Di Eric Fleischmann. Articolo originale: Laurance Labadie’s “Justice” del 20 giugno 2022. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
La giustizia
Fino a che punto è giustificabile, se è giustificabile, la violenza? Prima di rispondere dobbiamo dire cos’è la “giustizia”. Cosa intendiamo per giustizia? E dobbiamo intenderla in termini individuali o di società? Quanto hanno in comune questi aspetti di base? L’individuo ha, o dovrebbe avere, diritti e prerogative fuori dal diritto d’intervento della società? Oppure tutti i suoi atti dovrebbero essere giudicati alla luce del beneficio dato alla società? La società dovrebbe avere il diritto di costringere l’individuo ad agire per il bene della società stessa? E se sì, quanto dovrebbe estendersi questo diritto? Se la felicità è il metro di giudizio della condotta individuale, fino a che punto la sua felicità inficia la felicità della società? Cosa è la felicità? Che relazione dovrebbe esserci tra individuo e società? O tra gruppi dentro la società? È giusta la norma “La maggior felicità per il maggior numero di persone”? L’utilità può esser posta a fondamento della giustizia? Come si determina l’utilità? Su chi dovrebbe essere emessa una sentenza definitiva? E da chi? Chi dovrebbe governare, e quanto?
Una cosa è certa. La felicità della società dipende dalla felicità dei singoli membri. Quindi, se vogliamo analizzare il problema con intelligenza, dobbiamo investigare la natura dell’individuo, la sua felicità, le condizioni che ne determinano la felicità. Sappiamo dalla biologia e dall’osservazione quotidiana che non esistono due individui uguali. Ognuno ha le sue inclinazioni e i suoi gusti personali; ognuno ha una personalità distinta, unica. C’è chi soffre perché le sue inclinazioni e i suoi desideri sono frustrati; e chi è felice perché tutto funziona secondo i suoi desideri individuali. Crescita e sviluppo necessitano della libertà d’azione. L’uomo è impedito da fatti che sono nella natura delle cose, fatti che non può controllare; ma è impedito anche dalla sua ignoranza, a cui può rimediare, e dalle altre persone, con le quali però può concordare un codice di condotta che porti benefici ad entrambe le parti. Probabilmente questo primo accordo sarà ad un tempo paradossale e fattuale. Del tipo: ci accordiamo sul fatto di essere in disaccordo. Nasce un problema, ugualmente paradossale: come si può stare in disaccordo concordemente? Il problema è risolto concordando di obbedire alla legge dell’eguale libertà, che dice: Ognuno deve avere il diritto di fare tutto ciò che vuole purché facendo così non invada l’eguale libertà altrui. Oppure: Ognuno deve avere il massimo della libertà compatibile con l’altrettanto massima libertà altrui. Ovviamente, una legge simile impone una distinzione tra libertà e invasione, per cui l’espressione “libertà di invadere” dev’essere intesa in contraddizione con la legge stessa. L’eguale libertà è la massima libertà compatibilmente con la legge, ma è anche una limitazione della libertà perché vieta a chiunque di avere più libertà degli altri. Non è libertà di agire a spese altrui, se non quando l’altro acconsente ad assumersi un onere, nel qual caso si parla di cooperazione spontanea. La legge dell’eguale libertà è adottata come espediente per promuovere il massimo [del bene] per tutte le persone interessate.
Sulla vaghezza del termine società e sui sofismi che sulla base di questa vaghezza giustificano il dispotismo. Cos’è la “società”? La parola non sottintende un’organizzazione spontanea? La determinazione di ciò che è bene per la società può essere fatta da qualcuno che non sia un numero relativamente ristretto di individui? L’anarchismo [è] l’accordo tra il numero massimo possibile di individui che concordano su una qualunque cosa, ovvero si tratta di innumerevoli società che hanno punti in comune, si escludono o si includono a vicenda.
Nota: In alcuni punti la punteggiatura è confusa. Il testo ha qualche errore di battitura.
Commento di Eric Fleischmann
Quest’ultima aggiunta al Laurance Labadie Archival Project risale probabilmente alla metà degli anni Trenta e si trova archiviata nella Joseph A. Labadie Collection della biblioteca dell’università del Michigan. Ho già spiegato altrove che l’anarchismo individualista di Labadie discende dal liberalismo classico, un’eredità evidentissima nell’incipit in frasi come: “Se la felicità è il parametro con cui si giudica la condotta dell’individuo, fino a che punto la sua felicità è avversaria della felicità della società? Cosa è la felicità?” e “È giusta la norma ‘La maggior felicità per il maggior numero di persone’?” Qui vediamo riflessa una certa sensibilità milliana. John Stuart Mill scrive: “L’utilità, il Principio della Massima Felicità, il credo che sta alla base della morale, dice che l’azione è giusta quando tende a promuovere la felicità, mentre è sbagliata se tende a produrre il contrario. Per felicità s’intende il piacere, l’assenza di dolore; per infelicità s’intende il dolore e l’assenza di piacere.”
Labadie sembra seguire questo principio utilitaristico arrivando alle stesse conclusioni di Mill nel suo libro On Liberty. In questo caposaldo del pensiero liberale classico, Mill spiega come l’utilitarismo non porta ad una dittatura della maggioranza (e alla sua felicità) ma è la base di forti libertà civili, soprattutto perché solo le persone interessate sanno come massimizzare la propria felicità. La conclusione ultima è: “L’unica libertà degna di questo nome è la libertà di perseguire il proprio bene a proprio modo purché non si cerchi di privare gli altri del proprio bene o di impedir loro di arrivarci.” Questo principio è molto simile a quello dell’eguale libertà di Labadie, che dice: Ognuno deve avere il diritto di fare ciò che vuole purché così facendo non invada l’eguale libertà altrui. Ovvero: Ognuno deve avere il massimo della libertà compatibilmente con la libertà altrui.” Solo che Labadie non segue l’utilitarismo morale ma è un antimorale alla stregua di Max Stirner, e se è vero che all’atto pratico i suoi ideali sembrano ispirarsi a Mill, si tratta in realtà degli ideali scritti a caratteri cubitali di una “Unione degli egoisti”, un gruppo non istituzionale formato da individui interessati a sé e dediti al proprio bene reciproco. Stirner scrive: “Il partito cessa di essere una unione nel momento in cui rende vincolanti certi principi, nel qual caso andrebbe sciolto.” In sostanza, le persone dovrebbero essere libere di fare ciò che vogliono purché non limitino la libertà altrui. Applicato ad una società di dimensioni non piccole (soprattutto quando per società, come dice Labadie, s’intende “organizzazione spontanea”) tutto ciò diventa “la legge dell’eguale libertà”.