[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society l’otto dicembre 2016 con il titolo Native Land: The Expropriation Continues. Traduzione di Enrico Sanna.]
La percentuale di territorio che resta agli indiani, dopo secoli di ruberie e genocidi, è attualmente il 2% circa del territorio americano formato da riserve. Adesso la ciurma di Trump vuole “privatizzarlo”, il che significa razziarlo (Valerie Volvovici, “Trump Advisors Want to Privatize Oil-Rich Indian Reservations,” Reuters). Il fatto che in questo 2% ci sia un quinto delle riserve petrolifere americane è una pura coincidenza, ne sono sicuro.
La proprietà legale del territorio non è degli indiani ma dell’Ufficio per gli Affari Indiani (BIA). In teoria, questo ufficio rappresenta le tribù che collettivamente possiedono la terra, e lascia che siano i loro membri a suddividerla tra loro secondo le decisioni dei governi tribali. Più o meno come una licenza Creative Commons, che usa il copyright per riprodurre la situazione che esisterebbe se le leggi sul copyright non esistessero affatto. Più o meno. Immagino.
Ma se Trump e i suoi sgherri l’hanno vinta, saranno loro ad agire come se fossero i veri proprietari delle terre, e potrebbero disporne liberamente senza il consenso di quelle stesse persone che hanno teoricamente delegato allo stato la custodia del territorio.
La proposta privatizzazione trasformerebbe gli attuali diritti tribali sulle terre, esercitati (in maniera deludente, come minimo) tramite l’altamente inaffidabile interposizione del BIA, in diritti di proprietà individuale, facilitando così il compito degli interessi gas-petroliferi che si troverebbero a trattare con nuovi proprietari privati.
Questo, senza se e senza ma, è moralmente repellente. Il BIA non ha alcuna ragione morale per convertire i diritti di proprietà. Gli indiani sono i proprietari di diritto di queste terre, che a loro sono state garantite con un trattato. E questo loro diritto di proprietà è regolato dalle norme consuetudinarie che regolavano il possesso e il trasferimento di proprietà prima della conquista, più quelle eventuali modifiche approvate da loro tramite i loro governi autonomi. Il governo degli Stati Uniti e il BIA non possono assolutamente dettare queste norme. Se il territorio deve passare dallo stato di proprietà comune in concessione individuale a quello di proprietà assoluta, spetta agli indiani deciderlo, e questi agiranno tramite i loro governi autonomi.
Ciò a cui mirano Trump & Co. non è che l’ultimo esempio, tra le migliaia nel corso della storia, di come lo stato abroga i diritti e le norme consuetudinarie che regolano la proprietà terriera per imporre la proprietà assoluta, o la collettivizzazione forzata, al suo posto. Fin dal neolitico, tra le popolazioni che vivevano di agricoltura vigeva quasi esclusivamente il sistema dei campi aperti in tutte le sue varianti. Similmente, tra le popolazioni nomadi o seminomadi prevaleva il diritto collettivo con aree di caccia delimitate tradizionalmente. La proprietà assoluta era rara tranne laddove veniva imposta dallo stato al posto dei precedenti accordi spontanei.
Nell’Inghilterra del XVII secolo, il parlamento della Restaurazione trasformò la proprietà terriera, fortemente limitata da restrizioni consuetudinarie e dal diritto di possesso che avevano i contadini, in proprietà privata nel senso moderno del termine, con la conseguente possibilità di esigere un affitto e sfrattare i contadini, che ora erano considerati locatari a tempo indeterminato. In Bengala, l’Insediamento Permanente di Hastings (teoricamente un rilevamento geografico ai fini fiscali) operò una simile trasformazione delle norme tradizionali sulle proprietà comuni.
In Russia, prima Stolypin durante il regime zarista e poi i bolscevichi, con un uno-due, distrussero i diritti tradizionali del villaggio Mir per dividere la proprietà delle terre comuni tra le singole famiglie. Stolypin indusse le famiglie a ritagliarsi una proprietà individuale, separata permanentemente dalle terre comuni e trasformata in un bene alienabile. Se qualche “libertario” approva, deve sapere che è come se lo stato autorizzasse un azionista di una società a prendere un tanto di macchinari equivalente al valore delle sue azioni senza il permesso delle autorità aziendali. Ai fini legali, i beni fisici di una società sono proprietà collettiva della società stessa, non di un azionista e neanche della maggioranza. Se un individuo unilateralmente e permanentemente prende a sé una parte dei beni fisici comuni, senza il permesso dei gestori, questa è una violazione dei diritti di proprietà. I bolscevichi ignorarono le norme locali sulle restanti terre comuni e le incorporarono nello stato o in fattorie collettive sotto la direzione di manager statali, con i contadini di fatto trasformati in braccianti agricoli salariati.
Ovunque avvenga questa “privatizzazione”, l’intenzione è di trasformare le terre da fonte universale di sostentamento, a cui tutti hanno un determinato diritto di accesso, in proprietà privata nelle mani di pochi, i quali poi impongono tributi a tutti gli altri. Il tutto motivato da spacconate western, come nel caso degli interessi minerari di Rio Tinto che volevano accedere alle terre sacre degli Apache, o degli interessi petroliferi che intendevano fare quel che volevano con le fonti d’acqua potabile e i campi dei morti degli Sioux.
Quasi quattrocento anni fa, un gruppo di contadini autodefiniti Diggers (Zappatori) strappò le recinzioni dei latifondi e cominciò a coltivare la terra in comune. In risposta arrivarono le autorità per “abbattere le casupole e bruciare il grano”, come dice la canzone. Oggi, quattrocento anni dopo, la storia si ripete a Standing Rock.
Qualunque sia la scusa, la natura dello stato è il furto. È questo che dobbiamo combattere.