Di Asem. Originale pubblicato il 13 aprile 2020 con il titolo Benjamin Tucker’s Four Property Regimes and the Spirit of Capitalism. Traduzione di Enrico Sanna.
Molte discussioni sull’economia politica sono reazioni a problemi attuali: aumentare o abbassare le tasse, come imporre le leggi sul lavoro, e questioni simili di centrodestra o centrosinistra, con tutto un insieme di teorici e commentatori che nei media battibeccano tra loro. Le discussioni dànno per scontati certi fondamenti politici: capi e padroni hanno il diritto di esistere legalmente, le tasse sono giuste, i diritti di proprietà non sono sacri e le pratiche tiranniche non sono vietate.
Esiste anche un sottolivello di discussione, perlopiù su internet e tra certi accademici, e riguarda l’opposizione di capitalismo e socialismo. Dominano due grosse correnti: libertari di destra e socialisti statalisti nelle varie versioni. C’è un sostanziale accordo su due questioni: il capitalismo riguarda i mercati e la proprietà privata mentre il socialismo riguarda la proprietà sociale, il che significa o proprietà statale tout-court o proprietà privata con lo stato che controlla le risorse strategiche, impone forti tasse e applica un forte corpo normativo.
Chi attacca solitamente elenca i tanti fallimenti socialisti, le ondate di terrore rosso globale, e cita numerosi paesi terminando invariabilmente col Venezuela. Alla fine, c’è il solito: “Ora mi dirai che questo non è il ‘vero’ socialismo. Tutti i socialisti prima di andare al potere dicono che stavolta la rivoluzione è diversa. Lo dicono ogni volta. Ah ah!” La si mette sul ridicolo. L’interlocutore è posto nella situazione difficile di dover ragionare in salita. Il problema qui è la definizione vaga di socialismo. Socialismo significa tante cose quanti sono i socialisti, con qualche vaga idea riguardo l’egualitarismo economico a fare da collante, e basta.
La definizione più coerente è forse quella del docente marxista Richard Wolff, secondo il quale il socialismo è il richiamo a quelle promesse, irrealizzate sotto il capitalismo, fatte dalla Rivoluzione Francese con lo slogan libertà, uguaglianza e fratellanza. In altre parole, il socialismo è un insieme di critiche del capitalismo sulla base della tradizione illuministica. Questo dovrebbe spiegare anche perché diverse critiche del capitalismo, pur in contraddizione tra loro, rientrano in quel termine generico che è socialismo. Il socialismo, dunque, è l’ideologia che si oppone direttamente al capitalismo pur definendosi il suo legittimo successore egalitario. Anche se, precisiamo, non tutte le critiche del capitalismo si possono considerare socialismo. Ci sono correnti di pensiero occidentali che considerano il capitalismo opera del demonio perché ètroppo libero, o troppo liberale, o perché concede diritti ai contadini selvaggi. Anche gli africani che lavoravano nelle miniere o i contadini indiani sottoposti al regime coloniale protestavano giustamente perché faticavano per arricchire i padroni, ma le ideologie alla base del rifiuto della loro condizione sociale non appartenevano alla tradizione illuministica, ma a qualcosa di diverso come una religione o un pensiero filosofico indigeno, pertanto non possiamo classificarli come socialisti, pur avendo gli stessi fini egalitari.
Nel 1917, con il successo dei bolscevichi, il leninismo diventa la corrente socialista dominante; gran parte del ventesimo secolo è stato dominato dalla discussione tra economisti marxisti-leninisti e altri come Mises, Hayek e Friedman. Questo ha dato l’impressione che la caratteristica principale del capitalismo fosse il mercato, e che socialismo significasse pianificazione e industria di stato. È un’impressione persistente, come dimostrano frasi come “il socialismo è il governo che fa le cose” o “il capitalismo è il business privato”, così come l’idea che il sistema migliore sia un ibrido, un capitalismo corretto con una forte dose di socialismo, come in Svezia o Norvegia. Questo ha dato un grande margine d’azione agli apologeti del capitalismo. Come nel caso del dibattito sul calcolo economico degli anni venti e trenta, che presumibilmente rappresentò il massimo d’attrito, in cui la discussione verteva sul modo migliore di organizzare una società, se il potere decisionale dovesse essere individuale o collettivo. Ammettere la superiorità della posizione austriaca riflette il trionfo dei mercati sulla pianificazione statale, ma non giustifica la legittimità dei datori di lavoro in quanto classe.
Il fatto è che tra comunismo e mercato sembra esserci un vuoto enorme. Mercato e socialismo appaiono opposti, inconciliabili, ma se risaliamo agli inizi del movimento dei lavoratori vediamo un’area grigia in cui il mercato era accettato senza compromettere i diritti dei lavoratori. Ai primi dell’ottocento troviamo forme di socialismo premarxista, liberali come Thomas Hodgskin che partendo dalla teoria classica del valore da lavoro dei liberali spiegava che i lavoratori hanno diritto a ciò che producono. A lui possiamo aggiungere l’anarchico francese Pierre Joseph Proudhon e l’anarchico individualista americano Benjamin Tucker. Tutti consideravano il mercato parte fondamentale della loro filosofia politica.
Fu solo verso la fine del secolo che il movimento socialista cominciò ad andare oltre aspirando a una società comunista. Lo vediamo nella Prima Internazionale monopolizzata da marxisti e socialisti anarchici. All’inizio del novecento, il mercato scompare dal movimento socialista, e la lotta dei lavoratori diventa l’unica prassi di marxisti e anarchici. Quando comincia il dibattito sul calcolo economico, capitalismo e mercato sono percepiti come sinonimi, e tra mercato e comunismo si apre una voragine. L’ideologia libertaria, dobbiamo ammetterlo, per lungo tempo rimase sola a difendere il mercato. Anche marxisti libertari meno noti come la Luxembourg e de Leon volevano un maggiore controllo democratico da parte dei lavoratori e pensavano, con i leninisti, che la rivoluzione avrebbe abolito il mercato. Lo stesso valeva per i comunisti conciliaristi e gli anarchici spagnoli.
Forse la comunistizzazione del movimento dei lavoratori fu un bene, ma ciò creò confusione tra capitalismo e mercato, visti come due facce della stessa medaglia, e permise ai libertari di mercato di difendere indisturbati un modello capitalistico meno rigoroso. I socialisti di mercato riuscirono a scavarsi una nicchia distinguendo il mercato nel suo insieme dal capitalismo come economia politica, dando così probabilmente una definizione più calzante di capitalismo.
Se il socialismo è meglio inteso come critica del capitalismo, il capitalismo può essere meglio definito come critica del feudalesimo. Secondo varie fonti, il capitalismo sarebbe un’ideologia emersa nell’Europa tardo feudale, in tempi e luoghi propizi. Ad esser rigorosi, tutto ciò che non rientra in questi parametri dovrebbe essere escluso dalla definizione di capitalismo. La Via della seta, ad esempio, nacque almeno mille anni prima di Adam Smith. Dire che il capitalismo è semplicemente il libero scambio tra due parti non basta. Argomento diffuso tra i libertari è che il capitalismo è parte della natura umana, come dimostrerebbero le prime forme di baratto nelle società di cacciatori e raccoglitori. Però poi si accreditano Smith, Ricardo e gli illuministi quali fondatori del capitalismo. Una definizione zoppa, come dopotutto quella del socialismo, così che entrambe le parti si scherniscono dicendo “questo non è il vero socialismo”, oppure “questo non è vero capitalismo ma capitalismo clientelare” quando si parla di concentrazione della ricchezza e accumulazione intergenerazionale composita di capitale. I libertari dovrebbero chiarirsi le idee e spiegare meglio cosa intendono per capitalismo, invece di fare da fronte politico di capi e padroni contro i sindacati, o invece di celebrare i politici che vogliono togliere l’assistenza sociale alle madri.
Benjamin Tucker è un personaggio conteso. Gli anarchici socialisti lo annoverano tra i loro, mentre gli anarco-libertari ci vedono il predecessore del libertarismo di mercato rothbardiano. Probabilmente, nessuna delle due parti ha ragione esclusivamente. Tucker rappresenta uno di quei rari casi di anarchismo organico nordamericano in cui è evidente l’evolversi del pensiero liberale classico, quella fase in cui socialisti anarchici e libertari di mercato condividono lo stesso DNA dei liberali classici. Accade come nell’evoluzione biologica, quando una specie presenta caratteristiche comuni ad un’altra specie che condivide lo stesso antenato, ma solo per qualche tempo, dopodiché le due si evolvono in specie distinte. Il tuckerismo rappresenta quel fenomeno che ancora “mette assieme” socialisti anarchici e libertari, ma senza unirli tra loro perché troppo diversi nei fondamenti.
Tucker elabora la teoria dei quattro monopoli alla base del capitalismo: denaro, terra, dazi e brevetti. Senza questi, il capitalismo non si regge. Tucker immagina che in una società più egalitaria il mercato assumerebbe una forma diversa, senza però evolversi nel comunismo. Le teorie di Tucker forse offrono una definizione del capitalismo migliore di qualunque teoria comunista, in quanto quest’ultima non è mai riuscita a separare nettamente mercato e accumulazione capitalista. Gli attuali seguaci di Tucker estendono le sue teorie fino a comprendere monopoli come la sanità e le infrastrutture. Il capitalismo impone nuove forme monopolistiche, ma sarebbe tautologico aggiungerle alle quattro elencate da Tucker. Sulla questione tornò più giù. Tucker evidenzia quelle caratteristiche che sono unicamente capitalistiche: un insieme di regimi di proprietà, garantiti dallo stato, che non trova riscontri in precedenti società umane.
Ogni economia politica ha un qualche insieme arbitrario di norme riguardanti la proprietà. Anche quelle che dichiarano l’abolizione della proprietà privata, come il comunismo, non fanno che ridefinire la proprietà privata come proprietà privata della comune. Ogni critica dell’economia politica si pone la questione di chi possiede cosa e per quale ragione. E il capitalismo non fa eccezione, qualunque cosa dicano i liberali classici settecenteschi. Pensavano di aver inventato idee uniche per la prima volta mettendoci sopra semplicissime etichette con la scritta Proprietà Privata, Libero Mercato, Diritti Naturali, come se prima di loro a nessuno fosse mai venuto in mente di regolare lo scambio di uova con pane. Le stesse rivoluzioni politiche borghesi, organizzate da loro, vedevano nel diritto di proprietà il principale, il più sacro tra i diritti politici, pari in importanza alla libertà del cittadino.
L’accumulazione di capitale, un tempo dominio esclusivo di feudatari e monarchi, divenne un diritto universale della gente comune, così che contadini, mercanti e artigiani ricevettero lo stesso diritto legale di acquisire proprietà e di essere protetti dallo stato dei nobili; almeno finché potevano farlo materialmente. Forse è vero che l’etica del lavoro protestante, con la sua frugalità e la disciplina sul lavoro, permise ad alcuni di avere successo, ma questo capitalismo weberiano sarebbe rimasto puramente spirituale se non ci fosse stato un regime politico a dargli un corpo. E qui vediamo una confusione tra causa ed effetto. L’aggettivo “libero” in libero mercato non indica una libertà oggettiva, ma soggettiva: libertà di e libertà da. Quello di cui parla Smith è un mercato libero da privilegi feudali propri della nobiltà e dalle sue propaggini, come le corporazioni e i mercantilisti. Cose che furono abolite dalle democrazie capitaliste per creare un ambiente favorevole all’etica del lavoro protestante.
L’ideale libero mercato di Tucker era un mercato libero dal potere dei magnati delle ferrovie e dei baroni ladroni industriali, il cui potere privilegiato non derivava dal nome e che perlopiù avevano accumulato ricchezze nel corso di una o due generazioni. Il loro privilegio derivava invece dal fatto di essere più avanti di altri nell’accumulazione composita di capitale. È grazie ai quattro monopoli citati da Tucker, ovvero la terra, i dazi, il denaro e i brevetti, che le élite hanno questi privilegi. E non sono semplici monopoli, ma quattro regimi di proprietà creati dal capitalismo.
Democrazia capitalista significa che qualunque cittadino può acquisire legalmente tutta la proprietà che vuole secondo regole valide per tutti. Ma gran parte della ricchezza creata si basa sui quattro regimi di proprietà citati: immobili, finanza, capitale (azioni) e idee. Nel capitalismo esistono anche altri regimi di proprietà, come la proprietà delle merci, che però non danno vantaggi strutturali quando vengono accumulate in grandi quantità. Nessuno ha mai fatto fortuna accumulando arance in un deposito. Quando si parla di fortune create sulle merci si pensa solitamente a cose come il petrolio o l’oro, anche se nessuno ha mai fatto fortuna possedendo petrolio ma semmai possedendo azioni di società che estraggono e vendono petrolio da terre di loro proprietà. Lo stesso vale per le miniere d’oro, e la corsa all’oro californiana è un buon esempio di cosa succede quando nessuno ha un vantaggio strutturale e deve competere con minatori indipendenti praticamente senza soldi. Quindi le uniche forme di proprietà del capitalismo si riducono a: proprietà terriera, proprietà della moneta, proprietà del capitale e proprietà intellettuale.
La proprietà terriera. La protezione dei proprietari indipendenti di una terra sotto lo stato di diritto è di per sé un fatto sociale positivo, nato per contrastare l’appropriazione terriera da parte dei feudatari. Ma questo ha permesso la proprietà assenteista e un’accumulazione terriera illimitata, ad esempio quando il diritto è definito da una semplice occupazione. Queste norme giustificano l’investimento immobiliare perché garantiscono che i diritti di proprietà saranno protetti dallo stato, creando condizioni di disuguaglianza che vanno a favore di chi già possiede la terra contro chi non ce l’ha.
La proprietà del capitale. La società per azioni è probabilmente il simbolo del capitalismo. Una società non può esistere senza l’approvazione dello stato. Come nel caso della proprietà immobiliare, la società per azioni permette al suo fondatore di accumulare capitali ben oltre i limiti naturali dell’individuo. Il capitale può continuare ad accumularsi autonomamente anche dopo la morte del fondatore, estraendo rendita dalle classi lavoratrici che fanno girare l’azienda. L’esistenza di capitale pubblico e privato non sarebbe possibile in assenza di un’apposita politica dello stato.
La proprietà della moneta. Anche se fatichiamo ad immaginare una società senza denaro, in realtà per gran parte della storia l’uomo ne ha fatto a meno. La storia del denaro raccontata da Adam Smith, secondo il quale dal baratto si passa ad una singola merce in cui viene immagazzinato il valore, merce che poi diventa moneta, negli ultimi decenni è stata messa in dubbio. Antropologi come David Graeber sostengono che la moneta sia stata creata imperativamente dallo stato con strumenti come la tassazione, mentre la moneta come mezzo di scambio sarebbe un effetto secondario. Pur fornendo molte prove a dimostrazione delle loro tesi, autori come Graeber spiegano solo che gran parte del denaro è stato creato dallo stato, come quello romano, ma non tutto. È provato che il denaro può essere una creazione sociale non costrittiva, ma si tratta di casi rari. Il che ci porta alle alternative alla moneta a corso forzoso: baratto di beni e servizi, reti di credito, labor notes, e vari gradi di comunismo; tutto ciò può sostituire la moneta a corso forzoso, e cosa è meglio o peggio è un altro discorso. Ciò che conta qui è che la moneta a corso forzoso è una caratteristica unica del capitalismo; senza lo stato ad imporre regole sociali riguardo il denaro, le relazioni di mercato, se mai esistessero ancora, sarebbero completamente diverse. Anche le alternative più tiepide immaginate da molti libertari di destra per sostituire la banca centrale, ovvero un’organizzazione civica privata che emette la propria moneta, renderebbero difficile l’accumulazione di capitale: molte monete ad alta volatilità reciproca significa che non esiste un luogo sicuro in cui parcheggiare il denaro accumulato.
La proprietà intellettuale. Quando Tucker denunciò il “monopolio dei brevetti”, la proprietà intellettuale aveva un’importanza secondaria. Con il progresso industriale, però, questa ha finito per acquisire una parte sempre più grossa del valore totale. L’intelletto come bene scarso, da distribuire e trattare come ogni altra risorsa fisica scarsa, è una norma creata nella società con l’ascesa dell’economia politica capitalista. Il diritto di copiare idee e informazioni, ovvero il copyright, non richiede di per sé permessi. Con il capitalismo, copiare idee è un diritto sottoposto a permesso garantito dallo stato, un monopolio che va a chi per primo utilizza idee che appartengono all’intelletto generale. A giustificazione, si dice che creando un diritto artificiale lo stato può “promuovere il progresso delle scienze e delle arti utili.” Anche questo regime di proprietàè esclusivamente capitalista.
Le forme di proprietà capitaliste non sono necessariamente separate tra loro. Proprietà del capitale e proprietà monetaria convergono nei mercati borsistici, mentre settori industriali come Hollywood, che si reggono perlopiù sulla proprietà intellettuale, sono consolidati dal possesso di enormi tratti di territorio adibiti a studios in zone esclusive della California. Ogni industria capitalista è un combinato di queste quattro forme di proprietà. Tranne atleti professionisti e medici (statunitensi, ndt), si è ricchi per aver fatto fortuna non con il proprio lavoro, ma possedendo qualcuno di questi quattro beni. Quanto a medici e avvocati, guadagnano molto non perché possiedono capitali, ma perché utilizzano lo stato per acquisire vantaggi sul mercato del lavoro. È una pratica delle società precapitaliste, ad esempio delle corporazioni medievali, ma la troviamo anche nel moderno socialismo di stato.
Il capitalismo ha introdotto nuove forme di proprietà e ne ha eliminato altre, soprattutto i beni comuni e la schiavitù per debiti. Dalla storia delle enclosures sappiamo come la privatizzazione delle terre privò i contadini della loro autonomia, costringendoli al lavoro salariato, da cui la moderna classe lavoratrice. La sinistra concorda perché investe la classe lavoratrice di una moralità superiore. Anche gli ex schiavi finirono al lavoro salariato. La schiavitù esiste fin dagli albori della civiltà umana; le relazioni di schiavitù variano secondo le epoche e sono troppo complesse per essere affrontate qua. Cosa importante, il liberalismo, nelle sue diverse correnti, ha sempre rifiutato le varie forme di schiavitù. I mercati di schiavi sono mercati a tutti gli effetti, con tutte le categorie fondamentali del mercato, come il prezzo e lo scambio di merci, e sono regolati dalla legge della domanda e offerta. Libertari di destra e anarchici di mercato di sinistra sostengono che quello attuale non è un “vero libero mercato”. Il fatto è che tutti i mercati sono legittimi, ma differiscono nei fondamenti, e il conflitto politico deriva proprio da questi fondamenti. Il mercato capitalistico semplicemente non riconosce la schiavitù per debiti come legittimo regime di proprietà.
“che tutti gli uomini nascono uguali, che sono dotati di certi diritti inalienabili dal loro Creatore, e che tra questi c’è la Vita, la Libertà e la Ricerca della Felicità”, la frase più famose della costituzione americana, la democrazia liberale più antica e più importante, significa esattamente quello che dice. Ognuno è libero di accumulare proprietà – compresa la succitata proprietà intellettuale – ed è anche libero dalla schiavitù in quanto cittadino uguale a tutti gli altri. Anche se alcuni dei padri fondatori possedevano schiavi, la questione fu dibattuta e richiese un compromesso politico che la rimise ai singoli stati. Occorsero due generazioni per realizzare questi ideali. Gli abolizionisti erano una minoranza impegnata che smuoveva le acque e poneva la questione su basi morali. Ma a porre fine alla schiavitù fu la potenza di fuoco delle élite industriali yankee guidate dal repubblicano moderato Abraham Lincoln, mentre dall’altra parte stavano i soldati dell’Unione, volgari e razzisti come la media dei bianchi dell’ottocento.
Se si vogliono migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, occorre definire esattamente termini come capitalismo e socialismo. Solo così si può formulare una critica precisa. Il marxismo fa confusione perché non separa capitalismo e mercato; un mercato controllato dai lavoratori non è comunismo, tantomeno si può definire capitalismo. Grazie all’interpretazione del capitalismo fatta da Tucker sulla base dei quattro regimi di proprietà, possiamo definire capitalismo e socialismo ed evitare le confusioni dell’attuale dibattito sull’economia. Se vogliamo vivere in una società basata sul principio “Da ognuno secondo le sue possibilità e ad ognuno secondo i suoi bisogni”, dobbiamo prima chiederci come sarà regolata la proprietà in tale società. I fondamenti del comunismo sono poco chiari; si limitano a distinguere tra proprietà privata e proprietà personale, il che non spiega molto. Occorre una discussione per capire come sarà la società comunista.