentrata. La produzione di massa comporta tecnologie produttive artificialmente grandi e a forte capitalizzazione, e storicamente è associata alla tendenza (nota come taylorismo o fordismo) a dequalificare il lavoratore sul posto di lavoro per spostare il potere decisionale verso l’alto, verso le gerarchie ingegneristiche e dirigenziali. Un’economia decentrata sul modello emiliano romagnolo, per contro, comporta macchinari molto più piccoli e di uso generico e lavoratori tecnicamente esperti in una vasta gamma di macchine.
La produzione di massa, con grossi impianti a forte intensità di capitale e costosi, è costretta a spingere al massimo la capacità produttiva per minimizzare i costi. Al contrario di un’economia basata sulla domanda, come quella a basso costo dell’Emilia Romagna, la produzione di massa, data la necessità di mantenere in funzione gli impianti, obbliga a produrre senza tener conto della domanda per poi indurre i consumatori a comprare al fine di smaltire la produzione. Il risultato è non solo un marketing aggressivo e trasporti a lunga distanza, ma anche forti sprechi dovuti alla necessità di far andare gli impianti al massimo della capacità. Abbiamo così il complesso industrial-militare, l’espansione urbana incentivata e la conseguente cultura dell’auto, l’obsolescenza programmata e molti prodotti di scarsa qualità. Secondo stime attendibili, eliminando sprechi e irrazionalità lo stesso tenore di vita potrebbe essere garantito con una settimana lavorativa di quindici ore.
Anche gran parte della produzione e distribuzione rientra nella categoria dei bullshit job. Questo significa che molto, se non gran parte, di ciò che è considerato “bravura” o “merito” equivale, come dice Peter Drucker, a fare bene ciò che non dovrebbe neanche essere fatto.
Come notavano qualche decennio fa Samuel Bowles e Herbert Gintis in Schooling in Capitalist America, la “meritocrazia” è un’autoreferenziale ideologia della classe di potere, che considera la particolare struttura istituzionale di classe in cui viviamo qualcosa che è nato spontaneamente perché è il sistema più efficiente, o semplicemente perché la gente “vuole così”. La realtà è che questa struttura è stata creata e imposta con la forza da persone che ne beneficiano direttamente, ed è stata impostata in modo da poter essere gestita da persone che hanno assimilato il volere di chi sta in alto. Per mantenersi, il sistema produce quel genere di persone che considerano inevitabile il sistema stesso, e che hanno la capacità di fare ciò che serve per servire la causa. Questo significa selezionare sulla base del “merito”.
Per definizione, qualunque tentativo di rifare il sistema per metterlo al servizio di altri, ad esempio noi, è chiamato “radicale”. E così è.
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