Il Pensiero di Ivan Illich: Una Critica Libertaria

Originale: Kevin Carson, The Thought of Ivan Illich: A Libertarian Analysis. Traduzione italiana di Enrico Sanna

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Nota del traduttore

Per le citazioni tratte dai libri di Ivan Illich mi sono basato, per quanto mi è stato possibile, sulle edizioni in italiano. In alcuni casi, soprattutto quando le citazioni sono molto brevi, non sono riuscito a individuare il corrispondente italiano della citazione inglese. In questo caso ho tradotto dall’inglese. Le edizioni italiane si possono trovare come ristampa e/o in formato digitale su internet. Per questo lavoro, mi sono servito delle seguenti edizioni digitali facilmente reperibili su internet. Trattandosi di edizioni digitali, non riporto il numero della pagina.

• Ivan Illich, La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo, Red Edizioni, 2013.

•  Ivan Illich, Descolarizzare la società. Una società senza scuola è possibile?, Mimesis, 2019.

• Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto all’impiego, Red Edizioni, 2013.

• Ivan Illich, Lavoro ombra, tradotto da Francesco Saba Sardi, senza editore, 1980.

• Ivan Illich, Nello specchio del passato. Le radici storiche dei moderni concetti di pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Boroli Editore, 2005.

• Ivan Illich, Nemesi medica. La paradossale nocività di un sistema medico che non conosce limiti, Red Edizioni, 2013.

• Ivan Illich, Per una storia dei bisogni, Mondadori, 1981.

Introduzione: due tipi di società

“Età industriale” è il termine che Illich usa più spesso per indicare la società o il modo di produzione da lui sottoposto a critica. Il tema principale dell’opera che si prometteva di scrivere è, come dice lui stesso, “un’epilogo dell’età industriale”.

Vorrei ritrarre come è venuto declinando il monopolio del modo di produzione industriale, e la metamorfosi subita dalle professioni che esso genera e nutre.

Soprattutto intendo dimostrare questo: che i due terzi dell’umanità possono ancora evitare di passare per l’età industriale se sceglieranno sin d’ora un modo di produzione fondato su un equilibrio postindustriale, quello stesso al quale i paesi sovraindustrializzati dovranno ricorrere di fronte alla minaccia del caos.1

Secondo Illich esistono due modi alternativi di organizzare la società, da lui indicati generalmente con gli aggettivi “industriale” (o “manipolatorio”) e “conviviale”, a seconda di come le scoperte scientifiche vengono destinate ai fini sociali.

Siamo talmente deformati dalle abitudini industriali che non osiamo più scrutare il campo del possibile, e l’idea di rinunciare alla produzione di massa di tutti gli articoli e servizi è per noi come un ritorno alle catene del passato o al mito del buon selvaggio. Ma se vogliamo ampliare il nostro angolo di visuale, adeguandolo alle dimensioni della realtà, dobbiamo ammettere che non esiste un unico modo di utilizzare le scoperte scientifiche, ma per lo meno due, tra loro antinomici.

C’è un uso della scoperta che conduce alla specializzazione dei compiti, alla istituzionalizzazione dei valori, alla centralizzazione del potere: l’uomo diviene l’accessorio della megamacchina, un ingranaggio della burocrazia. Ma c’è un secondo modo di mettere a frutto l’invenzione, che accresce il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività senza per questo negare lo stesso spazio d’iniziativa e di produttività agli altri.2

La seconda alternativa, la società conviviale, è una società “in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti…3” (Nell’originale, Illich usa il termine “politico” nel senso democratico deliberativo con cui Murray Bookchin propugnava il suo esempio di municipalismo libertario: qui il concetto di politico incorpora anche quello che per molti anarchici è il “sociale”).

Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale.4

Gli strumenti sono ciò che serve i fini dell’individuo, dunque non è l’individuo ad adattarsi ai requisiti degli strumenti al fine di servire i bisogni di un’istituzione. “La società conviviale è una società che dà all’uomo la possibilità di esercitare l’azione più autonoma e creativa, con l’ausilio di strumenti meno controllabili da altri.5” E ancora:

Lo strumento è inerente al rapporto sociale. Allorché agisco in quanto uomo, mi servo di strumenti. A seconda che io lo padroneggi o che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale. Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso. Lo strumento conviviale è quello che mi lascia il più ampio spazio ed il maggior potere di modificare il mondo secondo le mie intenzioni. Lo strumento industriale mi nega questo potere; di più: attraverso di esso, è un altro diverso da me che determina la mia domanda, restringe il mio margine di controllo e governa il mio senso della vita. La maggior parte degli strumenti che mi circondano oggi non può essere utilizzata in modo conviviale.6

…Socialmente parlando, dovremmo riservare il termine “progresso tecnologico” a quei casi in cui nuovi strumenti ampliano le capacità e l’efficienza di un numero crescente di persone, in particolare quando questi nuovi strumenti permettono di produrre valori d’uso in modo più indipendente.7

Una società conviviale è caratterizzata da un accesso equo e da un’ampia distribuzione, non dalla concentrazione, di potere: “La società conviviale riposerà su contratti sociali che garantiscano a ognuno il più ampio e libero accesso agli strumenti della comunità, alla sola condizione di non ledere l’uguale libertà altrui.8

La società industriale, al contrario, parte (erroneamente, come spiegherò più giù) dal presupposto che “per mantenere elevata la produzione serve la disuguaglianza… Le stesse istituzioni politiche funzionano come meccanismi di pressione e di repressione che indirizzano il cittadino e raddrizzano il deviante, per renderli conformi agli obiettivi di produzione. Il Diritto è subordinato al bene dell’istituzione.9

Similmente, Illich distingue il lavoro industriale, o salariato, da quello che definisce “lavoro vernacolare”. Quest’ultimo indica “attività non remunerate che migliorano l’esistenza”, che producono cose “nei beni comuni”, non acquistabili sul mercato; un concetto che risponde, vagamente tutt’al più, ai concetti di “settore informale”, “valore d’uso” e “riproduzione sociale”.10 Illich spiega che con l’espressione “vernacolare” vuole indicare generalmente attività di “sopravvivenza derivate da forme reciproche in ogni aspetto della vita, diverse dalla sopravvivenza che passa dallo scambio o dalla distribuzione verticale”. Insomma, il bene comune opposto al nesso di cassa e alla gestione burocratica.11

Le due soglie e l’effetto controproducente

Ne La convivialità Illich si serve della storia della medicina per spiegare quelle che definisce le due soglie della tecnologia. La prima soglia, tra la metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, è raggiunta quando una serie di tecnologie dà risultati estremamente positivi in relazione ai costi: anestesia, disinfezione, antibiotici e pratiche non mediche come la nutrizione di base, la disinfezione e la derattizzazione. L’effetto è un “crollo verticale della mortalità”.12

In questa prima fase le tecnologie mediche hanno alcuni punti in comune: “quando non diventano monopolio di professionisti che li usano come strumenti esclusivi della loro professione, hanno di solito un costo bassissimo e richiedono una quantità minima di materiali, di capacità personali e di servizi ospedalieri.13

Con il superamento della seconda soglia, gli investimenti in nuove tecnologie producono risultati, rispetto ai costi, modesti o minimi o addirittura, al netto, negativi. Un esempio di risultato negativo sono i batteri resistenti agli antibiotici, gli ospedali come luogo in cui si contraggono malattie e l’accanimento terapeutico che allunga la vita di qualche giorno con costi equivalenti ad anni di reddito di una famiglia.14

Con la seconda soglia, a un’ulteriore professionalizzazione corrisponde un calo dell’utile marginale, almeno in termini di benessere fisico del numero più ampio possibile di persone. Cresce la disutilità marginale: alla crescita del monopolio delle istituzioni mediche corrisponde la crescita della sofferenza della maggioranza delle persone.15

Oltre questa seconda soglia, strumenti, tecnologie e istituzioni diventano svantaggiosi: “Quando la crescita di un’attività economica va oltre un certo punto, cessa il fine per cui è stata originariamente pensata e diventa una minaccia per la società.16

Le nostre principali istituzioni hanno acquisito l’inquietante potere di sovvertire i fini per cui sono state pensate e finanziate. Governati dalle professioni più prestigiose, gli strumenti istituzionali paradossalmente generano soprattutto un effetto controproducente…17

Secondo Illich, il paradigma va al di là della sanità. “Altre istituzioni sono passate da queste soglie.”

In un primo momento, le conoscenze sono applicate alla soluzione di problemi ben definiti e metri di misurazione illustrano la nuova efficienza. In un secondo momento, il progresso ottenuto in precedenza serve da logica per lo sfruttamento della società nel suo insieme al servizio di un valore determinato e rivisto periodicamente da una parte della società: le élite professionali che si autocertificano.18

Alla seconda fase si associa tendenzialmente una cultura istituzionale fatta di costi elevati, che crescono drasticamente ad ogni unità prodotta e ai quali si aggiunge un declino produttivo.

Negli ultimi vent’anni, l’indice dei prezzi generale negli Stati Uniti è cresciuto del 74 percento circa, mentre nel solo settore sanitario la crescita è stata del 330 percento. Se la spesa pubblica sanitaria è decuplicata, la spesa viva dell’utenza è triplicata e il costo dell’assicurazione sanitaria è cresciuto diciotto volte. Dal 1950 ad oggi, i costi degli ospedali di comunità sono cresciuti del 500 percento. Nei principali ospedali i costi sono cresciuti ancora più rapidamente, triplicando ogni otto anni. Le spese amministrative sono settuplicate, quelle per i laboratori quintuplicate. Creare un posto in ospedale oggi costa 65.000 dollari, due terzi dei quali costituiti da apparecchiature meccaniche ammortizzate o rese obsolete in dieci anni. A questa crescita dei costi corrisponde un calo dell’aspettativa di vita degli americani di sesso maschile.19

È dimostrabile che con l’espansione oltre una certa soglia della produzione industriale nei settori principali, l’utilità marginale non è più distribuita equamente, ma soprattutto cala l’efficienza generale.20

Un’istituzione che giunge alla seconda soglia “tende a manipolare fortemente la realtà”. Ovvero, “cose pensate per certi fini istituzionali vengono sempre più spesso ridefinite in modo da impedirne l’utilizzo autonomo.21

Lo sviluppo degli strumenti segue due strade. Con la prima, la macchina amplia le capacità dell’uomo, mentre con la seconda riduce, elimina o sostituisce le sue funzioni. Nel primo caso, l’uomo come individuo può esercitare la propria autorità su se stesso e assumere la conseguente responsabilità. Nel secondo caso, è la macchina che ha il sopravvento, in primo luogo riducendo la scelta e il movente sia dell’operatore che del cliente, e in secondo luogo imponendo ad entrambi la propria logica e i propri bisogni.22

Nelle sezioni seguenti affronterò il tema del monopolio radicale e la dipendenza dalle istituzioni.

Il monopolio radicale

Si ha monopolio tradizionale, microeconomico, quando una ditta si assicura una posizione dominante nella fornitura di un particolare bene nel mercato. Si ha monopolio radicale, invece, quando tutto un complesso istituzionale rende artificialmente indispensabili certi beni al fine di giustificare la propria esistenza e tagliare fuori le alternative. Il monopolio radicale impone l’obbligo di consumare e pertanto limita l’autonomia personale. Costituisce un genere particolare di controllo sociale perché si basa sull’imposizione del consumo di un prodotto standard che solo le grandi istituzioni possono offrire.23

Tutt’altra cosa è invece quello che io definisco col termine “monopolio radicale”, e che consiste nella sostituzione di un prodotto industriale o di un servizio professionale a una attività utile cui la gente si dedica o vorrebbe dedicarsi.24

Un esempio classico di monopolio radicale è la cultura dell’auto con la conseguente dispersione urbana.

I trasporti, per esempio, possono monopolizzare la circolazione. Le automobili possono modellare una città a loro immagine, eliminando praticamente la locomozione a piedi o in bicicletta, come a Los Angeles. … Che l’automobile riduca il diritto di camminare, questo è monopolio radicale, e non il fatto che si contino più guidatori di Fiat che di Alfa Romeo. … Ma il monopolio radicale stabilito dal veicolo a motore ha un modo tutto suo di distruggere. Le automobili creano distanze. … Si incuneano autostrade attraverso regioni sovrappopolate, e poi si estorce alla gente un pedaggio per “autorizzarla” a superare le distanze che il sistema del trasporto esige di per sé. Questo monopolio dei trasporti, come una bestia mostruosa, divora lo spazio.25

… Il monopolio radicale paralizza l’agire indipendente a favore di un prodotto fatto da professionisti. Più le auto prendono il posto delle persone e più occorrono dirigenti del traffico e più la gente diventa incapace di tornare a casa a piedi.26

Un altro esempio lo vediamo nel modo in cui tutto quel complesso istituzionale che ruota attorno all’industria delle costruzioni (ditte d’appalto, produttori di materiali, norme costruttive e così via) ha rafforzato il proprio potere a discapito delle alternative conviviali. Appena fuori dalle città del sud del mondo vediamo favelas e baraccopoli, che spesso mostrano un alto grado di capacità manuali e tecniche (Colin Ward parla estensivamente della tradizionale autocostruzione delle case anche in occidente).27 È tecnicamente possibile produrre materiali da costruzione per farsi la casa da sé. “Le parti che compongono una casa o un servizio pubblico possono essere prodotte a costo bassissimo e pensate per il montaggio faidatè.28” Le normative non solo vietano queste tecniche col pretesto della sicurezza, ma vietano anche, imponendo tecnologie convenzionali per legge, alle imprese di far concorrenza con tecniche costruttive tradizionali, a basso costo, servendosi di materiali locali.

Il problema del monopolio radicale è esasperato da una cultura istituzionale comune che non vede altra soluzione agli effetti negativi del monopolio radicale se non la crescita in dimensioni del monopolio stesso. Le élite manageriali di un certo settore che soffre delle patologie del monopolio radicale sono perlopiù portati a considerare “estremistica” qualunque proposta che non sia applicata all’interno dell’attuale quadro istituzionale da persone come loro stessi. Questo significa che “l’istituzione è giunta a definire il fine”.29 Quando il male è la cattiva gestione burocratica manageriale, l’unica cura ammessa è: più risorse e più controllo. L’approccio standard di una burocrazia manageriale consiste nel “risolvere la crisi con l’escalation”.30 Le riforme fatte all’interno del quadro di riferimento del monopolio radicale “inaspriscono ciò che si suppone debbano eliminare”.31

La cultura manageriale e burocratica propria delle istituzioni del monopolio radicale, con la sua tendenza agli alti costi generali e allo spreco, esaspera il calo dell’efficienza nei costi associata alla seconda soglia. Pur facendo una critica della sanità difficile da accettare (al limite dell’eugenetica), molte sue osservazioni sulla cultura istituzionale colgono il segno. La sanità istituzionale è gestita seguendo la stessa regola della massimizzazione dei costi che Seymour Melman notava negli appalti del Pentagono e nei servizi pubblici, quello che Paul Goodman chiamava “il grande dominio del costo-più”.32

La crescita sbalorditiva dei costi della sanità negli Stati Uniti è stata spiegata in vari modi: è colpa di una pianificazione irrazionale, dice qualcuno, mentre altri puntano il dito sugli alti costi delle belle novità che la gente vuole negli ospedali. La spiegazione più diffusa al momento parla della crescente incidenza del prepagamento dei servizi. Gli ospedali ammettono pazienti assicurati, e invece di offrire servizi esistenti in modo più efficiente e meno costoso, sono economicamente incentivati ad operare con nuovi sistemi sempre più costosi. La crescita dei costi è così imputata al cambiamento di sistema piuttosto che all’alto costo del lavoro, alla cattiva amministrazione o al mancato progresso tecnologico.33

L’inflazione dei costi è spinta anche dal fatto che i trattamenti medici sono solitamente richiesti da consumatori istituzionali che non pagano di tasca propria e destinati all’utilizzo altrui:

In quanto merci, i farmaci a prescrizione agiscono diversamente da tante altre cose: sono prodotti che il consumatore finale raramente sceglie da sé. Il produttore fa pressione sul “consumatore strumentale”, ovvero il medico che prescrive un prodotto ma non lo paga.34

L’istituzionalizzazione dei valori

Come già abbiamo visto, i complessi istituzionali sono al cuore del monopolio radicale. Illich illustra tutta una gamma di forme istituzionali, da quelle interamente “conviviali” all’estrema sinistra a quelle “manipolatorie” all’estrema destra. E le mette a confronto così:

Non occorrono particolari metodi di vendita, più o meno aggressivi, per convincere i clienti a servirsi dei telefoni, delle linee metropolitane, della posta, dei mercati pubblici e della borsa. E anche le fogne, l’acqua potabile, i parchi e i marciapiedi sono istituzioni di cui gli uomini si servono senza che sia necessario convincerli con strumenti istituzionali che ciò è nel loro interesse. …

Le istituzioni di destra sono in genere processi di produzione assai complessi e costosi, nei quali gran parte dell’elaborazione e dei costi serve a convincere i consumatori che non si può vivere senza il prodotto o il trattamento offerti da quella data istituzione. Le istituzioni di sinistra sono invece di solito delle reti per facilitare una comunicazione o una cooperazione nate dall’iniziativa dei clienti.35

Uno degli effetti collaterali del monopolio radicale è che all’individuo un tempo autonomo e autodiretto viene insegnato a vedere se stesso come consumatore di beni prodotti da certi complessi istituzionali, nonché come cliente dei burocrati professionisti che gestiscono tali complessi. Quella società che un tempo rappresentava lo sforzo comune delle persone viene ricondotta al controllo da parte delle istituzioni e delle loro burocrazie manageriali.

Nella sua prima opera importante, Descolarizzare la società, Illich parla della scuola istituzionale come caso di studio in fatto di dipendenza dalle istituzioni; come rimarcherà poi ne La convivialità, “L’analisi dell’apparato educativo di ogni società fondata sull’espansione del modo di produzione industriale mi ha aperto la strada alla scoperta dei limiti non-ecologici di questa espansione. Lo sviluppo del sistema scolastico obbligatorio mi è parso infatti l’esempio-tipo di una situazione che si ritrova anche in altri ambiti della società industriale…36

Allo studente si insegna che “tutto ciò che una grande istituzione produce ha valore.37” Le istituzioni producono valore. La scuola diventa così il primo passo verso la “confusione tra processo e sostanza”.

Salute, apprendimento, dignità, indipendenza e, creatività si identificano, o quasi, con la prestazione delle istituzioni che si dicono al servizio di questi fini, e si fa credere che per migliorare la salute, l’apprendimento ecc. sia sufficiente stanziare somme maggiori per la gestione degli ospedali, delle scuole e degli altri enti in questione.38

In sintesi, l’equivalenza tra valore e processo istituzionale porta a vedere nel processo produttivo di un’istituzione un sostituto del processo produttivo di beni e servizi utili.

La prima cosa che si insegna ad uno studente è che produrre o consumare autonomamente, fuori dalle istituzioni e senza il loro controllo, è un atto sovversivo. Lo studente apprende così che

il curarsi da soli sia segno d’irresponsabilità, che lo studiare da soli non dia sicurezza e che qualunque iniziativa comunitaria, se non è pagata dalle autorità competenti, sia una forma di aggressione o di sovversione. Essendo condizionati dalle istituzioni, entrambi i gruppi guardano con sospetto a ciò che si realizza indipendentemente da esse.39

In seguito, entrando nel mondo adulto, lo studente impara che il “lavoro” non è ciò che uno fa ma ciò che gli viene dato dalle istituzioni.40

Ciò che conta in una società ad alta intensità di mercato non è lo sforzo rivolto a produrre qualcosa che piaccia, o il piacere che deriva da tale sforzo, ma l’accoppiamento della forza lavoro col capitale. Ciò che conta non è il conseguimento della soddisfazione che procura l’agire, ma la collocazione nel rapporto sociale che presiede alla produzione, cioè l’impiego, il posto, la carica… Il lavoro non è produttivo, rispettabile, degno di un cittadino se non quando è programmato, diretto e controllato da un rappresentante delle professioni, il quale garantisca che risponde in forma standardizzata a un bisogno riconosciuto. In una società industriale avanzata diventa quasi impossibile cercare o anche soltanto immaginare di fare a meno di un impiego per dedicarsi a un lavoro autonomo e utile.

L’infrastruttura della società è combinata in maniera tale che solo l’impiego dà accesso agli strumenti di produzione…41

Nel corso di una vita, la scuola rappresenta solitamente la prima di una lunga serie di esperienze con le istituzioni, così che

tutte le nostre attività tendono ad assumere la forma di un rapporto clientelare con altre istituzioni specializzate. Una volta screditato l’autodidatta, ogni attività non professionale diventa sospetta. A scuola ci insegnano che un’istruzione valida è il risultato della frequenza; che il valore dell’apprendimento aumenta proporzionalmente all’input, alla quantità di nozioni immesse e, infine, che questo valore può essere misurato e documentato da voti e diplomi.42

Parallelamente, si tende a sostituire il concetto di azione individuale con quello di servizio istituzionale sotto forma di merce.

L’illusione che i modelli economici possano ignorare i valori d’uso nasce dalla convinzione che quelle attività che noi designiamo con verbi intransitivi si possono sostituire indefinitamente con dei prodotti predisposti da istituzioni e che si indicano con un sostantivo: ‘l’istruzione’ al posto di ‘io apprendo’, ‘l’assistenza sanitaria’ per ‘io guarisco’, ‘i trasporti’ per ‘io mi muovo’, ‘la televisione’ per ‘io mi diverto’.43

La funzione principale di tutte queste istituzioni, che sono nate o hanno raggiunto le dimensioni attuali con l’ascesa del capitale monopolistico, è di fare da supporto al capitale monopolistico stesso, ovvero organizzare la società attorno ai bisogni dell’industria di produzione di massa. La loro funzione più importante consiste nel processare gli input umani al sistema industriale e gestirne i sottoprodotti di scarto (con le carceri e con i sussidi per i lavoratori in eccesso), consumare in eccesso o generare una domanda che assorba la produzione industriale. “Per Marx il costo di produzione della richiesta di merci aveva un’importanza trascurabile. Oggi la maggior parte della manodopera umana è impegnata nel produrre richieste che possano essere soddisfatte da un’industria a forte intensità di capitale. La massima parte di questo lavoro viene fatto nella scuola.44

I servizi professionali offerti da tali istituzioni, pur essendo considerati dalla moderna mentalità capitalista un esempio di progresso materiale, hanno come effetto reale la produzione di una sorta di dipendenza e di povertà ad alto costo. Impoveriscono l’individuo impedendogli di utilizzare le proprie capacità e i propri legami sociali, cioè il proprio capitale umano, per soddisfare i propri bisogni senza l’intermediazione di una burocrazia delle professioni.

L’incapacità, peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali infetta ogni aspetto della vita in cui una merce escogitata da professionisti sia riuscita a soppiantare un valore d’uso plasmato da una cultura. Viene così soppressa la possibilità di conoscere una soddisfazione personale e sociale al di fuori del mercato. Io sono povero, per esempio, una volta che per il fatto di abitare a Los Angeles o di lavorare al trentacinquesimo piano abbia perduto il valore d’uso delle mie gambe.45

A questo proposito, la dipendenza dalle istituzioni (”povertà modernizzata” o “impotenza istituzionale”) mostra la sua indissolubile relazione con il monopolio radicale, ottenuta tagliando fuori le alternative. All’individuo viene impedito di fare a meno dei beni e prodotti dai complessi istituzionali. “Dove regna questo tipo di povertà, è impedito o criminalizzato qualsiasi modo di vivere che non dipenda da un consumo di merci. Fare a meno di consumare diventa impossibile, non soltanto per il consumatore medio ma persino per il povero.” Una parte sempre più grande dei beni che consumiamo è organizzata “come una merce anziché un’attività.” “Che poi questa merce sia fornita da un imprenditore privato o da un apparatčik, il risultato concreto è sempre lo stesso: l’impotenza del cittadino, la nostra forma, specificatamente moderna, di povertà.46

Questo professionalismo tecnocratico associato al monopolio radicale (le “professioni disabilitanti”) è altra cosa rispetto ai vecchi mestieri specializzati o le vecchie libere professioni in virtù dell’autorità che lo accompagna.

I becchini per esempio, negli Stati Uniti, hanno posto in essere una professione non perché ora si chiamino impresari di pompe funebri, o perché è richiesto un diploma per esercitare la loro attività, o perché le loro prestazioni sono diventate molto care, e neppure perché si sono sbarazzati dell’odore appiccicato al loro mestiere facendo eleggere uno di loro presidente del Lion’s Club: costituiscono una professione, dominante e menomante, dal momento in cui hanno acquistato il potere di far bloccare dalla polizia un funerale se il morto non è stato imbalsamato e chiuso nella bara da loro.47

Sparisce la comunità, sostituita da una nuova placenta composta di tubi che erogano assistenza professionale.48

Quest’ultimo punto è fondamentale. Le professioni dell’assistenza e le istituzioni manageriali, che considerano la persona con cui hanno a che fare principalmente come oggetto della loro autorità piuttosto che come cliente, hanno costretto all’estinzione il bene comune autogestito, il settore sociale e gli altri organismi sociali autonomi.

L’Età delle Professioni sarà ricordata come il tempo in cui la politica è andata in declino, con gli elettori che, guidati dai professori, hanno ceduto ai tecnocrati il potere di codificare in legge i loro bisogni, rinunciando così al potere di decidere chi ha bisogno di che cosa, e lasciando che le oligarchie determinino con quali mezzi devono essere soddisfatti questi bisogni.49

Nonostante le tante stranezze nell’analizzare la sanità, Illich ha pienamente ragione quando dice che le istituzioni che curano i vecchi e i malati cronici o i disabili hanno eliminato la possibilità di curarsi a casa o presso l’ambiente sociale rinunciando a servirsi di loro o dar loro un senso.

Quanto più la vecchiaia diventa soggetta a servizi d’assistenza professionale, tanta più gente viene spinta in istituti specializzati per gli anziani, mentre l’ambiente di casa, per quelli che resistono, si fa sempre più inospitale. Questi istituti sembrano il dispositivo strategico odierno per disfarsi dei vecchi, che la maggior parte delle altre società ha tolto di mezzo in forme più schiette e, si potrebbe sostenere, meno odiose.

 Il tasso di mortalità durante il primo anno dopo il ricovero è sensibilmente più alto di quello che si registra fra i vecchi che rimangono nel loro ambiente abituale. Il distacco dalla casa contribuisce a far insorgere e a rendere mortali parecchie malattie gravi.50

Con la sua critica del monopolio radicale e della dipendenza dalle istituzioni, Illich offre un’analisi acuta dell’ideologia meritocratica. “Una crescita della mobilità sociale può rendere la società più umana, ma solo se allo stesso tempo si assottiglia la differenza in termini di potere che divide i molti dai pochi.51” La rapidità con cui l’individuo può muoversi tra le gerarchie di potere non importa se la struttura del potere è iniqua. Ciò che conta è lo spaccato del potere in un dato momento, e se i benefici di chi sta in alto vengono a scapito di chi sta in basso.

Critiche

Incomprensioni sulla natura della seconda soglia. Se vogliamo capire dov’è l’errore di Illich quando illustra le due soglie e il monopolio radicale basta semplicemente analizzare il linguaggio usato ne La convivialità: “dobbiamo imporre … limiti alla crescita industriale”; “imporre limiti superiori alla produttività”[!]; “limitare il potere degli strumenti dell’uomo quando questi cominciano a sopraffare l’uomo e i suoi obiettivi”; “strumenti coscientemente limitati”; “dobbiamo difendere collettivamente la nostra esistenza e il nostro operare contro gli strumenti e le istituzioni che minacciano o misconoscono il diritto delle persone a utilizzare creativamente le proprie energie”; “È in sede politica che bisognerà fissare i limiti del modo di produzione industriale”; “limiti auspicabili alla specializzazione e alla produzione”; “limitare politicamente quegli strumenti che limitano la libertà di usarli autonomamente a pochissime persone;” “i mezzi di trasporto supersonici dovrebbero essere banditi”; “riduzione volontaria della sovraefficienza”; “limiti agli strumenti”; “un limite alla velocità dei veicoli”; “imporre limiti ai loro strumenti a beneficio della convivialità”.

In sostanza, Illich fraintende le cause della “crescita”. Nel suo modo d’intendere la tecnologia, gli “strumenti sovraefficienti”, semplicemente in virtù della loro esistenza, portano con sé un imperativo totalizzante con cui si espandono rifacendo la società a propria immagine, a meno che non vengano limitati esternamente con la forza.

Se il modo di produzione industriale si espande al di là di una certa fase e continua a urtarsi col modo autonomo, la sofferenza personale aumenta e comincia la dissoluzione sociale. Nell’intervallo (fra il punto di sinergia ottimale tra produzione industriale e produzione autonoma, e il punto di massima egemonia industriale tollerabile) diventano necessarie le procedure politiche e giuridiche per far regredire l’espansione industriale.52

Questo fraintendimento lo porta a scrivere assurdità sulla seconda soglia e sulle esternalità negative:

Ma la maggior parte delle esternalità non si può quantificare e scaricare all’interno: se il prezzo della benzina venisse aumentato in modo da ridurre l’impoverimento delle riserve petrolifere e dell’ossigeno atmosferico, ogni chilometro/passeggero diverrebbe più costoso e avrebbe ancora di più un carattere di privilegio; diminuirebbe il danno ambientale ma aumenterebbe l’ingiustizia sociale. Al di là di un certo grado d’intensità della produzione industriale, le esternalità non si possono ridurre ma solo spostare.53

Contrariamente a ciò che sostiene Illich, se tutti quelli che godono dei vantaggi di una tecnologia fossero costretti ad accollarsene il costo pieno, invece di esternalizzarlo sulla società, smetterebbero non appena i costi dovessero superare i benefici. L’uso di certe tecnologie non si estenderebbe a tutta la società al punto che anche i non privilegiati sono costretti ad usarle pur ritenendole dannose. Se non ci fossero autostrade e se le città non fossero fatte su misura per l’automobile, l’auto sarebbe un semplice trastullo dei ricchi; in versione economica e semplificata sarebbe diventato uno strumento utile per certe nicchie di mercato, come l’agricoltura, le comunità isolate, l’uso promiscuo, come avveniva prima che si diffondesse la cultura dell’auto.

Secondo Illich, gli strumenti e le tecnologie precedono le strutture di potere: le ultime inevitabilmente hanno origine dalle prime.

In realtà, accade esattamente l’opposto. In assenza di limiti imposti, la tecnologia non si riproduce spontaneamente come i conigli fino a sfornare burocrazie autoritarie. Piuttosto le tecnologie vengono imposte perché rispondono ai bisogni delle strutture di potere. Una tecnologia, un’industria, un’istituzione possono andare oltre la seconda soglia ed entrare nel campo dei rientri negativi solo perché le strutture istituzionali di potere possono fare propri i benefici esternalizzando gli effetti negativi sulla massa, verso la quale non hanno responsabilità.

“Superato il limite,” dice Illich, lo strumento da servitore diventa despota.”

 Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell’equilibrio globale, questo limite critico. Sarà allora possibile articolare in modo nuovo la millenaria triade dell’uomo, dello strumento e della società.54

Questo è vero. Ma questi limiti non devono essere imposti dall’esterno contro tecnologie la cui natura (l’“eccesso di efficienza”) altrimenti le farebbe crescere illimitatamente. I limiti devono essere imposti da chi sperimenta sulla sua pelle sia i benefici che le conseguenze negative degli strumenti adottati; l’autorità dovrebbe averla chi subisce gli effetti delle politiche istituzionali e fa il proprio dovere, non un qualche incomprensibile potere gerarchico che serva gli interessi propri o quelli di qualche rentier assenteista.

Illich fa poi un’analisi insufficiente delle cause reali dei rientri negativi che si hanno quando si supera la seconda soglia. Il costo di una tecnologia supera i benefici a causa delle caratteristiche inerenti la tecnologia stessa, o a causa dei fattori istituzionali che guidano l’adozione di tale tecnologia? Nel caso delle tecnologie mediche, esiste un costo minimo dato dai costi materiali di produzione; il costo reale è però probabilmente più alto a causa di fattori aggiunti. Certo esiste una soglia oltre la quale l’adozione di una tecnologia costa più dei benefici che dà; ma si tratta di una soglia resa artificialmente bassa per ragioni istituzionali? E può essere innalzata cambiando il quadro istituzionale? Ad esempio, sono fattori come i diritti legali monopolistici (brevetti, software proprietario, licenze, barriere artificiali all’ingresso e così via) che causano un aumento del prezzo dell’assistenza sanitaria, che consiste in gran parte di rendite incorporate? Non è che invece è la politica statale che toglie la possibilità di un uso alternativo, meno costoso, delle stesse tecnologie? In questo caso, sia i rientri negativi oltre la seconda soglia che tutti gli aspetti negativi del monopolio radicale potrebbero essere imputabili al controllo burocratico (opposto ad un controllo democratico comunitario) sull’attuazione del servizio, più che alla natura in sé del servizio stesso.

Prendiamo la cultura dell’auto, ad esempio. Il problema dell’urbanizzazione selvaggia e della dipendenza dall’auto non derivano dall’auto in sé, ma dagli interessi di potere che hanno plasmato la società seguendo i propri fini. Il problema nasce dall’incentivazione della monocultura dell’auto, dalle autostrade fatte su terre espropriate, dal divieto di costruire quartieri a destinazione mista imposto, tra le altre cose, dai piani regolatori.

Prima che si affermasse la cultura dell’auto e la città su misura per l’auto, di norma le città e le cittadine contenevano di tutto, era possibile andare da casa al lavoro o al negozio utilizzando il tram, la bicicletta o i propri piedi. Quando la popolazione cresceva, si ricorreva generalmente all’espansione modulare, ad esempio i sobborghi serviti dalla ferrovia. La crescita selvaggia non esisteva.

Se autorità federali e locali e dal mercato immobiliare non avessero imposto la cultura dell’auto, quest’ultima avrebbe mantenuto una posizione di nicchia in città che avrebbero mantenuto le forme antiche. L’avrebbe acquistata il contadino che vive in campagna, dove la scarsa densità di popolazione non giustifica i trasporti pubblici. L’avrebbe usata per andare e venire in città, magari con un camioncino per portare ortaggi al mercato o per portare a casa la spesa, e avrebbe avuto un piccolo motore a combustione interna o elettrico. Non avremmo visto auto sfrecciare nelle strade extraurbane, niente motori a sei cilindri, solo automezzi leggeri. Per produrre la carrozzeria sarebbe bastato un banco da taglio, niente presse industriali alte come una casa di due o tre piani. Le automobili sarebbero state prodotte localmente in centinaia di fabbriche.

Pertanto non è vero che “oltre una certa soglia di consumo energetico, l’industria dei trasporti detta la configurazione dello spazio sociale.55” Piuttosto è la configurazione dello spazio sociale che impone le modalità di trasporto adottate, le quali a loro volta impongono il livello di consumo energetico.

Illich tende a vedere nella diffusione delle burocrazie manageriali, con le loro riluttanti clientele, un fenomeno in espansione di cui non c’è bisogno di indagare le cause, più che un affetto secondario di più ampi interessi di classe e di potere; come vediamo quando parla degli occupanti abusivi.

 Sia i non-modernizzati sia i post-moderni si oppongono al divieto della società all’autodeterminazione spaziale, e dovranno fare i conti con la repressione poliziesca del disturbo che creano. Saranno definiti invasori, occupanti illegali, anarchici e disturbatori, secondo le circostanze in cui affermano la propria libertà di abitare: indios che si installano in un terreno incolto a Lima; “favellados” di Rio de Janeiro che ritornano a occupare la collina da cui sono appena stati cacciati dalla polizia (dopo averla abitata per quarant’anni); studenti che osano trasformare in abitazioni le rovine del Kreuzberg a Berlino; portoricani che con la forza tornano a occupare gli edifici bruciati e murati del South Bronx. Saranno tutti sloggiati, non tanto per il danno che arrecano al proprietario del terreno o perché rappresentino una minaccia per la pace o per la salute dei vicini, ma per la sfida che lanciano all’assioma sociale che definisce il cittadino come unità che ha bisogno di un garage standard. [Corsivo aggiunto]

Sia la tribù di indios che scende dalle Ande per installarsi nei sobborghi di Lima, sia il consiglio di quartiere di Chicago che si dissocia dall’ente cittadino preposto all’edilizia contestano il modello oggi dominante del cittadino come “Homo castrensis”, uomo acquartierato.56

Illich commette un grosso errore critico quando spiega tutto ciò parlando di una inerente logica espansionistica, o della spinta ad egemonizzare propria delle “classi managerial-professionali”, non ci vede il risultato di un più ampio e duraturo processo di privatizzazione e appropriazione della terra spinto dagli interessi della classe capitalista.

Incapacità di ammettere possibili alternative industriali. Così come fraintende il concetto di “strumento sovraefficiente” o “maligno”, Illich fraintende anche il concetto di controproducente di cui al capitolo precedente. Parte da questo principio: l’invenzione e la diffusione di “strumenti più efficienti” porta inevitabilmente ad una seconda soglia con conseguente dominio da parte di un’élite manageriale. In realtà, la seconda soglia viene raggiunta solo quando viene imposta da queste élite. L’agire controproducente diventa così l’effetto, non la causa, del dominio delle élite manageriali.

Certi strumenti, però, non vengono adottati illimitatamente perché “più efficienti”, e dunque perché rendono obsoleti strumenti più appropriati grazie alla loro maggiore efficienza. E il problema non è neanche “l’illusione che la potenza della macchina possa sostituire indefinitamente il lavoro dell’uomo”, o il fatto che “elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l’ambiente fisico.57

Il problema non sono i quanta elevati di energia o la potenza della macchina in sé, ma il fatto che tutto ciò venga adottato senza considerare le dimensioni del flusso produttivo occorrente a soddisfare una certa quantità di domanda. Quanta energetici e potenza della macchina vengono massimizzati a livelli assolutamente sproporzionati al livello produttivo necessario a soddisfare la domanda; così che il costo totale di tutti gli interventi atti a garantire il consumo dell’intera produzione supera il costo dei presunti risparmi dati dalle “economie di scala”. L’industria capitalista ha la possibilità di adottare tecniche produttive a forte intensità di capitale su larga scala perché, nonostante le forti inefficienze, è in grado di esternalizzare i costi delle inefficienze sul consumatore o su chi paga le tasse.

Gli “strumenti controproducenti” vengono adottati solo perché portano benefici a chi decide di adottarli e perché gli effetti negativi possono essere scaricati esternamente. La soluzione non consiste nel “vietare” questi strumenti, ma nel porre il potere di controllo dell’intera organizzazione sociale nelle mani di chi subisce gli effetti delle decisioni.

Contrariamente a ciò che sostiene lo stato corporativo, e cioè che le strutture istituzionali della produzione di massa sono indispensabili a “mantenere alta la produzione”, cosa che Illich prende per buona, tali strutture non massimizzano affatto la produzione, intesa come prodotto consumabile. Piuttosto fa sì che il processo produttivo massimizzi il consumo di fattori produttivi, in risposta all’imperativo di massimizzare l’utilizzo della capacità produttiva, se occorre con lo spreco e le inefficienze. Nel capitalismo della produzione di massa, la stessa nozione di “crescita” (l’aumento del pil) equivale a una crescita del valore totale dei fattori di produzione consumati.

Il concetto di crescita in Illich non è coerente. Decrescita non significa tagliare i consumi o la produzione in sé, ma distruggere la crescita del valore di scambio monetizzato (che misura il totale delle risorse consumate per ottenere un certo livello produttivo). Un approccio appropriato non passa dall’imposizione dell’austerità o di un limite al consumo in sé, ma attraverso la limitazione delle risorse in input, ovvero: bisogna smettere di sovvenzionare il consumo delle risorse, che agli occhi delle imprese capitaliste appaiono artificialmente abbondanti. Il problema della crescita dev’essere affrontato dal lato delle risorse, non del consumo.58

Illich vorrebbe “abbassare l’efficienza industriale”.59 Ma il problema è che si ricorre deliberatamente all’inefficienza per utilizzare al massimo la capacità produttiva. Gli strumenti della produzione di massa sono “sovraefficienti” solo nel senso che sono troppo efficienti per un flusso produttivo determinato dalla domanda autonoma. In termini di efficienza pura e semplice, l’ideale sarebbe che il processo produttivo avvenisse il più vicino possibile al luogo del consumo e che il flusso produttivo si riducesse al livello della domanda autonoma, con conseguente ridimensionamento dei macchinari. Il capitalismo della produzione di massa al contrario massimizza la produzione delle singole macchine a prescindere dalla domanda, il che porta a rifare la società ad immagine di una macchina di Rube Goldberg, sovvenzionando lo spreco, la distribuzione a lunga distanza e il marketing ad alta intensità al fine di garantire il consumo di tutta la produzione e tenere le macchine al massimo.

Illich considera superflua la “produzione industriale di massa”. Per lui le tecnologie della produzione di massa sono inerenti l’industria in sé, esiste solo una falsa alternativa tra industria di produzione di massa e produzione manuale (anche se fortemente tecnologica grazie al design e ai materiali del ventesimo secolo). Il fatto che ignori le alternative è evidente qui:

Nessun genere di attrezzatura realizzabile in passato poteva rendere possibili un tipo di società e un modo di attività contrassegnati al tempo stesso dall’efficienza e dalla convivialità: non la tecnica tradizionale, in quanto troppo inefficiente, né la tecnica industriale perché è troppo centralizzata. Ma oggi possiamo concepire degli strumenti che permettono di eliminare la schiavitù dell’uomo, senza per questo asservirlo alla macchina. Condizione di questo progresso è il rovesciamento del quadro di istituzioni che governa l’applicazione alla tecnica dei risultati ottenuti dalla scienza. Oggigiorno l’avanzamento scientifico viene identificato con la sostituzione di strumenti programmati all’iniziativa umana; ma ciò che in tal modo si scambia per l’effetto della logica che si crede di aver scoperto nelle cose non è in realtà che la conseguenza di un pregiudizio ideologico. La struttura dello strumento deciderà se l’uomo si avvia verso un nuovo, moderno livello di artigianato, o verso un mondo di funzionariato universale.60

Altrove attribuisce all’industria i mali della produzione di massa: “Non si può migliorare il prodotto senza riconvertire grossi macchinari, nel senso tecnico che i tecnici danno a questa parola. Per far fruttare ciò, occorre creare mercati enormi su misura per questo modello.61

Scusabile dato che, in quanto figlio del suo tempo, non conosceva il potenziale della produzione industriale alternativa di piccola scala. Ma non era questa mancanza di alternative a limitare la scelta tra produzione industriale di massa e produzione artigianale. I suoi testi abbondano di riferimenti che dimostrano la conoscenza di possibilità alternative, per cui un’assoluzione per ignoranza non è possibile.

È significativo che ne La Convivialità Illich citi estesamente The Pentagon of Power di Lewis Mumford,62 un libro che in materia di tecnologia accentua il pessimismo dei suoi primi scritti, un libro in linea con Jacques Ellul nel vedere nella tecnologia industriale una forza inerentemente totalitaria. Sembra assai improbabile che Illich non conoscesse la più ottimistica Technics and Civilization, opera precedente in cui Mumford parla del potenziale decentralizzante delle tecnologie produttive “neotecniche” basate sulle macchine elettriche.

Ma questo rifiuto delle possibilità alternative non si limita a un’ignoranza selettiva delle opere di Mumford. In un’opera del 1977, non solo dimostra indirettamente di essere a conoscenza di tutta una serie di scritti del tempo sui modelli economici decentrati e a dimensione umana, ma sembra far riferimento al gruppo Radical Technology quando scrive:

Nella nostra epoca non sono certo rare le teorie imperniate sul valore d’uso e capaci di analizzare i costi sociali generati dalle economie ortodosse. Le propongono dozzine di “outsiders”, che le identificano spesso con la tecnologia radicale, con l’ecologia, con i modi di vita comunitari, con la piccola dimensione, con la bellezza.63

Se Illich avesse letto Technics and Civilization, come sicuramente fece, avrebbe saputo che sia la produzione di massa ad alta intensità di capitale che la produzione con macchine di piccola scala hanno un origine comune nelle macchine elettriche introdotte durante la Seconda Rivoluzione Industriale. I sostenitori del decentramento industriale, Pëtr Kropotkin e Ralph Borsodi, e anche Mumford, pensavano che una produzione in piccole officine con macchinari elettrici fosse più in sintonia con lo spirito affrancatore dell’energia elettrica. Se si preferiva la produzione di massa non era perché più efficiente in sé, ma perché più efficiente nel servire gli interessi del nesso stato-capitale.

Per realizzare gli standard della convivialità di Illich, l’ideale potrebbe essere un’organizzazione dell’industria completamente diversa: un modello produttivo artigianale decentrato del tipo proposto da Kropotkin e altri, con macchinari multiuso dislocati in piccole officine nei quartieri o nei piccoli centri, in grado di passare facilmente dalla produzione di serie alla produzione del pezzo singolo. A differenza della produzione di massa, questo modello produttivo non comporta un controllo sociale totalizzante perché si basa su macchine multiuso; inoltre si adatta rapidamente a produzioni diverse e pone al centro l’artigiano; allo stesso tempo, produce solo su domanda, dunque non impone la riformulazione della società in funzione del prodotto.64

Quello che Illich sembra non capire è che molti di questi modelli sono industriali, e che già allora la crescita tecnologica, con l’integrazione di mini computer in macchine multiuso, stava rendendo possibile la produzione industriale decentrata e il recupero delle capacità artigianali del lavoratore industriale.

D’altro canto, Illich non distingue conviviale e industriale sulla base del “livello tecnologico dello strumento”: ad esempio, il telefono, che lui considera strumento conviviale, è “il risultato di una tecnologia avanzata”.65 Caratteristica distintiva della tecnologia conviviale non è il fatto di essere “alta” o “bassa”, ma la relazione funzionale dello strumento con l’uomo e con l’intera società. Illich lo dice ma non arriva alla logica conclusione:

Il monopolio professionale che si estende sulla nuova tecnologia non è affatto inevitabile. Le grandi invenzioni dell’ultimo secolo, quali i nuovi metalli, i cuscinetti a sfera, certi materiali da costruzione, l’elettronica, certi procedimenti di analisi e certi medicamenti, sono suscettibili di accrescere il potere di entrambi i modi di produzione, di quello eteronomo come di quello autonomo…

La medesima soggezione a tale idea del progresso fa sì che la progettazione sia intesa soprattutto come un contributo all’efficienza delle istituzioni. Alla ricerca scientifica si destinano abbondanti finanziamenti, ma solo se può essere applicata a scopi militari o se serve a consolidare il dominio professionale. Le leghe metalliche che permettono di fabbricare biciclette più robuste e leggere sono un frutto indiretto di studi orientati alla produzione di aviogetti più veloci e di armi più micidiali. Ma i risultati della ricerca si riversano quasi esclusivamente sull’attrezzatura industriale, sicché macchine già enormi diventano ancora più complesse e imperscrutabili per il profano.66

Ma poi fraintende: identifica l’industria con la produzione di massa e ad alta intensità di capitale (le “macchine enormi”). Ammette forme di produzione industriale con macchine ad energia non umana, ma solo quando servono a produrre versioni più sofisticate di strumenti ad energia umana.

E non è l’unica volta che Illich in materia di tecnologia si avvicina alla verità per poi allontanarsene. A proposito dell’istruzione, scrive:

Un mito contemporaneo vorrebbe farci credere che la sensazione di impotenza oggi avvertita dalla maggioranza della gente sia l’effetto di una tecnologia che non può fare a meno di creare sistemi giganteschi. Ma non è la tecnologia a rendere giganteschi i sistemi, immensamente potenti gli strumenti, unidirezionali i canali di comunicazione: al contrario, se adeguatamente controllata, la tecnologia potrebbe fornire a tutti la capacità di comprendere meglio il proprio ambiente e di plasmarlo con le proprie mani, e consentirebbe a ciascuno una pienezza di intercomunicazione quale non è mai stata possibile prima d’ora. Questo uso alternativo della tecnologia è anche l’alternativa centrale nel campo dell’istruzione.67

Più volte, dopo aver intuito il problema sbaglia la diagnosi. Inizia invocando

un radicale ridimensionamento della struttura professionale che oggi ostacola il rapporto tra il ricercatore e la maggioranza della gente che vuole accedere alla scienza. Se si prestasse ascolto a questa richiesta, tutti gli uomini potrebbero imparare a usare gli strumenti di ieri, resi più efficaci e durevoli dalla scienza d’oggi, per creare il mondo di domani. Purtroppo, quella che prevale oggi è la tendenza esattamente opposta. Conosco una zona costiera dell’America meridionale dove la maggior parte della popolazione si guadagna da vivere praticando la pesca su piccole barche.

Il motore fuoribordo è senza dubbio lo strumento che ha cambiato nel modo più drastico la vita di questi pescatori. Ma nella zona da me studiata, il cinquanta per cento dei fuoribordo acquistati tra il 1945 e il 1950 funziona ancora grazie a continui aggiusti, mentre il cinquanta per cento dei fuori bordo acquistati nel 1965 non va più perché questi ultimi sono stati fabbricati in modo da non poter essere riparati. Il progresso tecnologico fornisce alla maggioranza congegni che essa non può permettersi, mentre la priva degli strumenti più semplici di cui ha bisogno. Il cemento armato, i metalli e le materie plastiche che si usano nell’edilizia hanno fatto grandi progressi dagli anni ’40 e dovrebbero offrire a un maggior numero di persone la possibilità di costruirsi la propria casa. Ma mentre nel 1948 più del 30 per cento delle case unifamiliari degli Stati Uniti erano state fabbricate dal loro proprietario, alla fine degli anni ’60 la percentuale dei costruttori in proprio era scesa a meno del 20 per cento.68

“[S]trumenti di ieri, resi più efficaci e durevoli dalla scienza d’oggi” descrive alla perfezione gli strumenti ad alta tecnologia usati nel modello produttivo emiliano basato su piccole attività connesse in rete tra loro,69 o il sistema modulare ecologico a macchine open-source, gli strumenti agricoli e edili e così via del Global Village Construction Set all’interno del programma dimostrativo Open Source Ecology’s Factor-e Farm.70 Modelli che Illich non esiterebbe a liquidare come “industriali” (come infatti sono), ma che sono anche un esempio di quel “progresso tecnologico” vantato da lui come fornitore di strumenti di liberazione. E rappresentano anche una sintesi di quei modelli ante-fabbrica dotati di tecnologie avanzate, come quelli descritti da Illich stesso. Tutti modelli produttivi che, grazie all’assenza degli imperativi che spingono la produzione di massa a tenere sempre in moto i costosi beni strumentali, non darebbero come risultato prodotti che non possono essere riparati condannati dall’obsolescenza programmata.

Sempre in materia di istruzione, arriviamo ad una seconda fondamentale caratteristica che ogni società postindustriale deve avere: un insieme di strumenti che per loro natura si oppongono al controllo tecnocratico. Dobbiamo cercare di arrivare a una società in cui la conoscenza scientifica viene incorporata in strumenti e componenti utilizzabili in unità abbastanza piccole da essere alla portata di tutti. Solo strumenti simili possono socializzare l’accesso alle competenze. Solo strumenti come questi permettono la collaborazione temporanea tra persone che vogliono servirsi di tali strumenti in casi specifici. Solo questi strumenti permettono ad un particolare obiettivo di emergere con l’uso costante, come sanno gli sperimentatori.71

Cose ottenibili integrando il computer in strumenti di lavoro ad uso promiscuo in piccole officine di quartiere. Si tratta di strumenti ideali per la produzione artigianale in officine indipendenti, o per la produzione amatoriale specializzata finalizzata all’uso nel settore sociale o casalingo (come gli hackerspace o le officine che offrono strumenti condivisi).

Contrariamente a ciò che pensa Illich, per arrivarci non servono macchine più piccole e meno efficienti. Basta invertire l’ordine: partire dai fini per arrivare agli strumenti. La produzione di massa prende come dati di fatto la centralizzazione e le dimensioni delle macchine, subordina il fine ai mezzi e plasma il consumo per adattarlo alla produzione di massa. Al contrario, noi dobbiamo partire dalla domanda, adattare il flusso produttivo a questa domanda e determinare le dimensioni e l’efficienza che più si adattano a quel determinato flusso produttivo. Non serve imporre limiti agli strumenti per favorire il ritorno ad un’economia locale e autonoma; prima si torna ad un’economia locale e autonoma e poi si scelgono gli strumenti più adatti. Il problema dell’energia e degli strumenti produttivi si risolve da sé.

Tendenze tradizionalistiche e reazionarie. Uno degli aspetti più inquietanti del pensiero di Illich è la sua apperente tendenza verso quella sorta di essenzialismo di genere, verso certe tendenze eugenetiche proprie di ideologie come il primitivismo e il conservatorismo tradizionalista dei “conservatori sociali”.

Ne La Convivialità si rammarica del fatto che “[i]l rafforzamento dei meccanismi di usura (obsolescenza) minaccia il diritto dell’uomo alla propria tradizione, il suo ricorso al precedente attraverso il linguaggio, il mito, il rituale e, anzi tutto, il Diritto.72” Termini come “tradizione” e “precedente attraverso… il rituale” sono abbastanza generici da permettere un’ampia interpretazione. Ma sempre nello stesso libro, nel riconoscere la dignità del lavoro domestico sembra andare oltre il pensiero di Silvia Federici quando apparentemente allude ad una sorta di divisione del lavoro basato sui generi sulla base di una visione complementare del binarismo di genere.

L’espansione dell’industria si arresterebbe se le donne ci forzassero a riconoscere che la società non è più vitale quando un solo modo di produzione eserciti il suo dominio sull’insieme. E urgente prendere coscienza della pluralità dei modi di produzione, ciascuno valido e rispettabile, che una società, per essere vitale, deve far coesistere. Questa presa di coscienza ci renderebbe padroni della crescita industriale. La crescita si arresterebbe se le donne e le altre minoranze tenute lontane dal potere esigessero un lavoro egualmente creativo per tutti, anziché reclamare l’eguaglianza dei diritti sulla mega-attrezzatura manipolata fino ad oggi dall’uomo soltanto. Solo una struttura di produzione che protegga l’eguale ripartizione del potere permette un eguale godimento dell’avere.73

A tratti il pensiero di Illich appare condivisibile, o quasi, come quando paragona i ruoli di genere della donna nell’economia di sussistenza con i lavori domestici in una società industriale capitalista. Nel 1810…

Le donne avevano parte attiva non meno degli uomini nella creazione dell’autosufficienza familiare. E quando si trattava di “lavoro”, non di rado portavano a casa quanto gli uomini. … situazione che mutò nel 1830… Nel corso di una generazione, la donna da conduttrice di un’azienda divenne custode di un’abitazione dove i bambini erano ospitati prima di cominciare a lavorare, dove il marito riposava e dove si spendevano i suoi guadagni: se non realtà, questo divenne l’ideale.74

[O]vunque il lavoro salariato si espande, cresce anche la sua ombra, la schiavitù industriale. Il lavoro salariato quale forma dominante di produzione e il lavoro domestico, sessualmente specifico, quale tipo ideale di prestazione non remunerata, sono, l’uno e l’altro, forme di attività che nella storia umana non hanno precedenti.75 “…Improvvisamente, nell’Ottocento, i ruoli divisi per sesso nelle attività domestiche furono sostituiti dalla divisione economica tra lavoro salariato e lavoro ombra…76

Anche qui, però, un’analisi apparentemente condivisibile sfuma inevitabilmente in una visione dei generi prettamente complementare:

Una società industriale per esistere deve imporre certi assunti unisex: il concetto per cui i due sessi sono fatti per lo stesso lavoro, percepiscono la stessa realtà e hanno, con alcune piccole differenze apparenti, gli stessi bisogni.77

Quella che per Illich è una divisione del lavoro naturale, non sessista, è possibile solo in un’economia in cui l’unità produttiva è la famiglia. Sotto il dominio del nesso di cassa e del lavoro salariato, l’attività domestica della donna inevitabilmente si svilisce davanti alla “vera” (che produce valore di scambio) attività dell’uomo, e l’attività riproduttiva della donna viene sussunta in qualità di funzione ausiliaria che esiste solo come puntello dell’attività salariata maschile.

E le donne che partecipano al sistema salariale, nonostante tutti i tentativi di riforma, continuano a soffrire la discriminazione sessista.78

In realtà Illich idealizza una presunta cultura precapitalista priva di sessismi tanto da ricordare chi favoleggia lo stile di vita degli schiavi paragonato a quello dei lavoratori salariati: “La discriminazione economica della donna non esisterebbe senza l’eliminazione delle differenze sessuali e il costrutto sociale dei sessi.79” Secondo lui, il problema del sessismo che inevitabilmente accompagna le innaturali condizioni di vita sotto il capitalismo (“la crescita economica che intrinsecamente e innaturalmente distrugge la differenza tra i sessi, ovvero è sessista”)80 può essere eliminato solo tornando ad una visione complementare della divisione sessuale dei compiti. “…Condizione necessaria, anche se insufficiente, per l’eliminazione del sessismo è la limitazione del nesso di cassa e l’allargamento delle forme di sussistenza extra-mercato, non economiche.81

Illich ricorre a tutta una serie di analogie per illustrare i ruoli di genere in una società in cui la sussistenza non dipende dal salario. “Quelli che noi vediamo come uomini e donne possono incontrarsi e adattarsi reciprocamente non a causa, ma nonostante i contrasti. Si adattano come la destra si adatta alla sinistra.” E prosegue paragonando la relazione tra i ruoli dei due sessi nelle diverse culture alle relazioni attribuite alle due mani nelle diverse culture o allo yin e lo yang.82

Fuori dalle società industriali, il lavoro adatto ad entrambi i sessi è, se non inesistente, una rarità. Sono poche le cose che possono essere fatte indifferentemente dall’uomo e dalla donna. I primi, di norma, non possono fare quello che fanno le donne.83

[La separazione tra i sessi] indica una polarità sociale di fondo e diversa da luogo a luogo. Ciò che l’uomo non può o che deve fare varia da una vallata all’altra.84

Non si possono separare gli strumenti dalle relazioni sociali. Ognuno è in relazione con la società tramite i suoi atti e gli strumenti con cui realizza quegli atti. Lo strumento determina l’immagine di chi lo maneggia. In tutte le società preindustriali, ad un insieme di compiti specifici di un determinato sesso corrispondeva un insieme specifico di strumenti. Anche gli strumenti di uso comune possono essere toccati soltanto da una metà della popolazione… Due set di strumenti determinano la complementarità materiale dell’esistenza.85

In quest’ultimo paragrafo vediamo come Illich riduce i tradizionali ruoli di genere delle società precapitaliste fino a farne una caricatura. Come dire che l’uomo ha un blocco psichico che quasi gli impedisce, anche in casi eccezionali, di svolgere “attività femminili”, e viceversa. Sembra quasi stregato, come Margaret Mead con le donne di Samoa.

Quando da piccoli percepiscono il mondo da punti di vista complementari, l’uomo e la donna cominciano a concettualizzare l’universo in due modi distinti. Alla percezione propria di un sesso corrispondono atti e strumenti propri di quel sesso. Non solo vedono il mondo da diverse angolazioni e con diverse sfumature, ma ben presto imparano che di ogni cosa esiste anche un altro lato.86

Ancora più inquietanti le sue opinioni in campo medico. Con l’attenuante, però, che alcune delle sue critiche sul costo dei trattamenti sono dettate non tanto da preoccupazioni eugeniche ma di giustizia distributiva, dal fatto che i ricchi possono permettersi le cure più costose mentre la maggioranza più povera non può permettersi neanche le cure di base.

Ancora non siamo alla chirurgia cardiaca come normale assistenza medica… Al contrario, una clinica per il trapianto di organi ci appare come uno scandaloso giocattolo che giustifica un’alta concentrazione di medici a Bogota…

Purtroppo non è chiaro a tutti che la maggioranza dei latino-americani non può permettersi un’assistenza ospedaliera di nessun genere…87

E giustamente si chiede che senso ha destinare una grossa fetta delle spese mediche a tenere ancora in vita ancora per qualche giorno una persona legata alle macchine, invece di lasciarlo morire in pace a casa sua.88

Ci sono momenti però in cui è difficile capire se Illich condanna la medicina moderna semplicemente perché permette di vivere un po’ di più ma con spese enormi, o se pensa che la vecchiaia oltre un certo punto rappresenti una vita troppo meschina e accusi la medicina di scaricare sulla società i costi di così tanti anziani, o ancora se riesca anche solo a vedere una differenza tra le due cose.

La medicina non può far molto per i mali che si accompagnano alla senescenza. Non può guarire le malattie cardiovascolari, la maggior parte dei tumori, l’artrite, la sclerosi multipla o la cirrosi avanzata. Qualcuno dei malanni di cui soffrono gli anziani può essere talvolta alleviato. Di massima, le cure dei vecchi che comportano un intervento professionale non soltanto aggravano le loro sofferenze ma, se l’intervento riesce, le protraggono. Sorprende quindi la quantità delle risorse che si spendono per curare la vecchiaia. Solo il 10 per cento della popolazione degli Stati Uniti è di età superiore a sessantacinque anni, ma a questa minoranza va il 28 per cento della spesa per l’assistenza sanitaria. Rispetto al resto della popolazione i vecchi stanno aumentando a un tasso del 3 per cento, mentre il costo pro capite della loro assistenza cresce nella misura del 6 per cento. La gerontologia si sta appropriando del Prodotto Nazionale Lordo. Questa squilibrata allocazione di energie umane, mezzi e attenzione sociale non potrà che generare sofferenze indicibili man mano che aumenteranno le richieste e si esauriranno le risorse.89

Altrove Illich non esita a scagliarsi contro chi vorrebbe allungare la vita di chi (definito “imperfetto”, un termine piuttosto disarmante) in condizioni da lui definite “naturali” morirebbe.

Oltre a ciò, la professione medica fomenta la malattia puntellando una società malsana che non solo conserva industrialmente i suoi minorati ma alleva clienti per il terapista con metodo cibernetico. Infine, le cosiddette professioni sanitarie hanno un potere patogeno indiretto, un effetto che nega strutturalmente la salute. Trasformano la sofferenza, la malattia e la morte da impegno personale in problema tecnico, espropriando così la gente d’ogni capacità di misurarsi autonomamente con la propria condizione umana.90

Cosa c’è di più inequivocabilmente eugenico della sua denuncia del fatto che “sempre più persone con difetti vivono una vita puramente clinica”?91

Il tono ricorda quello di certi fondamentalisti contrari all’uso di anestetici durante il parto perché vanno contro la maledizione di Eva scagliata da Dio.

Ogni cultura era la somma delle regole grazie alle quali l’individuo si conciliava con la sofferenza, la malattia e la morte, le interpretava e provava compassione per gli altri, soggetti alle medesime minacce. Ogni cultura creava i miti, i rituali, i tabù e le norme etiche necessari per far fronte alla fragilità della vita. La civiltà medica cosmopolita nega che l’uomo abbia bisogno di accettare questi mali. È concepita e organizzata al fine di sopprimere la sofferenza, eliminare la malattia e lottare contro la morte.92

Illich accusa la professione medica di voler negare il dolore e la morte come cose (in parte) inevitabili della vita, e di interferire con la possibilità di ognuno di attingere alle proprie risorse culturali per affrontare il dolore e la morte attribuendo loro un significato in quanto fatti inevitabili. Fin qui la critica è lecita. Ma dal linguaggio usato ripetutamente pare di capire che anche alleviare il dolore e la sofferenza quando questi non sono inevitabili è un male, perché sopportare la sofferenza nobilita la persona.93

Numerosissime virtù altro non sono che i diversi aspetti di quella fortezza d’animo che tradizionalmente permetteva alla gente di accogliere come una prova le sensazioni dolorose e di modellare in conseguenza il proprio comportamento. La pazienza, la sopportazione, il coraggio, la rassegnazione, l’autocontrollo, la perseveranza, la mansuetudine esprimono ciascuna una diversa sfumatura delle risposte con le quali le sensazioni dolorose venivano accettate, trasformate nell’esperienza del soffrire e sopportare. Il dovere, l’amore, il fascino, la routine, la preghiera, la compassione erano alcuni dei mezzi grazie ai quali il dolore veniva sostenuto con dignità. Le culture tradizionali rendevano ognuno responsabile del suo comportamento sotto l’impatto del male fisico o morale. Il dolore era riconosciuto come una componente inevitabile della realtà soggettiva del proprio corpo, nella quale ognuno si trova costantemente e che viene costantemente modellata dalle reazioni coscienti che ognuno le oppone. La gente sapeva di dover guarire da sola, di dover fare i conti da sola con la propria emicrania, col proprio difetto o con la propria afflizione. …

Le culture tradizionali e la civiltà tecnologica partono da assunti opposti. In ogni cultura tradizionale la psicoterapia, i sistemi di credenze e i farmaci necessari per contrastare la maggior parte del dolore sono incorporati nel comportamento quotidiano e riflettono la convinzione che la realtà è aspra e la morte ineluttabile. Nella distopia del ventesimo secolo, la necessità di sopportare una realtà dolorosa, interna o esterna, è vista come un difetto del sistema socioeconomico e il dolore è considerato un’emergenza accidentale da affrontare con interventi straordinari.94

Le sue parole ricordano il personaggio di John Savage che (nel film Brave New World, NdT) denuncia la civilizzazione dei Controllori sulla base del fatto che alleviare il dolore invece di insegnare a sopportarlo scredita la vita.

È difficile non concludere che secondo Illich allungare la vita, alleviare il dolore e rendere sopportabile (entro limiti molto stretti) l’esistenza dei malati cronici sono di per sé cose illecite.

In tal modo, per l’uomo industriale, la sofferenza suscita ormai solo una domanda tecnica: cosa devo per curare o fare sparire questa sofferenza? Se poi essa persiste, la colpa non è dell’universo, di Dio, dei miei peccati o del diavolo, ma del sistema sanitario. La sofferenza esprime la domanda, da parte del consumatore, di maggiori prestazioni sanitarie. Diventando non necessaria, è divenuta intollerabile. … Solo il ricupero della volontà e capacità di soffrire può restituire sanità al dolore.95

Chi merita di vivere e chi no è deciso sulla base di criteri inflessibili. Ogni tentativo di prolungare la vita dei malati cronici “si traduce in una manutenzione tecnica della vita ad alti livelli di malessere subletale.96

Illich considera sbagliata per principio l’idea “che la morte naturale debba sopraggiungere soltanto al termine di una vecchiaia trascorsa in buona salute” o “[l]a richiesta che i medici lottino contro la morte e mantengano in salute i vecchi cadenti…97” Fa paura leggere questo linguaggio che ricorda gli attuali negazionisti del covid, che rifiutano il vaccino perché “noi abbiamo il nostro sistema immunitario”:

La salute esprime un processo di adattamento. E il risultato non dell’istinto, ma di una risposta autonoma e vitale a una realtà vissuta. Denota la capacità di adattarsi al mutare degli ambienti, di crescere e d’invecchiare, di guarire quando si sta male, di soffrire e di attendere serenamente la morte. La salute abbraccia anche il futuro, e quindi include l’angoscia e le risorse interiori per accettarla.

La fragilità, l’individualità e le connessioni dell’uomo, se vissute consapevolmente, fanno dell’esperienza del dolore, della malattia e della morte una parte integrante della sua vita. La capacità di affrontare questo trio in modo autonomo è essenziale alla sua salute.98

Ad un certo punto sembra condannare tutte quelle forme di intervento medico che impediscono il compito della “natura”:

Fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall’immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione. I contraccettivi orali, per esempio, vengono ordinati “per prevenire un evento normale nelle persone sane”. Certe terapie inducono l’organismo a interagire con delle molecole o delle macchine in modi che non hanno precedenti nell’evoluzione. I trapianti implicano la completa obliterazione delle difese immunologiche programmate geneticamente.99

Illich sembra esitare un po’ davanti ai termini più duri, spiega che non chiede di vietare le pratiche che tengono in vita i malati cronici:

Sprofessionalizzare non vuol dire eliminare la medicina moderna, né ostacolare l’invenzione di una medicina nuova, né necessariamente far ritorno a programmi, riti e metodi antichi: significa che nessun professionista deve avere il potere di elargire a un qualunque suo paziente un complesso di mezzi terapeutici maggiore di quello che ciascun cittadino per proprio conto potrebbe rivendicare. Infine, sprofessionalizzare la medicina non significa perdere di vista i particolari bisogni che si hanno in momenti particolari della vita – quando si nasce, ci si rompe una gamba, ci si sposa, si partorisce, si diventa invalidi o si affronta la morte –: significa solo che la gente ha il diritto di vivere in un ambiente ospitale queste fasi salienti della propria esistenza.100

Ma sono parole in minoranza.

Per concludere, Illich è una ricca fonte di intuizioni originali riguardo il funzionamento del mondo capitalista, intuizioni ulteriormente sviluppabili con grande beneficio. Ma per fare ciò non bisogna accettare tutto acriticamente, bisogna prima fare una cernita e individuare gli elementi problematici.

Note

1. Ivan Illich, La convivialità.

2. Ivi.

3. Ivi.

4. Ivi.

5. Ivi.

6. Ivi.

7. Illich, “Disabling Professions,” in Illich, ed., Disabling Professions (London: Marion Boyars, 1977), p. 34.

8. Illich, La convivialità.

9. Ivi.

10. Illich, Lavoro ombra. Illich in realtà non accetta che il lavoro vernacolare sia confuso con il settore informale o la sussistenza o altro.Convenzionalmente, per settore informale si intende sia il lavoro vernacolare che quello che Illich chiama “lavoro ombra”. Quest’ultimo è lavoro informale non retribuito al servizio del capitale, non un’alternativa ad esso. Vedi: Illich, Lavoro ombra.

La scelta tra consumo ad alto contenuto di lavoro, forse meno disumano, meno distruttivo e meglio organizzato, e le forme moderne di sussistenza è familiare a sempre più persone. Questa scelta corrisponde alla differenza tra un’economia ombra che in espansione e il recupero del dominio vernacolare. Ivi.

11. Illich, Lavoro ombra.

12. Illich, La convivialità.

13. Illich, Nemesi medica.

14. Illich, La convivialità.

15. Ivi.

16. Ivi.

17. Illich, “Disabling Professions”, in Illich, ed., Disabling Professions (Lodon: Marion Boyars, 1977), p. 28.

18. Illich, La convivialità

19. Illich, Per una storia dei bisogni.

20. Illich, Nemesi medica.

21. Illich, La convivialità.

22. Ivi.

23. Ivi.

24. Illich, Per una storia dei bisogni.

25. Illich, La convivialità.

26. Illich, Disabling Professions, p. 33.

27. Vedi Carson, The Anarchist Thought of Colin Ward (Center For a Stateless Society, 2014) <http://c4ss.org/wp-content/uploads/2014/12/colinward.pdf>.

28. Illich, La convivialità.

29. Ivi.

30. Ivi.

31. Ivi.

32. Paul Goodman, People or Personnel, in People or Personnel e Like a Conquered Province (New York: Vintage Books, 1968), p. 115. “Ovunque,” nota “qualunque cosa si faccia o si fabbrichi c’è un ricarico del 300 o 400 percento.” Ivi, p. 120.

33. Illich, Nemesi medica.

34. Ivi.

35. Illich, Descolarizzare la società.

36. Illich, La convivialità.

37. Ivi.

38. Illich, Descolarizzare la società.

39. Ivi.

40. Illich, La convivialità.

41. Illich, La disoccupazione utile e i suoi nemici professionali in Per una storia dei bisogni.

42. Illich, Descolarizzare la società.

43. Illich, “Disabling Professions,” in Illich, ed., Disabling Professions (London: Marion Boyars, 1977), p. 29.

44. Illich, Descolarizzare la società.

45. Illich, Per una storia dei bisogni, Introduzione.

46. Ivi.

47. Illich, Per una storia dei bisogni.

48. Ivi.

49. Illich, “Disabling Professions,” in Illich, ed., Disabling Professions (London: Marion Boyars, 1977), p. 12.

50. Illich, Nemesi medica.

51. Illich, La convivialità.

52. Illich, Nemesi medica.

53. Ivi.

54. Illich, La convivialità.

55. “Energia e equità”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

56. “Dwelling,” in Ivan Illich, In the Mirror of the Past: Lectures and Addresses, 1978-1990 (London and New York: Marion Boyars Publishers, 1992), pp. 58-59.

57. “Energia e equità”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

58. Carson, We Are All Degrowthers. We Are All Ecomodernists. Analysis of a Debate (Center For a Stateless Society, 2019) <https://c4ss.org/wp-content/uploads/2019/11/We-Are-All-Degrowthers_We-Are-All-Ecomodernists_Carson.pdf>.

59. Illich, La convivialità.

60. Ivi.

61. Ivi.

62. Ivi.

63. “La disoccupazione utile e i suoi nemici professionali”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

64. Vedi, tra l’altro, la mia introduzione a Kropotkin, Fields, Factories and Workshops Tomorrow, edito da Colin Ward e pubblicato da C4SS <https://c4ss.org/content/25051>.

65. Illich, La convivialità.

66. “La disoccupazione utile e i suoi nemici professionali”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

67. “Invece dell’istruzione”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

68. Ivi.

69. Kevin A. Carson, The Homebrew Industrial Revolution: A Low-Overhead Manifesto (C4SS, 2010) <https://kevinacarson.org/pdf/hir.pdf>, pp. 178-179.

70. <https://wiki.opensourceecology.org/wiki/Slide_1>; Carson, Homebrew Industrial Revolution, pp. 238-245.

71. Ivi, p. 90.

72. Illich, La convivialità.

73. Ivi.

74. Illich, Lavoro ombra.

75. Ivi.

76. Illich, Gender (New York: Pantheon Books, 1982), p. 103.

77. Ivi.

78. Ivi.

79. Ivi.

80. Ivi.

81. Ivi.

82. Ivi.

83. Ivi.

84. Ivi.

85. Ivi.

86. Ivi.

87. Illich, “Planned Poverty: The End Result of Technical Assistance,” in Celebration of Awareness: A Call for Institutional Revolution (Harmondsworth and New York: Penguin Books, 1971, 1973), p. 131.

88. Illich, Nemesi medica.

89. “Bisogni di Tantalo”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

90. Ivi.

91. Illich, Nemesi medica.

92. “Bisogni di Tantalo”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

93. Illich, Nemesi medica.

94. Ivi.

95. “Bisogni di Tantalo”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

96. Illich, Nemesi medica.

97. “Bisogni di Tantalo”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

98. Ivi.

99. Illich, Nemesi medica.

100. “Bisogni di Tantalo”, in: Illich, Per una storia dei bisogni.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory