Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 3 agosto 2019 con il titolo “Economic Calculation,” “Strong Property Rights,” and Other Lies Koch-Funded Libertarian Commentators Told Me. Traduzione di Enrico Sanna.
Secondo un cliché diffuso tra i conservatori e i libertari di destra, un “solido diritto di proprietà” è una spinta alla creazione di ricchezza ed è indispensabile al progresso. Strettamente associata a ciò è la critica fatta da Ludwig von Mises al modello di socialismo di mercato creato da Oskar Lange, giudicato irrazionale da Mises perché i prezzi, non essendo determinati sul mercato, sono arbitrari e non convogliano le informazioni necessarie a fare economia.
Se prendiamo questo secondo punto, la critica di Mises è una tautologia. Praticamente non esiste sistema economico in cui i fattori di base siano impostati da un meccanismo basato sul mercato. Il mercato presuppone, come meta-principio logicamente antecedente il mercato stesso, la scelta di un particolare insieme di norme di proprietà tra le tante possibili. Il prezzo di equilibrio, raggiunto in virtù della legge della domanda e dell’offerta, può avvenire solo all’interno di una predefinita ripartizione della proprietà e secondo regole predefinite.
E anche se fosse teoricamente possibile stabilire norme sulla proprietà dei fattori di produzione basandosi interamente sul mercato, il capitalismo di questi ultimi cinquecento anni sarebbe l’ultimo esempio da seguire. Sotto il capitalismo reale, terra e risorse naturali sono artificialmente poco costose per gli assegnatari e gli eredi di chi se ne è appropriato, e artificialmente scarse e care per chi deve pagarne l’uso agli usurpatori. La proprietà intellettuale rende artificialmente care tecnologia e informazione. Il risultato è che il capitalismo opera in un ambiente dominato da un enorme caos computativo, con incentivi continuamente distorti da scarsità e abbondanza artificiali.
Dato un diverso regime di diritti di proprietà (uno che prevede la gestione comune dell’informazione, la terra e le risorse, ad esempio), i risultanti prezzi di equilibrio sarebbero molto diversi da quelli attuali. E molto diverse sarebbero anche le parti a cui andrebbero i rientri economici, e pertanto anche gli incentivi. In qualunque regime, le regole che stabiliscono la ripartizione della proprietà e le regole d’uso di tale proprietà sono il risultato di scelte sociali o politiche a priori, precedenti il mercato, e i prezzi di mercato dipendono da quelle regole.
Quanto all’affermazione secondo cui “una forte proprietà privata” è necessaria alla creazione di ricchezza e progresso, è un cliché imbolsito che potrebbe apparire nelle rubriche di John Stossel o Thomas Sowell… o Ira Stoll (“Are Billionaires Immoral? Democrats Are Staking Out Aggressive Anti-Wealth Platforms Ahead of 2020,” Reason, 28 gennaio). Qui troviamo, oltre al solito inno alle meraviglie generate dalla “proprietà privata”, anche tutto l’armamentario retorico del caso, come: “ma allora i ricchi direbbero ‘perché dovremmo lavorare duramente?’” O la solita citazione della Thatcher riguardo “i soldi degli altri”. O anche (dio ce ne scampi): “qual è il valore creato dall’imprenditore per la clientela, gli azionisti e la società con il suo duro lavoro, il genio e l’assunzione del rischio in quanto imprenditore?”
A proposito della dipendenza del capitalismo dall’abbondanza artificiale di terre e risorse rubate, abbiamo già visto che il problema, come direbbe qualche buontempone, è che con il capitalismo “prima o poi finiscono i beni comuni da appropriare.” E che, come vedremo più giù, è il capitalismo miliardario che dipende dai “soldi degli altri” e “penalizza il lavoro duro”.
Dire genericamente che una “forte proprietà privata” è un bene in sé è un’idiozia. Se una “forte proprietà privata” facilita o impedisce il progresso economico dipende da come è stata pensata e messa in pratica e da chi possiede questa proprietà privata. Abbiamo già visto a proposito della questione del calcolo economico che non esiste un prospetto chiaro, neutro, immacolato dei “diritti di proprietà” nato spontaneamente dal “libero mercato” in assenza di regole predeterminate socialmente. I diritti di proprietà possono assumere molti assetti, con effetti che variano da caso a caso. Certi assetti portano al progresso economico, mentre altri lo rallentano o lo impediscono. L’assetto ottimale è oggetto di studi da parte di un intero settore delle scienze economiche istituzionali, il cui principale rappresentante è forse Oliver Williamson.
I diritti di proprietà facilitano il progresso se sono ideati correttamente e se sono attribuiti alle parti che creano il grosso del valore, e/o le cui prestazioni contrattuali sono difficilissime da verificare e controllare ai termini di un contratto incompleto.
Se sono ideati male, al contrario, deviano risorse verso costosi controlli gestionali, apparati repressivi a protezione del capitale, rendita economica e produzione di rifiuti. Mal concepiti diritti di proprietà beneficiano il proprietario a spese dei veri produttori, e scoraggiano la produttività di questi ultimi. La rendita economica, ovvero un rientro superiore al necessario in cambio della messa sul mercato dei servizi, per definizione non favorisce la crescita produttiva.
Come nota Thomas Hodgskin, la proprietà assenteista dà al proprietario la possibilità di speculare mantenendo inutilizzate terre che potrebbero essere utilizzate produttivamente, a meno che la produzione non sia sufficiente a mantenere il proprietario redditiere oltre a beneficiare i consumatori e i reali produttori.
Quando il proprietario di un’azienda è assenteista (o è rappresentato, di fatto, da una dirigenza autoreferenziale che ha tutto l’interesse a dare fondo alla capacità produttiva così da gonfiare i guadagni nel breve termine e giustificare i propri compensi stratosferici), e non chi per capacità, conoscenze e relazioni sociali è la fonte principale del valore aggiunto, il risultato è che il lavoratore non va oltre il minimo indispensabile. Con un contratto incompleto, non c’è incentivo a fare di più.
Il risultato della proprietà assenteista è un aumento enorme dei costi generali di supervisione, per via degli incentivi perversi che comporta l’esproprio dei guadagni di produttività, e una forte disincentivazione del creatore diretto di valore che possiede le conoscenze necessarie ad accrescere la produttività e la cui performance è molto difficilmente monitorabile.
A ciò si aggiunge il fatto che il possessore di diritti di proprietà artificiali, al fine di mantenere la rendita e accumulare ricchezza, è costretto a deviare una grossa porzione della produzione economica verso tutte quelle operazioni che proteggono il capitale. E ciò porta, tra le altre cose, a crisi da risparmio eccessivo e sottoconsumo: enormi riserve di risparmi si accumulano senza uno sbocco profittevole perché la domanda non basta neanche ad assorbire la capacità produttiva esistente.
Tutte queste cose messe assieme spiegano perché cose come la rendita e la proprietà intellettuale prosciugano la produttività sociale. L’alternativa più razionale sarebbe un’azienda di proprietà delle parti interessate riunite in cooperativa, nonché la proprietà comune, ovvero dei consumatori, delle risorse.
Quanto all’idea secondo cui “una forte proprietà privata”, a prescindere, porta a una qualunque cosa chiamata “crescita economica”… bè, è tautologia. Se osserviamo la realtà dal punto di vista del prodotto interno lordo e delle norme di bilancio aziendale di Donaldson Brown, cose come rendita economica, produzione di rifiuti e spese per la salvaguardia del capitale sono per definizione“crescita economica” perché si sommano al valore totale dei beni e dei servizi prodotti; anche se Bastiat direbbe che sono solo “finestre rotte”. Secondo le teorie sulla produttività marginale elaborate da J.B. Clark, qualunque “fattore” che contribuisca al prezzo finale di un bene o servizio ha una “produttività marginale” pari alla sua incidenza sul suddetto prezzo finale. Più proprietà sociale viene ingabbiata al fine della rendita privata, più attività sociali sono forzate entro il nesso di cassa, più persone sono costrette a passare dalla produzione per l’uso al lavoro salariato, e più, per definizione, cresce il prodotto interno lordo.
Restando in argomento, prendiamo ad esempio il refrain politico (che si riduce ad un grafico di Max Roser), molto popolare tra i libertari di destra, che dimostrerebbe come il capitalismo abbia fatto uscire miliardi di persone dalla “povertà assoluta”. Dati i parametri del prodotto interno lordo, è impossibile distinguere l’incremento del pil in quanto tale dall’incremento della quota totale delle attività non-monetizzate preesistenti, attività che sono state monetizzate dall’appropriazione delle terre e dal fatto che il lavoro di sussistenza è stato spinto verso il lavoro salariato e il nesso di cassa. Jason Hickel sul Guardian spiega così la questione:
In realtà, ciò che i numeri di Roser rivelano è che siamo passati da una situazione in cui gran parte dell’umanità non aveva alcun bisogno di denaro ad una in cui gran parte dell’umanità lotta per sopravvivere con pochissimi soldi. Secondo il grafico, si tratta di una diminuzione della povertà. In effetti, ciò che è accaduto è che, tramite un processo di espropriazione, le popolazioni sono state costrette ad entrare nel sistema del lavoro capitalista, e questo è avvenuto in Europa con le enclosures e nel sud del mondo con la colonizzazione.
Prima della colonizzazione, gran parte della popolazione viveva grazie ad un’economia di sussistenza, poteva accedere all’abbondanza di beni comuni, come terre, acqua, foreste, bestiame e tutto un forte sistema basato sulla condivisione e la reciprocità. Il denaro, quando c’era, era raro, ma dopotutto non se ne aveva bisogno per vivere egregiamente, quindi ha poco senso dire che la popolazione era povera. Questo stile di vita fu violentemente distrutto dai colonizzatori, che scacciarono le popolazioni dalle loro terre per costringerle a lavorare nelle miniere, nelle fabbriche e nelle piantagioni di proprietà di occidentali, dove ricevevano una miseria per fare un lavoro che non avrebbero mai voluto fare.
Se il grafico di Roser illustra qualcosa, è una storia di proletarizzazione forzata.
In breve, quella che oggi passa per apologia neoliberale non è che un insieme di storielle intellettualmente sciatte.