Contro il nazionalismo etnico e lo stato etnico:
Con particolare riferimento al conflitto israelo-palestinese
Di Kevin Carson
Originale: Landback, pubblicato il 12 marzo 2025. Traduzione di Enrico Sanna
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Introduzione
Punto centrale di questo saggio, una tesi che sarà ribadita in tutto il testo, è la natura problematica dello stato nazione, in particolare di uno stato o di una politica che ruota attorno ad una realtà etnica ufficiale. L’ideologia che pone il nazionalismo etnico alla base dello stato nazione è una creazione europea relativamente recente.
Prima dell’affermazione del moderno stato nazione, l’entità statuale era solitamente un impero e/o un potere dinastico, con comunità di lingua o etnia diversa che vivevano nello stesso territorio con rapporti regolari. Questo vale per gli stati precoloniali dell’Africa e altrove nel sud del mondo. Secondo Mahmood Mamdani…
Ci sono studiosi della realtà africana che lamentano spesso l’artificialità dei confini tracciati dalle potenze coloniali; confini artificiali, che tagliano comunità culturali. Questa critica rafforza la visione coloniale moderna secondo cui le divisioni tra gruppi etnici, rappresentati territorialmente dalle tribù, fossero in qualche modo naturali. Ma prima del colonialismo non necessariamente esistevano le nazioni etniche che questi studiosi vorrebbero riportare in vita. Le comunità etniche sono opera di colonizzatori che hanno diviso territorialmente popolazioni secondo linee culturali assoggettandole a sistemi giuridici detti consuetudinari. Le forme di governo tribali che gli attivisti vorrebbero proteggere riflettono questa politicizzazione dell’identità culturale.1
Questo stato delle cose in molti posti rimase a lungo dopo la nascita degli stati nazione dell’Europa occidentale: una mappa linguistica dell’Europa Orientale dell’Ottocento è un arcipelago di isole etniche, con comunità di lingua germanica, magiara e slava nell’impero Austro-ungarico e di lingua germanica del Volga, del Mar Nero e altro nell’impero Russo.
Neanche la forma statale, nazionale, imperiale o dinastica, era predestinata. Avrebbe potuto nascere un “complesso transnazionale politico-commerciale attorno ad una o più città” (come la Lega anseatica).2
I primi stati nazionali, o etnici, dell’Europa moderna aderivano ad un’ideologia ufficiale basata su un’identità nazionale costruita ad arte. Gli stati nazionali, scrive Etienne Balabar, “colgono la propria realtà politica in una unità ‘etnica’ o ‘popolare’ (situata nel passato e nelle profondità della società ‘civile’).3 …”
Nonostante le sue pretese organiche, la “nazionalità” è oggi perlopiù un costrutto, nel senso che le vere identità etniche e culturali di gran parte della popolazione vengono cancellate. Ogni “nazione” creata artificialmente richiede la soppressione di un certo numero di gruppi etnici. L’identità nazionale “francese”, creata attorno alla langue d’oeil, un dialetto dell’Île de France, ha significato la soppressione delle identità culturali di parlanti provenzali e di altri dialetti occitani, dei bretoni e di quasi tutti gli altri dialetti fuori dai dintorni della capitale. L’identità nazionale “spagnola”, o castigliana, ha similmente comportato la cancellazione delle identità di aragonesi, catalani, leonesi, galiziani e baschi. Lungi dal rafforzare la maggioranza di un dato territorio, etnonazionalismo e “autodeterminazione nazionale” sono strumenti che servono all’assimilazione violenta della maggioranza ad opera di una minoranza.
Per capire quanto siano arbitrarie le attuali identità “nazionali”, prendiamo la Francia, che molti ritengono un’entità naturale, e pensiamo quali altre identità avrebbe potuto avere se, poniamo, la Guerra dei Cent’anni avesse avuto un esito diverso. Nei confini dell’attuale “Francia” avrebbe potuto esserci un regno plantageneto unito all’Inghilterra, uno stato borgognone a nordest accluso al Belgio e Lussemburgo, e uno stato occitano a sud, possibilmente unito all’Aragona e alla Catalogna.
Pensiamo all’arbitrarietà dell’identità nazionale “russa”. Durante il tardo medioevo, i mongoli si ritirarono dalle zone a nord del Mar Nero e ad ovest del Volga, lasciandosi dietro un arcipelago di dialetti di ceppo slavo orientale antico perlopiù simili, dai confini parzialmente sovrapposti e più o meno reciprocamente comprensibili. Immaginando una diversa unione dei principati (sempre che questi si fossero uniti), la lingua ufficiale oggi avrebbe potuto essere il dialetto di Novgorod o di Smolensk. Se la Rus di Kiev non fosse stata distrutta dai mongoli, oggi Mosca avrebbe potuto essere una città sul confine orientale in cerca di autonomia dalla “Russia”. E agli studenti di oggi verrebbe insegnato che quella Russia è un’entità naturale, solida, con una sua storia coerente e un destino manifesto.
Come spiega Nandita Sharma, l’idea stessa di uno stato nazionale comporta la conversione di una grossa parte della popolazione in un Altro.
La territorializzazione nazionale trasforma la terra, l’acqua e l’aria di un dato territorio in uno stato nazionale sovrano e allo stesso tempo crea un legame naturalizzato tra persone di un certo gruppo che vivono in una certa regione. Ogni nazione immagina di avere diritto al proprio posto sulla terra, così gli appartenenti ad una data nazione considerano se stessi “il popolo di quella terra”. … Chiunque viva fuori da quel porto sicuro rappresentato dalla propria terra è considerato corpo estraneo, un contaminante della politica nazionale.4
Con “l’autoctonia”, che “limita lo status di nazione alle popolazioni native, la tendenza si rafforza.”
…[L]’idea di sovranità nazionale contiene il concetto secondo cui nazionale è solo chi può far risalire le proprie origini a quel dato territorio. Limitando il diritto a una sovranità, un territorio e determinati diritti alle popolazioni native, l’autoctonia finisce per creare confini, veri e propri muri, molto più invalicabili di quelli tra nazioni diverse o con i migranti.5
La nascita di una nazione è un processo violento. “Divisioni ed espulsioni da territori nazionalizzati con ‘trasferimenti di popolazioni’, esclusioni sociali e legali rientrano nel gioco.”6 Un esempio è la divisione dei territori un tempo appartenenti al decrepito impero asburgico dopo la Prima Guerra Mondiale, ma anche l’espulsione delle popolazioni di origine greca dalla costa anatolica ad opera di nazionalisti turchi. Le stesse tendenze le abbiamo viste in opera durante le guerre balcaniche, dopo il collasso dell’ex Yugoslavia. “In ogni territorio della nazione, le persone oggetto di ‘pulizia etnica’ venivano accusate di essere immigrati, elementi stranieri nella casa nazionale altrui. 140 mila persone furono uccise e due milioni diventarono profughi.”7
Nazionalismo e stato nazione hanno origine nella moderna Europa, ma l’ideologia nazionalista divenne un’arma europea al fine di rifare il mondo coloniale. È dal 1945 che corrompe e sabota i tanti tentativi di creare forme di autogoverno nei nuovi stati indipendenti. L’unica soluzione rimasta passa per l’eliminazione del principio nazionalista stesso: spezzare il legame tra etnia e gestione del territorio.
Un bianco occidentale ovviamente dovrebbe trattare con molta cautela le questioni riguardanti i paesi ex coloniali del sud del mondo. Per principio, gli anarchici sono contrari all’idea dei diritti esclusivi di vasti territori sulla base dell’identità etnica. Nota il compagno William Gillis, del Center for a Stateless Society, che l’idea stessa di anarchismo indigeno, di una sovranità imposta in un dato territorio, “attira molti sospetti e molte ire da parte di chi è contro i nazionalismi”, come lui stesso.
Sia lui che il compagno Emmi Bevensee, però, concordano sulla necessità di andare molto cauti quando si parla di argomenti fuori dalla propria esperienza. Scrive Gillis che “quando si attaccano i nazionalismi occorre cercare di vedere le sfumature, occorre saper fare distinzione, bisogna sapere come comportarsi davanti a espressioni come “nazionalismo indigeno” e sapere quali concetti sono più degni di critica…”
Non sto invitando gli anarchici occidentali ad interferire con gli attivisti indigeni, come fanno certi antropologi colonialisti che col sorrisetto sulle labbra offrono consigli dall’alto sulla base di percezioni immediate. Chi è alieno a tradizioni, culture o teorie dovrebbe in linea generale seguire gli anarchici che stanno dentro a queste cose. Acquisire una conoscenza approfondita di un determinato ambito al fine di farne una critica dettagliata invece di sprecare tempo non è facile…
Ovviamente, ci sono differenze significative tra i vari “nazionalismi indigeni”, i “nazionalismi del sud del mondo” e i vari nazionalismi coloniali insediativi dell’Occidente, a cui si aggiunge la possibilità di importanti suddivisioni, distinzioni e aggiunte. Pragmatismo e spirito tattico sono d’obbligo. Certo un anarchico non può non ribadire i propri valori, ma c’è un momento in cui si collabora e uno in cui è meglio non dire nulla…8
E nonostante il nesso storico tra il nazionalismo indigeno, con il suo divide et impera imperialistico, e le prime ideologie etnonazionaliste europee, le differenze con il nazionalismo indigeno, come nota Bevensee, “sono abbastanza forti da giustificare molta più cautela di quanto non si faccia…9 Le popolazioni indigene e colonizzate potrebbero essere costrette ad utilizzare il linguaggio del nazionalismo e della sovranità.
Anche quando i radicali indigeni, o del sud del mondo, sono costretti a giocare il gioco del nazionalismo insediativo, dobbiamo tener conto dei differenziali di potere in gioco. In molti casi sono costretti a scegliere tra il genocidio, culturale o reale, e una strategia coloniale.10
E nonostante una più decisa ostilità verso il nazionalismo, anche Gillis perlopiù concorda:
Oggi è diffusa tra gli attivisti indigeni la tendenza ad usare il “nazionalismo” come spazio d’identità. L’adozione conscia di questo termine occidentale intende sottolineare un’uguaglianza che gli occidentali, usando termini come “tribù”, non riconoscono. Il nazionalismo offre un linguaggio, una struttura che può essere fatta propria e ridefinita. Ma molti ci vedono un’imposizione.11
Ciononostante, il nazionalismo rappresenta una gabbia concettuale nella misura in cui “comprime l’ampia diversità di pensiero che io vedo nei miei amici e compagni indigeni.”12 Peggio ancora, il nazionalismo impone una visione essenzialista, orientalista, imposta dai colonizzatori alle popolazioni indigene, e così facendo occulta la ricchezza e la complessità della storia e dell’identità precoloniali. “Le pratiche imperialiste e insediativo-coloniali hanno finito per dar forma ad una soggettività indigena inventata…” La soggettività indigena è stata “privata di fluidità e vitalità”. “C’è il tentativo di radicare una definizione di soggettività indigena fittizia, immobile, rigida come un cadavere”.13
Sia il progetto coloniale di imposizione di identità essenzialiste finalizzato a dividere e governare o a semplificare e rendere leggibile,14 che la successiva adozione da parte dei colonizzati di queste stesse identità per autodifesa, finiscono per oscurare la sfumature di una storia fatta di mescolanze, diffusione di culture e cosmopolitismo tra i popoli. Un esempio:
Nel tentativo di non sovraccaricare il proprio ambiente naturale, le popolazioni indiane delle Grandi Pianure cercarono di superare i micronazionalismi tribali convergendo in grandi unioni cosmopolite. Questo tentativo di andare oltre i nazionalismi è molto interessante. Molte erano le società problematiche e imperialistiche del continente americano prima del genocidio ad opera dei bianchi, ma molti erano anche i propositi di liberazione…15
In questo saggio ho ritenuto, al fine di analizzare gli aspetti problematici dei nazionalismi indigeni, di far parlare il più possibile i colonizzati e gli ex colonizzati. È una fortuna che tre di loro, Edward Said, Nandita Sharma e Mahmood Mamdani, siano tra i migliori studiosi del settore. È su di loro che mi sono basato per scrivere questo saggio.
Parte I. Etnonazionalismo Coloniale e Postcoloniale
Orientalismo e governo indiretto nel mondo coloniale
Gli imperi europei, soprattutto a partire dalla metà dell’Ottocento (vedi la politica imperialista britannica in India dopo la rivolta del 1857, e in Africa dopo la sconfitta di al-Mahdiyyah nel 1898), erano caratterizzati dalla tendenza orientalistica a semplificare la cultura etnica connessa ad un dato territorio, espressa dalla “idea secondo la quale esiste una relazione tra un certo gruppo e un dato luogo.”16
Io qui uso il termine “orientalista” nel senso datogli da Edward Said. Said definisce orientalismo il tentativo “realistico radicale” (nel senso scolastico) di interpretare popoli e culture del mondo coloniale: “designano, nominano, indicano, fissano una cosa con una parola o un’espressione, e danno ciò per acquisito, o più semplicemente dicono che quella è la realtà.”17 Said caratterizza questo approccio con l’aggettivo “testualista”.
È evidentemente un difetto dell’uomo preferire l’autorità schematica di un testo al disorientamento prodotto dall’incontro diretto con l’umano…
…Molti dopo un viaggio in terre lontane dicono che non sono come le immaginavano, intendendo dire che non corrispondono alla descrizione fatta nei libri. E d’altro canto molti autori scrivono libri o guide turistiche per dire che un certo paese è colorito, prezioso, interessante e via dicendo. L’idea alla base è che popoli, luoghi, esperienze possano sempre essere descritte a parole, tanto che il libro (il testo) acquisisce più autorità r credibilità della realtà che descrive.18
Le reali identità tribali ed etniche, le affiliazioni settarie, le istituzioni tradizionali come lo zamindar e tanto altro, che le autorità coloniali assolutizzano, cristallizzano, sono tutt’altro che assolute e ben definite nella realtà, dove trovano espressione in forma molto più sfumata, ambigua e personale; nella realtà appaiono molto più confuse rispetto alle categorie essenzialiste proprie del pensiero orientalista. In quest’ultimo, ogni persona, gruppo sociale o istituzione è incasellato in uno schema.
…L’orientalismo si è sostituito all’Oriente. In quanto sistema di pensiero sull’Oriente, nasce dal dettaglio specificamente umano per assurgere al generale al di là dei singoli; un’osservazione su un poeta arabo del decimo secolo viene moltiplicata fino a farla diventare atteggiamento politico nei confronti di (e riguardo) la mentalità orientalista in Egitto, Iraq o Arabia. Un versetto del Corano diventa la prova di un’inestinguibile sensualità dei musulmani. L’orientalismo presuppone un Oriente immutabile, assolutamente altro (i dettagli variano secondo le epoche) rispetto all’Occidente. Dopo il diciottesimo secolo, l’orientalismo assume una forma immutabile.19
…Gli orientalisti… vedevano nell’Islam, ad esempio, una “sintesi culturale”… da studiare separatamente dall’economia, la sociologia e la politica delle popolazioni islamiche. Nella sua forma più succinta, l’Islam degli orientalisti lo troviamo nel primo trattato di Renan, secondo il quale per averne una conoscenza precisa occorre ridurlo a “tenda e tribù”. L’impatto del colonialismo, dei fatti mondiali, degli sviluppi storici: tutto ciò per gli orientalisti era un pugno di mosche moleste, da schiacciare (o ignorare) per divertimento, ma mai da prendere sul serio per paura di complicare l’islam essenziale.20
…Se l’Islam è difettoso dalla nascita a causa dei suoi difetti permanenti, ecco che gli orientasti si oppongono a qualunque tentativo di riformarlo perché, a dir loro, riforma equivale a tradimento…21
Dunque per gli orientalisti la tassonomia diventa un insieme di categorie riduttive più reali degli individui che compongono la realtà. Tribù, clan, lingua, sette religiose, tutto viene essenzializzato in categorie eterne, nel rapporto tra Occidente e Oriente nessuna politica è permessa, non è permesso ammettere che gli individui si rapportano tra loro personalmente per risolvere questioni ordinarie come si fa altrove: le categorie ne verrebbero stravolte, o confuse.
In pratica, se le popolazioni orientali lottano contro l’occupazione coloniale bisogna dire… che a differenza di “noialtri” sono incapaci di capire cosa significa autogoverno. Quando vediamo alcuni che sono contro la discriminazione razziale mentre altri la praticano, bisogna dire che “in fondo, sono tutti orientali”, che per loro gli interessi di classe, le circostanze politiche e i fattori economici sono privi d’importanza. Oppure, come fa Bernard Lewis, quando gli arabo-palestinesi lottano contro gli insediamenti e l’occupazione delle loro terre ad opera di Israele, bisogna dire che è semplicemente “l’Islam che ritorna”, o, come dice una famoso orientalista contemporaneo, gli islamici odiano chi non è islamico secondo un principio sancito dall’Islam nel settimo secolo. Storia, politica ed economia non hanno importanza. L’Islam è Islam, l’Oriente è Oriente, prendetevi i vostri concetti di destra e sinistra, rivoluzione e cambiamento e portateli a Disneyland22
Gli orientalisti “vedono l’umanità o in termini di grandi collettività o come generalità astratte. Non vogliono, non sanno, vedere l’individuo: sono dominati dalle entità artificiali.”23 Praticano una “tipizzazione di fondo”:
All’interno di ampie tipizzazioni semipopolari come “orientale” trovavano posto distinzioni scientificamente più valide; che perlopiù prendevano come base principale le lingue (semitiche, dravidiche, camitiche), ma che trovavano subito sostegno in ambito antropologico, psicologico, biologico e culturale. Per Renan, ad esempio, il “semitico”era una generalizzazione linguistica che nelle sue mani conteneva ogni genere di concetto parallelo dall’anatomia alla storia all’antropologia e perfino alla geologia. Il termine “semitico” quindi non solo poteva essere impiegato per descrivere e indicare, ma poteva anche essere applicato a qualunque insieme di eventi storici e politici al fine di ridurli ad un nucleo ad essi precedente e inerente. “Semitico” diveniva così una categoria transtemporale e transindividuale capace di predire qualunque reale comportamento “semitico” sulla base di una qualche preesistente essenza “semitica”, e intendeva inoltre interpretare tutti gli aspetti della vita e dell’agire alla luce di qualche elemento “semitico” comune.24
Rielaborando il concetto, Anouar Abdel Malek spiega che l’orientalismo “considera l’Oriente e gli orientali un ‘oggetto’ di studio bollato col marchio dell’alterità…” Si ha “un concetto essenzialista dei paesi, delle nazioni e dei popoli orientali studiati, concetto che si esprime attraverso una tipologia etnicista connotata…”25 Malek cita come esempio lo studioso orientalista Louis Massignon, il quale vede “alla base del conflitto arabo l’odio fratricida tra Israele e Ismaele.”26
Gli orientalisti studiano il passato guardando esclusivamente ai “suoi aspetti culturali, soprattutto la lingua e la religione, a prescindere dall’evoluzione della società.”27
“Tribù” e “istituzioni tradizionali”, così come le vedevano i colonialisti europei, erano costrutti quasi interamente artificiali imposti alle popolazioni dominate. La realtà etnica presso le popolazioni precoloniali non era affatto quella categoria totalizzante che poi diventò con le autorità coloniali. “Le popolazioni colonizzate,” nota Mamdani “non avevano un concetto di soggettività [definirsi membri di una nazione] prima che gli europei gliene imponessero una.” Questa soggettività fu imposta loro esattamente come “era stata imposta agli europei, perlomeno agli albori dello stato nazione. I castigliani dovettero imporre la nazione perché fosse pensabile. In seguito gli europei, immersi in questa idea di nazione, non sarebbero più riusciti a liberarsene.”28
Prima del colonialismo c’era la tribù? Se per tribù intendiamo un gruppo etnico con una lingua comune, sì. La tribù come entità amministrativa, che distingue tra nativi e non nativi, che discrimina sistematicamente i secondi a favore dei primi, che regola l’accesso alla terra e la partecipazione al governo locale e impone le regole per la risoluzione delle controversie, certamente prima del colonialismo non esisteva. Ci si potrebbe chiedere: prima del razzismo esistevano le razze? Nel senso di un colore della pelle diverso o di un fenotipo diverso, sì. Come fulcro della discriminazione dei gruppi umani sulla base delle differenze di “razza”, no. Gran parte degli studiosi oggi concorda nel dire che, mentre le razze non esistono, esiste però il razzismo in quanto sistema di discriminazione legale o sociale basato sulla convinzione o sulla percezione che le razze esistano. Così come la razza, anche la tribù è diventata una forma di identità singola, esclusiva e totalizzante solo con il colonialismo. La tribù era soprattutto un’identità politica, moderna e totalizzante.29
Prima della nascita del colonialismo nel sud del mondo, così come prima della nascita del nazionalismo in Europa, le comunità di cui le popolazioni immaginavano di far parte erano basate su costrutti che ruotavano attorno a identità religiose o regni dinastici.30 Scrive Benedict Anderson:
Ciò che contraddistingue una comunità non è la sua genuinità o meno, ma il modo in cui si immagina. Gli abitanti dei villaggi di Giava narrano di legami con persone che non hanno mai visto, legami visti in maniera particolaristica, come reti di parentele e dipendenze estensibili a volontà.31
Come dicevo, gli imperi europei a partire dalla metà dell’Ottocento applicarono sempre più una politica di governo indiretto basata su identità etniche o tribali essenzialiste e perlopiù inventate, e su autorità native “consuetudinarie” imposte alle popolazioni governate dai poteri coloniali. Questa politica si basava fortemente sul concetto orientalista di identità etnica e di società tradizionale.
Questa idea necessitava la rimozione conscia o inconscia di ogni traccia di complessità o di cosmopolitismo, nonché di quelle società politiche più ampie che non si basavano su identità tribali particolari che non fossero il prodotto di un’influenza esterna. Gli storici ottocenteschi (Mamdani cita il nigeriano Yusuf Bala Usman) partivano dall’assunto che “le unità di base della società e della storia fossero le razze, le nazioni e le tribù.”32
Se qualcuno avesse dimostrato che i popoli vivevano in comunità multietniche, non ci sarebbe stata più una ragione per mantenere la visione pregiudiziale secondo cui la loro esistenza, sociale, politica e culturale, si basava unicamente sulla parentela.33
Se c’è una persona che legò l’approccio storico orientalista alle politiche europee del governo coloniale indiretto, questo è Henry Sumner Maine. Per lui, popolazioni “native” e identità “tribali” erano statiche, astoriche.
Maine cercava di conciliare storia e agire dei popoli colonizzati con il tentativo di ripensare e ricostituire il progetto coloniale su una base solida. Partendo da una teoria della storia e del diritto, arrivava alla distinzione tra Occidente e non Occidente, tra civiltà universale e usanze locali. Questo comportava la distinzione tra coloni e nativi, il che a sua volta forniva elementi per una teoria del nativismo: il colono è moderno, il nativo no; il colono è definito storicamente, il nativo geograficamente; la società moderna era definita da leggi e sanzioni mentre quella nativa dall’osservanza abitudinaria. Il progresso continuo caratterizzava la civiltà dei coloni, mentre la cultura nativa era vista come parte della natura, fissa e immutabile.34
Per definizione, i nativi di una “società primitiva”, se non gli veniva imposta dall’esterno, non avevano una loro identità fuori dall’ambito tribale. Si trattava in sostanza di un pensiero circolare, che si reggeva sull’esclusione delle eccezioni bollate come non autentiche:
Quanto alle colonie, Maine insisteva sulla purità dei fenomeni, da qui il maggior peso attribuito alle popolazioni isolate e incontaminate dell’interno rispetto a quelle cosmopolite, e dunque contaminate, della costa indiana… Questi intellettuali avevano costruito una lettura binaria di ciò che era occidentale e ciò che non lo era, una lettura basata più sul concetto che sull’osservazione, al punto che l’osservazione veniva interpretata in maniera opposta: gli sviluppi attribuiti in Occidente all’urbanizzazione, al cosmopolitismo e al progresso, nel non Occidente erano considerati il risultato di un’impurità e di un meticciato.
L’esistenza di stati multietnici al di sopra del clan e della tribù, ma anche delle città cosmopolite, veniva sempre interpretato come un’imposizione su società tribali preesistenti da parte di invasori “camitici”.35
A differenza di ciò che si pensa solitamente, nativo non significa originario e autentico. Il nativo invece, come vediamo in Maine, è una creazione dello stato coloniale: il nativo colonizzato viene inchiodato, bloccato in un luogo, esiliato dalla civiltà, confinato alla consuetudine e definito come prodotto di quest’ultima.36
Questo concetto di identità “nativa”, opera perlopiù di Maine, era alla base dell’amministrazione coloniale.
Da Alfred Lyall in India a Frank Swettenham in Malesia, e poi Theophilus Shepstone nel Natal, Lord Cromer in Egitto, Frederick Lugard in Nigeria e Uganda, Harold MacMichael in Sudan e Donald Cameron in Tanganica, l’amministrazione coloniale imperiale convertiva in politica gli assunti alla base delle teorie di Maine, soprattutto quelle contenute nel suo noto Ancient Law. Il risultato era un modo di governare sostenuto da un insieme di istituzioni: una storiografia razzializzata e tribalizzata, con la divisione tra diritto civile e diritto consuetudinario, a cui si accompagnava un censimento diviso in classi della popolazione nativa, divisa tra gruppi “naturali”.37
Il governo indiretto tramite “autorità native” artificiali nacque in India dopo la rivolta del 1857.
…[L]e riforme del 1862 vararono una serie di codici, “uno per ogni gruppo religioso riconosciuto”. Il processo è stato descritto bene da Scott Alan Kugle: “Questo siglò la divisione tra indù e musulmani, frazionando la comunità musulmana in tante ‘sette’ costituenti, ognuna con leggi sue.” Il periodo dopo il 1857 vide una rottura netta in ambito legale tra l’impero del Mogol e il governo britannico. Il Mogol lasciava che ogni comunità non musulmana fosse libera “di amministrare secondo le proprie leggi e tramite i propri specialisti purché fossero rispettati certi limiti alle pratiche religiose pubbliche e si contribuisse finanziariamente con le tasse.” La grossa differenza con il governo britannico era data dal fatto che “la politica del Mogol non comportò mai un progetto statale finalizzato ad amministrare una data comunità secondo le leggi della comunità stessa.” Se il Mogol, così come gli ottomani, vedeva le comunità come realtà definite storicamente, i britannici invece diedero forma a vere e proprie identità comunitarie.
Negli anni che seguirono, i nativi furono sottoposti a classificazioni e riclassificazioni, secondo le necessità politiche, ma sempre nel nome della differenza culturale e della tolleranza cosmopolita. Dicendo di voler proteggere l’autentico minacciato dal progresso, il potere coloniale definiva e inchiodava i nativi.38
Dall’India, questa pratica si diffuse all’Africa britannica, soprattutto durante la rapida espansione coloniale seguita alla Conferenza di Berlino.
Con la politica del governo indiretto, l’amministrazione dei nativi era prerogative della autorità nativa. Questa amministrazione nativa si presentava come rispettosa della tradizione e della consuetudine, al singolare, pressoché rimaste immutate. Nel governo indiretto, la “consuetudine” era definita, a prescindere dalle varianti locali, da un insieme di norme base, una sorta di sistema di riferimento. Queste norme riguardavano la terra e l’amministrazione. La terra era invariabilmente un insieme di terre natie, ognuna delle quali luogo d’origine di una tribù. Solo chi era ufficialmente riconosciuto come nativo poteva vantare diritti sulle terre tribali. Il risultato era che la partecipazione alla vita pubblica non era più diritto di chi viveva sul territorio, ma diventava diritto esclusivo di quei nativi che ufficialmente appartenevano a quel determinato territorio.39
In termini pratici, questo comportava un intenso processo di conteggio e classificazione dei nuovi soggetti imperiali.
Il censimento divideva la popolazione in raggruppamenti di due generi: la razza e la tribù. Una persona era censita come appartenente ad una razza o ad una tribù. Sulla base di che cosa si definiva l’appartenenza a una razza o a una tribù? In base ad una distinzione non tra colonizzatori e colonizzati, ma tra nativi e non nativi. I non nativi erano etichettati come razze mentre i nativi appartenevano alle tribù. La razza comprendeva tutti quelli classificati ufficialmente come non indigeni dell’Africa, che fossero chiaramente forestieri (europei, asiatici) o dichiarati ufficialmente forestieri (arabi, persone di colore, tutsi). La tribù per contro comprendeva chiunque fosse dichiarato di origine indigena. La divisione tra razze e tribù, più che sottolineare la distinzione tra colonizzatori e colonizzati, distingueva politicamente gli indigeni dai forestieri. Facendo distinzione ufficiale tra razze non indigene e tribù indigene, lo stato teneva conto di una sola caratteristica, l’origine, tralasciando il resto, compresa la residenza. Occultando tutta una storia di migrazioni, lo stato vedeva nel nativo un prodotto della geografia e non della storia.
La distinzione tra razza e tribù aveva inoltre un significato direttamente legale. L’appartenenza ad una razza o tribù stabiliva la legge a cui una persona era soggetta. Tutte le razze erano governate da un’unica legge: il diritto civile. Le tribù per contro erano governate dal diritto consuetudinario. Non è mai esistito un singolo diritto consuetudinario che governasse tutte le tribù in quanto native, in quanto gruppo unico razzializzato. Ogni tribù era governata da un suo codice: esistevano tanti codici quante erano le tribù riconosciute…
…Anche quando parlavano lingue simili e mutualmente intelligibili, le tribù erano governate da leggi separate, dette leggi “consuetudinarie”, applicate da autorità definite etnicamente… Le differenze culturali erano caricate, esagerate, e davano luogo a sistemi legali diversi, ognuno dei quali era applicato da una distinta autorità politica e amministrativa.40
In Algeria, la politica francese, descritta da Sai Englert, era simile. Esisteva un triplice approccio:
il controllo della popolazione indigena tramite separazione e contenimento geografico, enfatizzazione e istituzionalizzazione di presunte differenze religiose e etniche innate tra i vari gruppi indigeni, e tramite la creazione di una ‘elite indigena’ a cui delegare l’amministrazione quotidiana del governo coloniale, sempre però sotto il controllo stretto dello stato coloniale.41
Per quanto riguarda le colonie dell’Africa Occidentale, la politica amministrativa francese si basava sul concetto della autoctonia.
Per l’amministratore e etnografo Maurice Delafosse, poi divenuto personaggio importante nell’organizzazione del potere francese in Africa Occidentale, nella sua importante opera in tre volumi Haut-Sénégal-Niger l’autoctonia diventava una sorta di criterio base. Fu il primo passo verso la classificazione dell’infinita varietà di indigénes in autoctoni e non. L’insistenza sulla distinzione derivava dalla politique des races, uno dei punti fermi nell’impostazione dell’amministrazione coloniale durante i primi decenni di governo francese. A differenza dei britannici con il loro Governo Indiretto che si basava sull’identificazione di autentici “capi locali”, i francesi, inizialmente almeno, evitarono di nominare capi locali (che potevano dare problemi) a favore di cantoni omogenei abitati da persone della stessa razza; da qui la necessità di distinguere i gruppi immigrati dai veri autoctoni. In pratica però, anche i francesi dovettero ben presto ricorrere a capi locali per l’amministrazione di nuove colonie.42
Ancora una volta occorreva fingere di non vedere le complessità della società africana e la storia di grandi unità politiche, multietniche e cosmopolite del passato, organizzate lungo linee dinastiche come gli imperi europei.
La prima preoccupazione delle potenze coloniali fu l’istituzione di credenziali che facessero passare i nativi per tradizionali e autentici. A loro interessava definire, individuare e consacrare un’autorità tradizionale: al singolare. Da notare che le colonie, a differenza dell’Europa della prima modernità, non conoscevano lo stato assoluto. L’autorità basata sulla legge non era mai una ma tante. Invece di un’autorità statale centrale i cui decreti erano legge in tutti gli ambiti sociali, qui la pratica prevedeva autorità diverse che definivano convenzioni riguardanti diversi ambiti della vita sociale. Oltre che dai capi, la tradizione poteva essere definita da gruppi femminili, gruppi divisi per età, clan, gruppi religiosi e altri.
Avendo proclamato una singola autorità, definita capo, autorità tradizionale unica, ne seguiva che anche la tradizione diventava non contraddittoria, autorevole e unica. Basata sull’età e il genere, l’autorità del capo era inevitabilmente patriarcale. Con un “governo indiretto” fatto passare per “consuetudinario” dagli alleati, lo stato coloniale diventava ad un tempo custode e tutore della tradizione. Far rispettare la tradizione significava così rafforzare il potere coloniale. Le potenze coloniali furono di fatto i primi esempi di fondamentalismo politico dell’era moderna. Furono i primi a teorizzare e mettere in pratica due proposte: primo, ogni gruppo colonizzato doveva avere una tradizione, religiosa o etnica, originale e pura; secondo, ogni gruppo colonizzato doveva tornare alle condizioni originarie, e questo ritorno doveva essere imposto per legge. Combinate, queste due proposte costituiscono la base di ogni fondamentalismo politico del mondo coloniale e postcoloniale.43
Questa ridicola catalogazione secondo categorie etniche viste come fonte primaria di identità e di affiliazione politica, significava stratificare la popolazione di etnie diverse, popolazioni che da sempre vivevano assieme in società comunitarie, riducendole a due categorie, governanti e governati, sulla base dell’etnia.
Si insegnava ai nativi che erano tribali per natura e si chiamava amministrazione nativa il loro governo. Al cuore dell’amministrazione nativa c’era la distinzione burocratica tra tribù native e non native. Queste ultime erano definite tali a prescindere da quante generazioni avessero vissuto in un determinato territorio, perché il tempo trascorso non cancellava le origini. Ogni colonia era divisa in un certo numero di patrie tribali, i bantustan, ognuna identificata con una tribù etichettata amministrativamente come nativa. I migranti che volevano accedere alla terra potevano farlo solo da “stranieri” e dovevano pagare un particolare tributo ai capi dell’autorità nativa. Il diritto consuetudinario coloniale ammetteva soltanto una forma di proprietà terriera stabile: il diritto consuetudinario d’uso proprio della patria tribale.
L’identità nativa comportava tre privilegi. Il primo era il diritto d’accesso alla terra. Il secondo prevedeva il diritto di partecipare all’amministrazione dell’autorità nativa. Nell’autorità nativa poteva essere nominato capo solo chi veniva dal gruppo identificato come nativo. Solo ai livelli amministrativi più bassi, tra gli strati inferiori dell’autorità nativa, si potevano trovare capivillaggio provenienti da tribù non native del bantustan. Più si saliva sulla scala dell’autorità nativa e più stringente diventava l’osservanza della consuetudine, stabilita dalle autorità coloniali, secondo cui solo i nativi avevano il diritto di rappresentare e amministrare il bantustan. Il terzo privilegio, riguardante la risoluzione dei conflitti, era il fatto che l’autorità nativa agiva sulla base di un diritto consuetudinario che privilegiava i nativi.
Il regime di disuguaglianza istituzionalizzato tra residenti presunti originari e migranti arrivati in seguito sfociò in un’amministrazione monoetnica posta a governo di una società multietnica.44
Da notare che il diritto consuetudinario d’uso riguardava la collettività; non particolari unità funzionali, come le comunità di villaggio ma l’intero gruppo etnico. Nel caso di un villaggio di abitanti tribali “forestieri” esistente in un certo luogo da molte generazioni, la patria tribale diventava sostanzialmente una proprietà assenteista.
Il protettorato britannico adottò in Malesia lo stesso approccio già adottato in India e in Africa.
Fu Swettenham a mettere in pratica in Malesia il protettorato, che ruotava attorno alla definizione di due diversi generi di nativi: aborigeni e civilizzati. Il Trattato di Pangkor del 1874, che sanciva l’inizio della colonizzazione britannica negli stati malesi, definiva come malese “una persona che parla abitualmente il malese, professa la religione musulmana e segue usanze malesi.” Questa definizione divenne in seguito l’articolo 160 della costituzione malese. La dichiarazione ufficiale ebbe un duplice effetto. Primo, permise a molti migranti musulmani di assimilarsi all’identità malese. Il risultato fu l’arrivo di una moltitudine di migranti musulmani, dall’arcipelago delle Indie Olandesi alla penisola araba, che riuscirono a masuk Melayu (diventare malesi) adottando la lingua (bahasa) e le usanze (adat) malesi. Il secondo effetto, per certi versi l’opposto del primo, fu che molti malesi non musulmani, che erano malesi tanto quanto i malesi musulmani, diventarono aborigeni, come ancora oggi vengono considerati…
L’ordine politico istituito al momento dell’indipendenza nel 1957 divideva i malesi in due gruppi: musulmani (malesi) e non musulmani (Orang Asli). Si trattava in verità di definizioni a sfondo razziale: se i malesi musulmani erano definiti ufficialmente civilizzati in virtù della fede religiosa, gli Orang Asli, i nativi aborigeni, sprofondavano ai livelli più bassi della scala civile.45
Ma, come nota Benedict Anderson, è molto improbabile che ai tempi del censimento degli Stati Malesi Federati del 1911, che divideva la popolazione in gruppi etnici,
più di una piccola frazione delle persone divise in categorie e sottocategorie si riconoscesse nell’identità censuaria. Queste ‘identità’, presenti nella (confusa) mente classificatrice dello stato coloniale, mancavano di quella reificazione che l’introduzione dell’amministrazione imperiale avrebbe presto reso possibile. Da notare inoltre, la mania per la completezza e la precisione delle autorità censuarie, che non ammettevano identificazioni molteplici, politicamente ambigue, incerte o cangianti. Da qui l’esistenza, sotto ogni gruppo razziale, di una sotto-categoria chiamata ‘Altri’, da non confondere con il cosiddetto ‘Altro’. La burla del censimento è che vuole catalogare tutti, ognuno in una casella precisa. Senza ambiguità.46
…Ci furono anche ripetuti tentativi di allineare meglio il censimento con le comunità religiose etnicizzandole, per quanto era possibile, giuridicamente e politicamente. Negli Stati Malesi Federati di epoca coloniale l’operazione era relativamente facile. Quelli che secondo il regime erano ‘malesi’ venivano letteralmente sbattuti davanti alle corti dei ‘loro’ impotenti sultani, e sostanzialmente amministrati secondo il diritto islamico. ‘Islamico’ diventava così sinonimo di ‘malese’.47
Similmente, le autorità delle Indie Olandesi “affidavano ai vari gruppi missionari zone di proselitismo sulla base delle proprie topografie censuarie.” Il risultato fu “la nascita dei cristianesimi ‘etnici’ (la Chiesa Batak, la Chiesa Karo, in seguito la Chiesa Dayak, e così via).”48
Le persone investite di queste religiose identità etniche artificiali erano governate da funzionari nativi “tradizionali” la cui autorità veniva assolutizzata e liberata dei limiti consuetudinari, qualcosa di simile agli zamindar del Bengala sotto Warren Hastings. Come gli Zulù del Natal:
I funzionari che [nel Natal] amministravano la legge consuetudinaria erano chiamati capi. Il loro potere fu formalizzato dagli statuti del 1849, 1878 e 1891. Si trattava sotto ogni profilo di leggi draconiane. Il capotribù era un despota locale che poteva disporre liberamente della popolazione per qualunque scopo, come “la difesa, la repressione dei disordini o delle rivolte, ma anche per lavori pubblici e necessità varie della colonia.”…
Il regime assolutista rifece le relazioni all’interno della società zulù, istituendo un regime rigidamente patriarcale che dava al capo nativo del kraal, o villaggio, un potere totalitario sui minori e sulle donne della sua giurisdizione. Egli era per legge “padrone assoluto di tutto ciò che era nel suo kraal” e tra i suoi compiti c’era la “composizione delle controversie”. Tutti i residenti del kraal eccetto gli uomini sposati, i vedovi e gli adulti maschi “non imparentati con il capo kraal”, erano “legalmente minorenni”. Le donne prive dell’esenzione data dalle autorità civili erano “sempre considerate minori e prive di potere proprio.” Non potevano né ereditare né lasciare un’eredità. Il capo del kraal controllava tutti i redditi e aveva il potere di diseredare i minori disobbedienti. Inoltre aveva poteri di polizia, era l’equivalente di un questore “all’interno del suo kraal e… poteva far arrestare sommariamente chiunque.” Poteva anche “infliggere punizioni corporali ai reclusi del kraal” per “giusta causa”. Le leggi prescrivevano anche il modo di salutare e il modo in cui rivolgersi alle varie personalità, dal capo supremo bianco al comandante nativo.49
Di pari passo con queste identità “tribali” artificiali e le corrispondenti autorità governative “native” arrivò anche l’imposizione di un diritto “consuetudinario”, anch’esso artificiale.
Le persone classificate come native-indigene erano soggette ad un nuovo regime imperiale “protettivo”, che sostanzialmente finiva per ingabbiarle nella “tradizione”. Il colonialismo diveniva teoricamente indispensabile, ma non per cambiare gli indigeni-nativi (“civilizzandoli”, ad esempio), bensì per tutelarne le (spesso inventate) tradizioni e i costumi nell’impatto con il mondo “moderno”… L’amministrazione dei nativi-indigeni tramite “autorità native” divenne il nuovo criterio amministrativo degli stati imperiali.50
Chi viveva entro i confini [delle colonie e degli stati coloniali] era ed è ancora oggi soggetto ad una forma particolare di diritto: il diritto consuetudinario. Queste persone appartengono alle tribù native, cosiddette perché la legge le definisce così. Secondo un ragionamento circolare, i nativi non sono nativi per una qualche ragione ontologica ma perché trasformati in nativi dai colonizzatori. Come il diritto civile, anche il diritto consuetudinario è contraddittorio: può dare ai suoi esecutori nativi di un’autorità tirannica e arbitraria su tutti gli altri nativi.51
Come dice Terence Ranger, “gli amministratori britannici hanno inventato le tradizioni africane per gli africani… Hanno codificato e promulgato queste tradizioni, convertendo usanze flessibili in obblighi inflessibili.”52
Qui c’è un grosso malinteso. Quando paragonano le nuove tradizioni europee alle consuetudini africane, i bianchi stanno mettendo a confronto due cose diverse. Le tradizioni inventate dagli europei erano rigide. Partivano da norme e procedure documentate, come il rituale moderno dell’incoronazione. Erano rassicuranti perché rappresentavano l’immutabile in un’epoca mutevole. Le stesse caratteristiche gli europei le vedevano nelle consuetudini africane. Quando i bianchi dicevano che la società africana era profondamente conservatrice (che aveva regole antichissime e immutabili e ideologie parimenti immutabili in un quadro chiaramente gerarchico) stavano accusando gli africani di arretratezza, di rifiuto della modernità. Spesso dietro queste affermazioni si nascondeva un complimento per le ammirevoli qualità della tradizione, anche se un complimento maldestro. Questo atteggiamento nei confronti dell’Africa ‘tradizionale’ divenne più marcato quando, tra gli anni Venti e gli anni Trenta, divenne chiaro che l’Africa non andava incontro a nessuna rapida trasformazione economica, e che molti africani, scettici davanti alle conseguenze dei cambiamenti, restavano attaccati alla terra. Tra i collaboratori africani… cominciò a scemare l’ammirazione per gli africani ‘veri’, che si credeva vivessero nel loro universo tradizionale.
Il problema è che l’impostazione europea fraintendeva la realtà dell’Africa precoloniale. Le società precoloniali avevano sì tradizioni rispettate e continuità ma si trattava di tradizioni vaghe e infinitamente flessibili. La tradizione aiutava a mantenere un senso d’identità, ma allo stesso tempo favoriva un adattamento così spontaneo e naturale che spesso avveniva inconsciamente. Nell’Africa precoloniale, raramente troviamo quel genere di sistema istituzionale consensuale chiuso che in seguito diventò una caratteristica dell’Africa ‘tradizionale’. Quasi tutti gli studi più recenti sull’Africa precoloniale ottocentesca evidenziano l’assenza di una singola identità ‘tribale’: gran parte degli africani si spostava continuamente da un’identità all’altra, ora era soggetto di quel capo, ora membro di un particolare culto, o di un particolare clan o ancora di un particolare sodalizio. Queste reti intrecciate di relazioni e scambi erano molto estese. I confini dell’amministrazione ‘tribale’, e le autorità gerarchiche al suo interno, non costituivano un orizzonte concettuale…
Nell’Africa ottocentesca troviamo competizione sociale e economica interna e anziani dotati di autorità indiscussa, ma anche una tradizione accettata che dava ad ognuno, giovane e vecchio, uomo o donna, un posto definito e tutelato all’interno della società.53
…Le conseguenze più gravi si ebbero quando gli europei convinsero se stessi che stavano rispettando le antiche usanze africane. Quello che chiamavano diritto tradizionale, come il diritto alla terra, la struttura politica consuetudinaria e così via, era un’invenzione dei codici coloniali.54
Ranger cita il sociologo Wim van Binsbergen: “Le moderne tribù dell’Africa Centrale non sono i resti sopravvissuti di un passato precoloniale ma perlopiù creazioni coloniali ad opera di funzionari coloniali e intellettuali africani…”55
Lo storico John Iliffe racconta come le autorità coloniali inventarono praticamente dal nulla le “tribù” del Tanganica:
Il concetto di tribù in Tanganica era al centro del governo indiretto. Seguendo il pensiero razziale diffuso nella Germania del tempo, gli amministratori pensavano che ogni africano appartenesse ad una particolare tribù, così come ogni europeo apparteneva ad una particolare nazione. Il concetto risentiva chiaramente del Vecchio Testamento, di Tacito, Cesare, della distinzione accademica tra società tribali basate sul prestigio sociale e società moderne basate sul contratto; ma subiva anche l’influsso degli antropologi postbellici che preferivano l’aggettivo ‘tribale’ al più offensivo ‘selvaggio’. Le tribù erano considerate unità culturali ‘dotate di una lingua comune, un unico sistema sociale e un diritto di fatto’. L’organizzazione politica e sociale si basava sul legame di sangue. L’appartenenza ad una tribù era ereditaria. Tribù diverse avevano relazioni genealogiche… Come ben sapevano i funzionari, solitamente poco informati, si trattava di stereotipi che avevano poco a che vedere con la storia caleidoscopica del Tanganica, erano le sabbie mobili su cui Cameron e i suoi adepti avevano eretto il governo indiretto ‘partendo dall’unità tribale’.56
Come nota Mamdani, l’effetto voluto di tutte queste politiche fu di dividere e indebolire le popolazioni governate, nonché di delegare ai nativi il compito di imporre il governo coloniale ai loro simili.
…Il nuovo sistema coloniale [di governo indiretto] consisteva nell’arruolare persone native fidate e dire loro che dovevano preservare il proprio stile di vita. Nelle colonie non c’era una maggioranza creata ad immagine dei colonizzatori; c’era invece una varietà di minoranze, ognuna preservata sotto la direzione di un’élite nativa. Il potere di questa élite si diceva che derivasse dalla tradizione, ma era invece l’appoggio dei colonizzatori la vera fonte di autorità. Divisi in tante razze e tribù distinte, i nativi erano più impegnati a badare a se stessi che a confidare negli altri in cerca di quella solidarietà che avrebbe potuto sfidare il potere dei colonizzatori.57
…Più che una maggioranza nazionale permanente, ci fu così una moltiplicazione di minoranze permanenti, ognuna tenuta a bada da un’amministrazione indiretta messa in pratica da nativi delegati dai colonizzatori.58
Questo approccio al governo coloniale, che consisteva nell’assegnare la popolazione a fittizie categorie assolute etniche o religiose, finì per inasprire i contrasti esistenti o per crearne di nuovi. Una grossa fetta dei contrasti religiosi che portarono alla divisione dell’India dopo l’indipendenza è probabilmente da attribuire alla politica inglese.
Nel 1862, per rafforzare l’idea che indù e musulmani fossero popoli completamente diversi si identificò ogni gruppo religioso con una sua particolare tradizione, cultura, storia e usanza. Il Raj britannico rese istituzionali queste idee assegnando un potere a presunti guardiani della tradizione, principi, chierici e proprietari terrieri, consolidando così il governo autoritario britannico. Nel programma rientrava l’approvazione di “codici o leggi personalizzate”. Le questioni “civili”, o “personali”, di indù e musulmani venivano affidate ad autorità native separate istituite dai britannici ma presentate come frutto della “tradizione” dei rispettivi gruppi. Nei dieci anni che seguirono (1862-1872) furono varate ulteriori riforme legali e amministrative volte a “salvaguardare” e “proteggere” questi due gruppi nativi ora divisi. I britannici crearono apposta nuove identità, individuali e comuni, istituzionalizzando l’importanza della religione in ambito sociale e politico come mai era successo prima.
La creazione di sistemi legali e collegi politici separati differenziò ulteriormente i nativi colonizzati e gettò benzina sul fuoco delle ostilità reciproche. Il che non era accidentale.59
Sotto la tutela coloniale, quelle popolazioni che non avevano mai avuto un’identità su base religiosa, finirono gradualmente per adottarne una.
Storiografia, censimenti e leggi finirono per dar vita a nuove soggettività rifacendo il passato, alterando le condizioni presenti e anticipando un futuro altrimenti del tutto improbabile. I colonizzatori europei scrivevano teorie della razza, distorcevano la storia locale per farne una storia di popoli colonizzati, finché le categorie di razza e tribù non apparivano native e spontanee. Fu così che i popoli colonizzati appresero di essere sempre stati rivali. I colonizzatori mappavano i colonizzati secondo parametri censuari adattati ad una storiografia di loro invenzione, rafforzando così le identificazioni razziali e tribali. Con un sistema di leggi distinte per razza e appartenenza tribale, i colonizzatori cercavano di fissare le future realtà politiche, economiche e sociali in modo che riflettessero sempre queste distinzioni.60
Nandita Sharma descrive lo stesso processo in termini pressoché uguali. Il colonialismo basato sul governo indiretto…
cambiò in ambito statale le conoscenze e le relazioni reciproche sulla base di una storiografia e di una geografia statiche e immobili. Possesso della terra, diritti politici e vita quotidiana cambiarono drasticamente seguendo la storiografia, i concetti di appartenenza e di soggettività, e l’immagine stessa della “società”. La politica protettiva, con il suo mantenimento delle “tradizioni” di nativi-indigeni importati, e con l’espulsione dei nativi-migranti, produsse una divisione politica razziale del territorio.61
(Vedi anche, per un paragone, il caso recente del regime di coalizione iracheno dopo l’invasione del 2003, che, in una società in cui i matrimoni suniti-sciiti erano la normale regola, ha approvato una costituzione basata sulle identità religiose, spingendo una società laica verso una guerra civile su base religiosa).
La pratica degli imperi coloniali, con la sua divisione tra un gruppo etnico “nativo” di un dato territorio e un gruppo forestiero “immigrato”, è all’origine anche di genocidi come quello dei musulmani Rohingya in Myanmar e i Tutsi in Rwanda.62 In quest’ultimo caso, “la contrapposizione tra Tutsi e Hutu…”
è un esempio (di genocidio) particolarmente evidente in cui i nativi-nazionali sono arrivati a concretizzare il processo con cui lo stato imperialista separa nativi-indigeni e nativi-immmigrati. Il genocidio del 1994 in Rwanda è forse il caso di autoctonia più studiato in Africa. In nome di un loro diritto in quanto autoctoni del Rwanda, gli Hutu attaccarono e uccisero centinaia di migliaia di Tutsi, definendoli immigrati colonizzatori. Ad essere presi di mira furono anche i “traditori” Hutu che si rifiutavano di prendere parte al genocidio.63
Quando i coloni belgi censirono le popolazioni del Rwanda Burundi, adottarono uno schema classificatorio semplificato. “Tutsi” era chiunque avesse più di dieci mucche (simbolo di ricchezza), o chiunque rispondesse a certe caratteristiche fisiche come il naso lungo e sottile, zigomi alti e una statura oltre il metro e ottanta.64
…In Rwanda, i colonizzatori belgi avevano diviso la popolazione in due gruppi, Tutsi e Hutu (più un terzo gruppo residuo, i Twa), anche se la maggior parte della popolazione era “mista”… L’amministrazione dello stato, in maggioranza Hutu, fu affidata alla minoranza Tutsi… La rivoluzione rwandese del 1959, col sostegno tacito delle ex potenze coloniali, si autodefinì “Rivoluzione Hutu”. … La “liberazione” del Rwanda, avvenuta nel 1994 con la partecipazione attiva degli Stati Uniti, invertì le parti mettendo al comando il Rwanda Patriotic Army a maggioranza Tutsi.65
Parallelamente in Birmania i britannici, seguendo “la regola del colonialismo a ‘governo indiretto’”, “divisero politicamente la popolazione in gruppi definiti arbitrariamente.”
In Birmania, i britannici divisero politicamente la popolazione in gruppi definiti arbitrariamente. Come anche altrove, alcuni gruppi furono favoriti a discapito di altri. In zone definite “di frontiera” dai britannici, dove oggi vive gran parte delle “minoranze etniche nazionali” della Birmania, come i Chin, gli Shan, i Kachin e i Karenni, furono selezionati “governanti tradizionali” e fu affidato loro l’incarico di governare sui nativi colonizzati. In altre zone, definite “Birmania ministeriale”, fu invece instaurato una sorta di autogoverno parlamentare sotto la supervisione del British India Office di Calcutta. Qui viveva la maggioranza denominata Bamar (ovvero, parlanti di lingua birmana). I britannici penalizzarono la popolazione Bamar, che oggi domina lo stato nazione di Birmania, a favore di quei gruppi che oggi sono o minoranze etniche o, come i Rohingya, nomadi.66
Il Sudan seguì lo stesso schema: “strutture razziali e tribali imposte dai britannici diventarono dopo l’indipendenza il punto di partenza di atroci guerre civili.”67
A chi conosce poco della storia del Sudan, questa sembrerà la solita vicenda di odii atavici che ogni tanto scoppiano in Africa. Ma ciò che accadde nel Sudan meridionale è così solo in apparenza. Dinka e Nuer non erano impegnati in qualche faida infinita. Non si azzannavano da tempi remoti da prima dell’ordinamento coloniale… Al loro arrivo, agli inizi del Novecento, i britannici politicizzarono i confini etnici identificando le differenze culturali con le differenze tribali. Gli eredi di questa mentalità coloniale governano alla maniera dei britannici, non come i loro antenati.
Il territorio oggi noto come Sudan e Sudan Meridionale è caratterizzato da almeno cinque secoli da un’incredibile diversità umana, ma solo in quest’ultimo secolo o giù di lì questa diversità è stata fonte di conflitti. Le ragioni sono nella logica del governo coloniale indiretto. Immediatamente dopo la fine del diciannovesimo secolo, e con urgenza e intensità crescenti durante gli anni Venti, le autorità coloniali britanniche tribalizzarono il Sudan, innalzando barriere legali e fisiche tra gruppi che prima si mescolavano tra loro nonostante le differenze culturali. I britannici rinchiusero i vari gruppi in confini prima inesistenti, instaurandovi un sistema di governo gerarchico inventato. Il tutto al fine di evitare che tra i colonizzati nascessero solidarietà che andassero oltre i confini tribali.68
La “autorità nativa” istituita in Sudan dai britannici seguiva lo stesso schema adottato in altre colonie.
In primo luogo, servendosi dello strumento censuario, i colonizzatori identificavano ogni gruppo etnico con un particolare territorio, denominato focolare esclusivo di quel particolare gruppo etnico. Secondo, ognuno di questi focolari era messo sotto l’amministrazione di un’autorità tribale nominata o approvata dai vertici coloniali. Terzo, questa autorità, che aveva il potere di risolvere le controversie, era anche autorizzata a concedere parti di territorio solo a chi era stato identificato come indigeno di quella particolare zona. La legge del territorio diveniva così consuetudinaria in quanto amministrata da membri della tribù. In base alla stessa logica diventava consuetudinario anche il diritto all’utilizzo della terra conferito ai soli indigeni, cementando così l’adesione delle popolazioni locali alle identità native create per loro. Infine, il potere dell’autorità nativa fu reso autonomo nei confronti della comunità, e anche questo fu spacciato per consuetudinario: secondo i colonizzatori, l’autorità del capo era per sua natura assoluta perché le popolazioni del luogo, per tradizione antichissima, non conoscevano o non capivano concetti come democrazia o stato di diritto se non quando quest’ultimo era imposto da un dittatore.69
L’imposizione di identità “tradizionali” artificiali nel Sudan meridionale portò inoltre ad una sistematica rimozione dell’elemento arabo.
Il sud era governato da autorità soggette al controllo degli amministratori britannici. Questo dispotismo fu accresciuto dalle missioni, ad ognuna delle quali fu assegnato un feudo religioso. Furono queste missioni ad applicare una politica di pulizia etnica al fine di ridurre al minimo l’influenza araba. Avendo ricevuto l’incarico esclusivo di provvedere all’istruzione e alla socializzazione, l’inglese rimpiazzò l’arabo come lingua ufficiale. Vivere secondo principii arabi era scoraggiato, i residenti erano indotti ad usare nomi in accordo con il proprio gruppo etnico e a indossare abiti che non fossero arabi o islamici. Il giorno di riposo passò dal venerdì alla domenica. Si favorì il proselitismo cristiano e si vietò quello islamico. I mercanti del nord furono fatti sloggiare dal sud e sostituiti con mercanti cristiani, greci e siriani, fatti venire appositamente. La pulizia etnica fu rafforzata dalle ordinanze del 1922 che istituivano i distretti chiusi e un sistema di passaporti, criminalizzando gli spostamenti tra nord e sud. Fu vietata l’emigrazione dal sud verso il nord [del Sudan] in tutte le forme, salvo previo permesso. I trasgressori erano multati o finivano in galera.70
Il protettorato del Darfur fu istituito dopo la sconfitta del Mahdiyya, estendendo così all’Africa britannica la stessa logica, sotto forma di tribalizzazione, adottata dall’impero in India dopo il 1857.
Importante ai fini governativi fu la distinzione amministrativa tra “nativi” e “stranieri”. Nativo era chi veniva dichiarato originario del posto, al contrario dei non nativi ai quali non era riconosciuta la stessa origine anche se risiedevano sul posto da molte generazioni. La provincia del Darfur fu divisa in tanti focolari nazionali, i dar, ognuno identificato con una tribù burocraticamente dichiarata nativa. Il dar era considerato la patria della corrispondente tribù nativa. Gli immigrati che intendevano accedere alla terra potevano farlo solo da “stranieri” e dovevano versare un tributo apposito all’autorità nativa. Quando in Africa ogni forma di proprietà della terra fu dichiarata tribale, tutte le altre forme, compreso il possesso individuale introdotto con il sultanato (hakura o privilegio), andarono in disuso.71
Il semplice fatto che definisse l’accesso alla terra, che permettesse di partecipare all’amministrazione, e anche offrisse favoritismi nella risoluzione delle controversie, trasformava la partecipazione al dar, burocraticamente definito, in una identità sostanziale. Col tempo l’identità tribale, per quanto imposta dall’alto da leggi coloniali e associata a atti amministrativi, divenne la base di un’organizzazione spontanea. L’identità nativa imposta dall’alto generò un potere nativo.72
L’eredità postcoloniale
Tra i vecchi poteri coloniali e i nuovi stati indipendenti, nati in seguito alla fine del colonialismo dopo la Seconda Guerra Mondiale, ci fu molta continuità quanto a politica nazionalista. Lo stato nazione postcoloniale, o stato etnico, spiega la Sharma, eredita la tendenza coloniale alla pratica orientalistica e essenzializzante e intensifica la violenza: “Il postcolonialismo ha messo fine alla legittimità degli stati imperialistici, ma non alle pratiche connesse. Nel Nuovo Ordine Mondiale Postcoloniale le pratiche di esproprio e sfruttamento si allargano e si accentuano.”73 C’è un filo conduttore che lega la pratica coloniale del governo indiretto con le sue artificiali “autorità tradizionali” che governano artificiali “gruppi etnici tribali”, e “l’emergere, nella realtà postcoloniale, di un violento nazionalismo in seguito alla creazione di minoranze sotto il governo indiretto.”74
L’aspirazione allo stato di nazione indigena comporta una sorta di proiezione del presente nel passato. Le comunità politiche proiettano il proprio immaginario status di nazione in epoche in cui la popolazione si organizzava diversamente…
A dispetto di occasionali anticolonialismi radicali, i programmi nazionalisti degli indigeni nativo-nazionali non eliminano la realtà postcoloniale fatta di sovranità nazionali territoriali separate. La riproducono.75
La “autodeterminazione della nazione”, così come compare nella Carta dell’ONU, non è semplicemente il diritto della popolazione di un determinato territorio alla libertà da poteri esterni; piuttosto sancisce lo stato etnico esclusivo quale base dell’ordine internazionale scaturito dalla Pace di Vestfalia.
Con la carta del 1945, l’ONU sanciva il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei popoli (ovvero il diritto alla sovranità nazionale di chi rivendicava con successo di essere “il popolo del luogo”) quale base del diritto internazionale. La carta istituisce fermamente l’ostilità verso i migranti. Dichiarando il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, non riconosce (non può riconoscere) il diritto di chi non è il Popolo di una nazione, ovvero dei “popoli senza casa”.76
Si capisce allora perché i non riconosciuti, i “subalterni”, chi non ha avuto alcun beneficio dalla nazione, si trova tra i perdenti. Le minoranze, le popolazioni tribali e i migranti sono i perdenti dell’autodeterminazione nazionale sancita dall’ONU.77
Tutti questi nazionalismi postcoloniali, scrive la Sharma, “sono fondamentalmente autoctoni, dividono gerarchicamente nativi-nazionali (autoctoni) e migranti (autoctoni).” In questa dicotomia, “il diritto dei nativi-nazionali è il diritto all’autogoverno. Questo priva i migranti di un luogo in cui vivere.”78
In questi “stati di liberazione nazionale…, le pratiche discorsive di autoctonia nazionale non solo sono state snaturate, ma hanno anche finito per rendere vani i programmi di decolonizzazione.” Questa autoctonia fittizia, posta alla base della cittadinanza nazionale, ha “generato tutta una serie di divisioni, espulsioni e in qualche caso anche genocidi…”79
Gli ideali nazionalisti generano un processo di selezione delle “popolazioni”. Divampa l’idea che lo stato nazione debba essere composto da e per chi è della stessa nazionalità dello stato. Dopo la Prima Guerra Mondiale, con lo scioglimento di tanti imperi, parti significative dei loro territori furono dichiarate focolari nazionali da chi sperava di stare al governo di questi nuovi stati nazionali sovrani. I nazionalisti attribuivano alla nazione il diritto “eterno” e essenziale di governare in un certo territorio, dando così al concetto di autoctonia una nuova speranza di vita su base nazionale.
Mentre i popoli nazionali si autodefinivano autoctoni con la formula del nativo-nazionale, gli altri, chi era dichiarato fuori dalla nazione, diventava alloctono. Ogni nuova nazione aveva una parte della popolazione ridefinita “straniera”, persone razzializzate in quanto originarie di luoghi da cui vengono “quelli come loro”. Questi stranieri, dicevamo, si trovano nei territori della nazione solo perché migrati da altrove; ecco quindi che le narrazioni nazionaliste, oltre a spiegare il legame eterno tra nazione e territorio, narrano anche di migrazioni che spiegano l’esistenza degli altri. Per questo, divisioni e trasferimenti forzati diventavano i ritorni: i migranti erano rimandati alla loro casa, al “loro” territorio nazionale eterno e imprescindibile.80
La violenza postcoloniale, scrive Mamdani, “rispecchia la violenza della modernità europea e del governo coloniale diretto”, che si manifesta soprattutto con la pulizia etnica.
Poiché lo stato nazione vuole l’omogeneizzazione del territorio, la soluzione migliore è l’espulsione di chi genera pluralità. La pulizia etnica assume forme diverse. Tra queste, il genocidio, l’uccisione di massa delle minoranze, e il trasferimento, ovvero la minoranza è espulsa dal territorio o concentrata in una piccola porzione di esso, lontano dalla maggioranza.81
Questo avvenne in particolare con il programma di “africanizzazione” postbellico, che, nota la Sharma, “non impedì agli stati nazione di espellere chi era razzializzato come africano (nero) ma non apparteneva alla particolare nazione…”
Subito dopo l’indipendenza, ottenuta nel 1960, la Nigeria espulse chi era considerato ganese. Nel 1983 altra espulsione di massa di tre milioni di persone, tra cui, si stima, un milione di ganesi. Anche il Ghana, da parte sua, dopo l’indipendenza dal potere britannico nel 1957, espulse centinaia di migliaia di “stranieri”, compresi numerosi nati nel Ghana. Nel 1969, Kwame Nkrumah, presidente pan-africanista del Ghana, definì “stranieri” nigeriani le popolazioni Yoruba, li denunciò come minaccia per “l’interesse della nazione” e avviò un’espulsione di massa. È significativo che in Ghana gli Yoruba fossero chiamati popolarmente Mubako, che vuol dire “stai andando”. Nello stato di Guinea, indipendente dalla Francia dal 1958, espulse i pescatori, i quali emigrarono in Ghana. Camerun, Costa d’Avorio, mentre Ghana e Zaire espulsero i mercanti, i quali emigrarono in Nigeria. Costa d’Avorio e Niger espulsero gli impiegati statali, che emigrarono in Benin. Ghana e Costa d’Avorio espulsero contadini e braccianti, che emigrarono nel Togo. La questione dell’autoctonia, prevedibilmente, finì per essere la disperazione delle popolazioni espulse. Molto problematica era l’etichetta di “nuovi arrivati” con cui erano accolti quando arrivavano in uno stato nazione considerato focolare autoctono da chi li aveva espulsi altrove.82
Così come avveniva col governo indiretto europeo, la tendenza degli stati nazione postcoloniali ad essenzializzare i gruppi etnici definendoli “popoli autoctoni del luogo X” ebbe come effetto il rafforzamento del potere all’interno di ogni stato nazione e l’indebolimento di quelle vere organizzazioni sociali tradizionali, o di quelle forme di autogoverno comunitario locale, che non erano né “stato” né “privato”.
…gli stati di liberazione nazionale legavano il discorso dello sviluppo nazionale a “gerarchie di classe, etnia, razza e religione locali”. I progetti di megasviluppo, con la distruzione dell’economia rurale e il conseguente processo di urbanizzazione, uniti ad una politica di sostituzione delle importazioni che favorissero l’industrializzazione, finirono per accrescere le schiere, e la misera, dei proletari. Stato e capitale espropriavano sempre più terre, e più crescevano le comunità dichiarate proprietà pubblica o privata, più la vita degli individui finiva sotto l’occhio dello stato nazione, e più le persone scoprivano che partecipare al mercato capitalista per ottenere sanità, vestiario, un’abitazione, alimenti e terra era oggi un obbligo più di quanto non lo fosse stato sotto il regime imperiale…83
Più recentemente, nel 2005, commentando l’ascesa dell’autoctonia negli anni Novanta, Bambi Ceuppens e Peter Geschiere la definirono “un problema scottante di molte regioni africane, che ispira tentativi violenti di escludere ‘gli stranieri’, un fenomeno diffuso soprattutto nelle aree francofone, ma che va estendendosi anche ai paesi anglofoni.”84 Il fenomeno nasce direttamente dal concetto di autoctonia originariamente imposto dall’amministrazione francese in Africa Occidentale alle popolazioni coloniali.85
Soprattutto negli anni Novanta, dopo la fine della guerra fredda e la scomparsa (perlomeno formale) delle dittature monopartitiche dal continente africano, si diffuse la pratica propria degli amministratori coloniali di dividere la popolazione in categorie apparentemente evidenti: autoctoni e non autoctoni. È recente la notizia che in Costa d’Avorio sedicenti autoctoni, spinti da un odio feroce, cercano di cacciare via con la forza gli immigrati. Reazioni violente simili le troviamo anche altrove. Uno dei principali catalizzatori dei questa violenza è stata l’ondata di democratizzazione che ha attraversato il continente. Di per sé la democratizzazione è un fatto positivo ma… la reintroduzione di sistemi multipartitici ha reso esplosive questioni come “chi può votare dove?” O, ancora più importante, “chi può candidarsi dove?” Questioni di appartenenza, insomma. Nelle aree più densamente popolate, in particolare nelle grandi città, il timore di essere messi in minoranza dai più numerosi “stranieri”, che spesso sono cittadini dello stesso stato nazione, ha raggiunto stati febbrili tali che la difesa dell’autoctonia diventa più importante delle questioni di cittadinanza.86
In Camerun, il regime di Biya per mantenersi al potere sfrutta la paura degli autoctoni, che vivevano “nei centri economici della Provincia del Sudest e della città di Duala, di finire in minoranza ad opera di una costellazione democratica che fa capo ai più numerosi immigrati delle zone collinari delle Province del Nordovest e dell’Ovest.”87 Dalle parole di un personaggio politico camerunese si capisce come la questione dell’autoctonia sia diventata più importante di quella della cittadinanza: “Tolto il luogo in cui vivevano i suoi antenati e… dove sarà sepolto, in questo paese non c’è posto in cui i camerunesi non siano allogeni. Tutti sanno che solo eccezionalmente un camerunese sarà sepolto… altrove.”88
In Costa d’Avorio, similmente, “il concetto di autoctonia, anche qui introdotto dalle forze coloniali francesi, fu subito fatto proprio dai politici locali.” I primi allogeni presi di mira furono i funzionari senegalesi e del Dahomey del periodo coloniale, seguiti da immigrati del nord, Mali e Burkina Faso, che dopo l’indipendenza furono incentivati a migrare a sud per lavorare nell’industria del cacao. Guidati dall’ostilità verso gli “stranieri”, i sostenitori dell’autoctonia facevano poca distinzione tra chi veniva dai paesi vicini e chi invece veniva dal nord della Costa d’Avorio. L’onda paranoica continuò in crescendo durante gli anni Ottanta e Novanta.89
Spezzare le catene del nazionalismo
Nandita Sharma e Mahmood Mamdani, i due studiosi che più hanno influenzato i capitoli precedenti, sono perlopiù d’accordo sul necessario approccio ai problemi delineati più su. Il male da estirpare, dice la Sharma, è: la “logica dell’autoctonia”, caratterizzata da “concetti essenzialisti e astorici di nazione e razza posti a fondamento della legittimità politica”; l’idea che “le popolazioni native-nazionali siano la fonte originale ultima della legge e i garanti dei diritti”; e l’idea che “la terra sia il territorio della nazione sovrana”.90 Abolire ciò significa “abolire il sistema postcoloniale basato sullo stato nazione e far nascere relazioni sociali, organismi sociali e pratiche di riproduzione sociale che soddisfino la domanda di libertà.”91
Questo ovviamente non significa che la Sharma ignori le richieste di giustizia delle popolazioni indigene; al contrario, condanna senza esitazione “il lungo elenco infamante di studiosi che cercano di negare e spoliticizzare la violenza scatenata contro chi viene classificato come nativo rigettando le loro richieste di libertà.” Piuttosto, ciò che contesta è “una strategia basata sulla rivendicazione della sovranità nazionale…”92
…Sto con tanti altri che “prendono le distanze” dal concetto essenzialista, astorico e reificato di relazione sociale, e che capiscono che differenziarsi è sempre un atto politico. Assieme ai mitici costruttori della torre di Babele che cercavano di costruire il loro paradiso in terra, io sto con i tanti, tantissimi, artefici di una solidarietà che va oltre, e contro, gli dei, gli imperi e le nazioni, con i tanti che si impegnano per un mondo che sia la casa di tutti… Questo “essere noi” è anche una decisione politica, ovviamente, una decisione che, in contrasto con le varie autoctonie nazionalistiche, nasce da un progetto politico condiviso, non da una genealogia condivisa, e neanche da un territorio condiviso. Questo libro è un invito al lettore ad unirsi ai tanti che lottano per liberare la nostra terra e il nostro lavoro dall’esproprio e dallo sfruttamento. Oggi come in passato, sta a noi creare il paradiso in terra.93
Quando si parla di andare oltre lo stato nazione, osserva la Sharma, sembra quasi che si pensi ad uno “stato postnazionale, ovvero uno stato che si limiti ad amministrare il territorio senza discriminazioni tra chi è dentro e chi è fuori, uno stato che faccia da sistema di ridistribuzione e protezione senza imporre l’adesione a questa o quella identità.” Ma gli stati, in quanto tali, possono essere problematici; il concetto in sé di stato territoriale porta con sé connotazioni di dominio.
Lo stato è molto più di un’istituzione amministrativa. Lo stato nasce storicamente quando si forma una classe di governo. La terra diventa territorio dello stato e inizia lo sfruttamento della fatica dell’uomo. Questo è un aspetto del potere statale in tutte le sue forme: teocratica, monarchica, imperiale o nazionale. È tramite relazioni di questo genere, relazioni che disciplinano il senso di tempo e luogo delle persone, che sorgono e si impongono identità come la “razza” e la nazione. Identità che sono indubbiamente un prodotto dello stato.
Questo significa che un mondo senza frontiere e senza razzismi, un mondo in cui la popolazione non è divisa tra Nativi e Migranti non è questione di piccoli aggiustamenti amministrativi. È il Nuovo Ordine Mondiale Postcoloniale capovolto.94
Qui la Sharma sembra invocare la fine dello stato, perlomeno di quello vestfaliano vecchio di quattrocento anni. Come esempio di ciò che potrebbe prendere il suo posto, suggerisce il precedente storico dei costruttori della Torre di Babele, che “sfidarono la pretesa di Dio di essere il loro Signore innalzando una torre per celebrare il paradiso fatto da loro”. Ma anche i Digger, che “invocavano non solo un ritorno alle comunità che gli erano state prese, ma anche la loro diffusione in tutto il mondo fatto proprio da capitalisti e colonizzatori”. E i Ranter, i quali “rifiutavano le distinzioni di luogo” e invitavano i popoli delle nazioni a diventare “un solo popolo unito.”95 Viene da pensare a qualcosa che trascende lo stato, qualcosa che è più grande dello stato tradizionale perché senza confini, ma che allo stesso tempo è meno stato e più amministrazione nell’esercizio del suo potere.
Quanto alla richiesta di giustizia di diseredati e espropriati, la Sharma fa distinzione tra il possesso della terra (e quindi anche le comunità tradizionali e il diritto alla terra comune basato sul possesso fisico da parte delle comunità) e il diritto teorico alla proprietà collettiva di un determinato territorio su base etnica. Ciò che dovrebbe essere ristabilito, attraverso il ritorno alla terra (landback) o le riforme, è il diritto dei popoli (in quanto popoli e non in quanto Popolo) di mantenere il diritto di possesso, un diritto individuale o comunitario che comprenda anche i territori di caccia stagionale, di quella terra che oggi come in passato occupano fisicamente. Sono le comunità, concrete e non immaginarie create fittiziamente sulla base di un’identità etnica, che devono riprendere possesso della terra.
Qui non si parla di una restituzione della terra (e dell’acqua e dell’aria) così da liberare la persona da relazioni di sfruttamento, come nel caso del ritorno ai beni comunitari… Esigere il territorio è una rivendicazione politica che stabilisce la misura della sovranità sulla terra (e l’acqua e l’aria) ma anche del lavoro di chi ci vive.96
Mamdani è un po’ meno ambizioso. Pur non volendo detronizzare Dio o creare un commonwealth dei Digger, però, propone qualcosa di più simile ad uno stato denazionalizzato, di cui la Sharma parla en passant.
Non m’importa sapere come sarà esattamente il mondo che verrà. Decolonizzare la politica non è altro che un ripensare l’ordine dello stato nazione. Non posso dire come andrà. Posso però dare qualche consiglio su come arrivarci. Primo, riformare la base nazionale dello stato con un solo concetto di cittadinanza, basata sulla residenza piuttosto che sull’identità. Secondo, denazionalizzare gli stati con l’istituzione di strutture federali in cui l’autonomia permetta alla diversità di esprimersi al meglio.97
Come pare di capire dal suo richiamo all’autonomia locale, per Mamdani abolire lo stato nazionale come sovranità territoriale basata sull’identità etnica non esclude che gruppi etnici possano formare entità amministrative nel territorio di uno stato. Come esempio cita le comunità dei popoli nativi nordamericani, a cui verrebbe garantito il diritto di esistere e la restituzione della terra in qualità di entità amministrativa.
Cosa potrebbe significare la decolonizzazione per gli Indiani degli Stati Uniti? Prendo da Roxanne Dunbar-Ortiz: “Il primo passo è giustamente il rispetto dei trattati che gli Stati Uniti hanno firmato con le nazioni Indigene, la restituzione di tutti i luoghi sacri, a cominciare dalle Black Hills (Sud Dakota) fino a comprendere gran parte dei parchi e delle terre federali, tutte le cose e i corpi sacri, nonché un risarcimento sufficiente a ricostruire e far crescere le nazioni Native.” La decolonizzazione richiede anche “ampi programmi didattici”, e dovrebbe riguardare anche chi non è Indiano, con il “sostegno pieno e la partecipazione attiva dei discendenti dei coloni, degli africani ridotti in schiavitù, dei messicani colonizzati e degli immigrati.”
La domanda, secondo me, è: in cosa consiste esattamente la partecipazione dei coloni? Dunbar-Ortiz giustamente parla di risarcimenti. Io avrei delle proposte aggiuntive. Una è l’istituzione di un’autonomia federale sancita costituzionalmente. Il che potrebbe comportare la statualità, l’estensione della richiesta delle Cinque Tribù Civilizzate “di essere ammesse come stato dell’Unione.” Un cambiamento possibile solo con la cooperazione di tutta la popolazione americana e dei rappresentanti nel Congresso. Altra possibilità è la fine della condizione di tutela con una rappresentanza delle riserve in entrambi i rami del parlamento, abolendo la BIA (l’ufficio per gli affari indiani, NdT) e democratizzando l’amministrazione tribale.98
In pratica, prosegue, decolonizzare il politico negli Stati Uniti “richiede pieni e pari diritti per tutti i cittadini, che vivano nelle riserve indiane o no.”
Questo comporterebbe l’abolizione delle riserve, che verrebbero sostituite da un’autonomia di tipo costituzionale simile a quella dei singoli stati dell’Unione. Questa autonomia significherebbe la fine del governo per decreto del Congresso con il suo corollario: la non rappresentanza delle comunità indiane autonome in entrambi i rami parlamentari. Le comunità avrebbero il potere di varare leggi locali, niente più leggi consuetudinarie approvate a livello federale con la supervisione dell’Ufficio per gli Affari Indiani. Con la decolonizzazione del politico, infine, arriverebbero i risarcimenti per i torti subiti nel corso dei secoli, un atto di giustizia sociale sia per gli indiani che per i discendenti degli schiavi africani ma anche per i messicani e i portoricani inseriti a forza negli Stati Uniti…99
Ciononostante, l’alto grado di decentramento, sull’esempio della “comunità delle comunità” che Mamdani sembra suggerire, non si estende alla sovranità nazionale di tipo vestfaliano. Il più vasto stato territoriale è un’entità denazionalizzata la cui popolazione abbandona le vecchie identità di nativi e coloni per diventare “ex”. “Coloni e nativi possono emanciparsi solo cessando di essere identità politiche.”100
Da anarchico che vuole l’abolizione dello stato nazione, mi è più congeniale la Torre di Babele della Sharma rispetto allo stato denazionalizzato con autonomia locale e restituzione della terra di Mamdani. Se vogliamo liberare lo stato dal concetto di nazione, dobbiamo fare un passo più in là e liberare l’amministrazione dallo stato. Una questione che sarà affrontata nella terza e ultima parte di questo saggio.
Parte II. Israele-Palestina
Sullo sfondo del conflitto
Il Sionismo nasce sulla scorta del nazionalismo etnico europeo in seguito alla Rivoluzione Francese. Prima dell’ascesa del Sionismo, avvenuta nell’Ottocento, scrive Ilan Pappe, l’atteggiamento tradizionale degli ebrei era molto diverso:
Per secoli generazioni di ebrei avevano visto Eretz Israel, la Palestina secondo la religione ebraica, come luogo di pellegrinaggio; mai come futuro stato laico… Il Sionismo laicizzò e nazionalizzò il Giudaismo. Per realizzare il proprio progetto, i teorici del Sionismo rivendicarono il territorio come terra biblica, trasformandola, se non reinventandola, come culla del nuovo movimento nazionalista.101
Quello che invece diventò il tratto dominante del Sionismo e dell’insediamento in Palestina era un riflesso di altri nazionalismi europei, visto che comportava 1) un concetto essenzialista del legame che gli ebrei hanno con la terra di Palestina, considerata loro patria esclusiva, e 2) un’identità nazionale artificiale che arrivava a cancellare le identità reali degli ebrei. Come spiega Mahmood Mamdani, l’obiettivo del Sionismo…
è proprio questa trasformazione: trasformare l’essere ebraico (storicamente una questione di fede, cultura e stirpe) in nazione e legare questa nazione a uno stato. Un principio cardine della modernità politica emersa in Europa è che compito dello stato è proteggere e promuovere gli interessi della nazione. In Israele, lo stato esiste per proteggere e promuovere gli interessi della nazione ebraica, che è l’identità della maggioranza immutabile del paese.
Il Sionismo è forse l’espressione più perfetta della modernità politica europea in un contesto coloniale. Il Sionismo è ad un tempo frutto dell’oppressione degli ebrei sotto la modernità europea e l’attuazione scrupolosa della modernità europea in un contesto coloniale. Il nazionalismo dichiarava impossibile la presenza degli ebrei europei in Europa; imbevuti di quella stessa ideologia che negava loro dignità e parità in Europa, i Sionisti stabilirono che l’unica possibilità per gli ebrei era la creazione di uno stato proprio, che doveva essere edificato altrove. E questo diventarono loro: oppressori; perché in uno stato nazione si può essere solo o oppressori o oppressi, o maggioranza o minoranza, o nazione o altro.102
Hannah Arendt, in uno scritto del 1948, faceva un parallelo tra ciò che gli ebrei europei avevano subito ad opera dei nazionalismi etnici europei e ciò che il nazionalismo etnico sionista avrebbe comportato per gli arabi palestinesi. A proposito della natura del nazionalismo etnico europeo, sottolineava l’inevitabile conflitto…
insito in uno stato nazionale basato su un’identità fondamentale tra popolo, terra e stato, identità che non tollera la presenza di una nazione diversa e che intende preservarsi in qualunque forma. Entro il quadro di uno stato nazione questo conflitto ha due sole soluzioni: o l’assimilazione totale, che significa annullarsi, oppure l’emigrazione.103
Storia di una conquista e di un esproprio
Secondo la versione sionista del programma insediativo novecentesco le terre furono acquistate pacificamente e a dar vita al conflitto furono gli arabi che non volevano convivere pacificamente con gli ebrei. Dai documenti sappiamo…
1) che il modo in cui furono acquistate le terre fu piuttosto problematico; e che…
2) per molti leader sionisti il programma passò ben presto da una semplice acquisizione della terra all’istituzione di una maggioranza ebrea e di uno stato etnico.
Secondo Rashid Khalidi, agli inizi del Novecento in Palestina “un gruppo ristretto di persone fecero incetta di terre private. Grossi appezzamenti finirono sotto il controllo di proprietari assenteisti, molti dei quali residenti a Beirut o a Damasco, a spese di piccoli possessori contadini.”104
Circa quarantamila immmigrati ebrei arrivarono tra il 1909 e il 1914… Il movimento sionista creò diciotto nuove colonie (cinquantadue in tutto al 1914) su terre acquistate perlopiù da proprietari assenteisti. La relativamente recente concentrazione della proprietà terriera in mani private favorì di molto l’acquisto delle terre. L’impatto sulle comunità contadine palestinesi fu particolarmente pronunciato nelle aree di forte colonizzazione sionista: le pianure lungo la costa e le valli fertili di Marj Ibn ’Amer e Huleh a nord. Molti contadini dei villaggi confinanti furono privati della loro terra come risultato delle vendite fondiarie.105
Alla crescita degli insediamenti ebrei a queste condizioni corrispose una crescita dei conflitti con la popolazione araba. All’origine, come spiega Mamdani, non c’era “un’ostilità verso gli ebrei, o il fatto che li considerassero invasori in terre che appartenevano alle popolazioni arabe.” In realtà…
le lotte tra contadini arabi e coloni ebrei nasceva molto prima dell’intellighenzia nazionalista palestinese e del movimento dei coloni. Ciò che gli arabi palestinesi non sopportavano era il fatto che gli ebrei cercassero di imporre la propria sovranità attraverso le loro istituzioni nazionali esclusive e, parallelamente, attraverso una loro politica terriera. A differenza dei vecchi padroni, che si accontentavano di riscuotere l’affitto da parte di chi lavorava la terra, i coloni ebrei cacciavano via i fittavoli e si impossessavano delle terre. Da qui il rancore: per i contadini arabi, lo sfratto non era tra i diritti del proprietario terriero. Ad aprile del 1909 ci fu il primo scontro in cui morirono due arabi e due ebrei: nacque così la prima milizia ebrea in Palestina. Le milizie ebree erano imbevute di un culto militarista e del sacrificio di sé…106
I capi sionisti avvertirono la Commissione King-Crane del 1919 (una sorta di gita di piacere in Medio Oriente in rappresentanza di Woodrow Wilson) che il movimento sionista “puntava all’esproprio totale degli abitanti non ebrei in Palestina.”107 Ze’ev Jabotinsky, padre del Sionismo revisionista (fascista), nel 1925 definì il Sionismo un programma “di colonizzazione delle terre attualmente abitate”. Questa “colonizzazione”, aggiunse, non poteva essere imposta sulle popolazioni native senza l’uso delle armi.108
La seconda aliyah (ondata migratoria ebrea in Palestina), come nota Mamdani, “pose le basi di una nazione separata, mentre…
con la terza (1923-30) cominciò il vero e proprio processo di fusione della nazione con lo stato. Mentre i primi sionisti come Weizmann contavano sui britannici e su altre potenze internazionali per realizzare un domani uno stato ebraico, con la terza aliyah il programma cominciò ad andare coi propri piedi contando sulla crescita degli immigrati ebrei, dei lavoratori e dei militanti. Una delle istituzioni chiave dell’epoca fu l’Agenzia Ebraica, fondata nel 1929 sotto l’egida dell’Organizzazione Sionista Mondiale, che metteva in pratica il proprio programma di insediamento aggressivo incentivando l’immigrazione ebrea e fondando nuove città in cui ospitare i coloni.
Il capo più abile e influente dell’agenzia fu forse David Ben-Gurion. Con lui nacque il primo proto-stato, i cui fondatori furono anche i primi funzionari.109
Gli obiettivi dichiaratamente politici e nazionalisti della terza aliyah accelerarono la crescita del nazionalismo palestinese. Gli scontri diventarono inevitabili. La situazione precipitò negli anni Trenta. La Rivolta Araba del 1936-39 cominciò con uno sciopero generale durato sei mesi.110
La Dichiarazione Balfour, che prese il nome dal ministro degli esteri britannico, è del 2 novembre 1917. Così Khalidi:
Il governo di sua maestà vedeva con favore l’istituzione in Palestina di una patria per gli ebrei, e fece di tutto per incoraggiare il raggiungimento di questo obiettivo. Il sottinteso era che non sarebbe stato fatto nulla che pregiudicasse i diritti civili e religiosi delle comunità non ebree esistenti in Palestina, nonché i diritti e lo status politico degli ebrei in qualunque altro paese.
Alla popolazione palestinese erano garantiti i soli diritti religiosi e civili, non quelli politici.111 Il mandato sulla Palestina del 1922, affidato alla Lega delle Nazioni, non solo assorbiva per intero la Dichiarazione Balfour, ma la rafforzava.112
Sette dei ventotto articoli che costituivano il mandato riguardavano i privilegi e gli istituti con cui il movimento sionista avrebbe dovuto applicare una sua politica nazionale… Il movimento sionista, rappresentato in Palestina dall’Agenzia Ebraica, fu nominato rappresentante ufficiale del popolo ebraico in Palestina, anche se bisogna dire che prima dell’immigrazione di massa di convinti sionisti europei la comunità ebraica era formata perlopiù da ebrei religiosi, o mizrahi in maggioranza non sionisti se non addirittura contrari al Sionismo. Ovviamente, per l’anonima maggioranza araba non fu nominato nessun rappresentante ufficiale.
L’articolo 2 del Mandato si occupava delle istituzioni di governo. Ma dal contesto si capisce che questo riguardava solo gli yishuv, come venivano chiamati gli ebrei di Palestina, mentre la maggioranza palestinese non poteva accedere a queste istituzioni… Istituzioni che rappresentassero tutto il paese, a base democratica e con un potere reale, non fecero mai parte dell’offerta (in linea con le rassicurazioni private fatte da Lloyd George a Weizmann), perché la maggioranza palestinese avrebbe ovviamente votato per la fine della posizione privilegiata accordata al movimento sionista nel loro paese.
Tra le disposizioni importanti del Mandato c’era l’articolo 4, che dava all’Agenzia Ebraica una qualifica semigovernativa in quanto “organismo pubblico” con ampi poteri in campo economico e sociale, con la possibilità “di servire e contribuire allo sviluppo del paese” in generale.
Il provvedimento, oltre a legare l’Agenzia Ebraica all’inderogabile governo, le permetteva di acquisire status diplomatico internazionale così da rappresentare formalmente gli interessi sionisti presso la Lega delle Nazioni e altrove. Questa rappresentatività era considerata un attributo della sovranità; il movimento sionista se ne servì per sostenere la propria posizione a livello internazionale e agire quasi come uno stato. Anche qui, la maggioranza palestinese, nonostante le ripetute richieste, non ebbe nessuno di questi poteri durante i trent’anni del Mandato…
In conclusione, il Mandato consentiva la nascita di un’amministrazione sionista, parallela a quella del governo britannico e con il compito di incoraggiare e sostenere quest’ultima. Questa istituzione parallela doveva esercitare, per una parte della popolazione, molte delle funzioni di uno stato sovrano, compresa la rappresentanza democratica e la gestione del sistema scolastico e sanitario, i lavori pubblici e la diplomazia. A completare gli attributi della sovranità mancava solo la forza militare. Sarebbe arrivata anche quella.113
L’autorità cominciò immediatamente mettendo in pratica gli obiettivi della Dichiarazione.
A questo fine, la Gran Bretagna mise in pratica tre provvedimenti critici. Il primo fu un’ordinanza sulle migrazioni, volta ad incoraggiare l’immigrazione degli ebrei. Il secondo fu un’ordinanza sulle terre che favoriva l’acquisizione di queste da parte degli ebrei e limitava i diritti di proprietà delle popolazioni arabe. Il terzo provvedimento, infine, dava alle imprese di imprenditori ebrei delle “concessioni” sullo stato e sulle risorse naturali in Palestina.114
Non furono affatto i palestinesi a rifiutarsi di vivere fianco a fianco con gli immigrati ebrei. Il rigetto fu semmai una risposta allo sfratto dei fellahin (contadini, NdT) ad opera dei coloni con l’appoggio dei britannici, un atto teso ad impedire il controllo delle risorse vitali e a istituire un’autorità semistatale in terre abitate da palestinesi.
La sua [di Yossef Weitz, capo del dipartimento insediamenti del Fondo Nazionale Ebraico] principale priorità in quel momento era agevolare lo sfratto dei fittavoli palestinesi dalle terre acquistate da proprietari assenteisti, i quali probabilmente vivevano lontano da quelle terre se non all’estero: il Mandato aveva creato confini laddove non ce n’erano. In passato, secondo la tradizione, se un pezzo di terra, o anche un villaggio intero, passava di mano, questo non significava che i contadini o gli abitanti dovevano trasferirsi; quella palestinese era una società contadina, e i nuovi padroni avrebbero avuto comunque bisogno di fittavoli che coltivassero la loro terra. Con l’arrivo dei sionisti tutto cambiò. Weitz visitava spesso personalmente un lotto di terra acquistato accompagnato dai suoi aiutanti, e incoraggiava i nuovi proprietari terrieri ebrei a cacciare via i fittavoli locali, anche quando il nuovo proprietario non aveva bisogno di tutto il lotto di terra. Uno dei suoi aiutanti più fedeli, Yossef Nachmani, raccontò una volta di alcuni fittavoli che ‘purtroppo’ si rifiutavano di andarsene e aggiunse che i proprietari ebrei si dimostrarono, parole sue, ‘così deboli da considerare l’ipotesi di lasciarli.’ Fu compito di Nachmani e di alcuni suoi aiutanti far scomparire queste ‘debolezze’: sotto la sua supervisione, gli sfratti diventarono ben presto drastici e efficienti.115
Ovviamente, tutto ciò alimentò la reazione e il risentimento delle popolazioni del posto.
Non appena ne ebbero la capacità, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, i palestinesi cominciarono ad organizzarsi politicamente sia contro il governo britannico che contro l’imposizione del movimento sionista quale interlocutore privilegiato dei britannici. Inviarono petizioni al governo britannico, alla Conferenza di Pace di Parigi e alla neonata Lega delle Nazioni. Lo sforzo maggiore fu rappresentato da una serie di sette congressi arabo-palestinesi programmati da una rete nazionale di associazioni cristiano-musulmane e tenutisi tra il 1919 e il 1928. I congressi produssero una serie consistente di richieste che avevano al centro l’indipendenza della Palestina araba, il rifiuto della Dichiarazione Balfour, il sostegno ad un governo di maggioranza e la fine della politica di immigrazione illimitata degli ebrei e dell’acquisto di terre…
In contrasto con queste iniziative delle élite, esplose la rabbia popolare per il sostegno britannico alle aspirazioni sioniste: manifestazioni, scioperi e scontri in crescendo, soprattutto negli anni 1920, 1921 e 1929. In tutti i casi si trattava di scoppi spontanei, spesso in seguito a provocazioni di gruppi sionisti. I britannici repressero con la stessa brutalità sia le manifestazione pacifiche che gli scoppi violenti, ma la rabbia popolare tra gli arabi rimase. All’inizio degli anni Trenta, giovani di estrazione sociale media e bassa, stanchi degli approcci concilianti delle élite, presero iniziative più radicali e si organizzarono in gruppi più militanti…
Inizialmente, tutte queste iniziative ebbero luogo all’ombra di un rigido regime militare britannico che durò fino al 1920 (uno dei congressi si tenne a Damasco perché i britannici avevano vietato attività politiche palestinesi), in seguito continuarono sotto vari commissari britannici.116
Ancora una volta, contrariamente a quanto sostengono gli apologeti di Israele, oggetto della contestazione non era l’immigrazione o gli insediamenti ebrei ma l’immigrazione di massa realizzata col sostegno di una grossa potenza imperialista, l’istituzione di un semistato sionista con un forte potere alle spalle, e l’acquisto delle terre d’intesa con proprietari assenteisti con il conseguente sfratto dei contadini. Le ostilità si intensificarono in seguito alle ammissioni della stampa ebraica in Palestina, alle quali “la stampa araba diede ampio spazio molto prima della guerra”, ovvero che “un’immigrazione libera avrebbe finito per produrre una maggioranza ebrea che avrebbe permesso la conquista del paese.”117
Finché ne fu capace, la comunità sionista in Palestina fece sia da autorità governativa che da economia autarchica che escludeva le popolazioni arabe. Quando i coloni ebrei scoprirono “l’esistenza di ‘un popolo straniero’”, come notava la Arendt nel 1948,
cominciò tra lavoratori ebrei e lavoratori arabi un’ostilità nascosta sotto il manto della lotta di classe contro i coloni ebrei, che ovviamente impiegavano gli arabi per fini capitalistici. L’ostilità, che fino al 1936 avvelenò l’atmosfera palestinese più di ogni altra cosa, mise in secondo piano le condizioni economiche delle popolazioni arabe che, con l’arrivo di capitali e forza lavoro ebrei e con l’industrializzazione del paese, si ritrovarono da un giorno all’altro trasformati in potenziali proletari con poche possibilità di trovare lavoro. Dall’altro lato, i lavoratori sionisti replicavano con i soliti argomenti, veri ma del tutto fuori luogo, riguardo il carattere feudale della società araba, il carattere progressista del capitalismo e la crescita diffusa dello standard di vita in Palestina che toccava anche le popolazioni arabe. A dimostrazione di quanto si possa diventare ciechi quando sono in gioco i propri interessi, veri o presunti, basta citare i loro slogan. Pur lottando tanto per la propria posizione economica quanto per gli obiettivi nazionali, la parola d’ordine restava “Avodah Ivrith” (i lavoratori ebrei). Ad esser sinceri, però, la minaccia principale non erano tanto i lavoratori arabi in quanto tali, bensì “avodah zolah” (il lavoro a basso costo), rappresentato dai lavoratori arabi sottosviluppati e non sindacalizzati.
Ne risultarono picchetti organizzati da lavoratori ebrei contro i lavoratori arabi, a cui i gruppi di sinistra, a cominciare dal più importante, Hashomer Hazair, non parteciparono direttamente. Oltre l’astensione però non si andò. I conseguenti problemi locali, la guerra intestina latente che continuava in Palestina fin dai primi anni Venti, interrotta da scoppi sempre più frequenti, non fecero che rafforzare l’atteggiamento del Sionismo ufficiale.118
Khalidi parla dell’ostilità crescente dei palestinesi quando cominciarono a capire che stavano diventando “stranieri in casa propria”:
Durante i primi vent’anni di occupazione britannica, la crescente opposizione dei palestinesi all’altrettanto crescente dominio de movimento sionista trovò sfogo in periodici scoppi violenti che avvenivano nonostante la promessa dei vertici palestinesi ai britannici di tenere a bada le proprie parti. Sporadici attacchi nelle campagne, spesso definiti “banditismo” da britannici e sionisti, testimoniavano la rabbia popolare verso gli acquisti di terra dei sionisti, a cui spesso seguiva l’espulsione dei contadini da quelle che erano le loro uniche fonti di sostentamento. All’inizio degli anni Trenta, le manifestazioni nelle città contro il dominio britannico e l’allargamento dell’entità semistatuale sionista si fecero più grandi e più militanti.119
Risale al 1929 il primo significativo scontro violento sull’accesso ai luoghi sacri di Gerusalemme. La questione di fondo non era però la presenza degli ebrei. Era piuttosto la paura che i coloni ebrei si appropriassero dei luoghi sacri islamici con il sostegno delle autorità britanniche. Le manifestazioni ebraiche del 15 agosto 1929 fecero scattare l’allarme tra i musulmani palestinesi. A causarle furono le immagini, popolari nelle cartoline ebree e diffuse a partire dalla fine dell’Ottocento, del tempio ebraico ricostruito sul sito della moschea al-Aqsa. Ad acutizzare la paura fu il fatto che la manifestazione era organizzata dai Revisionisti, ovvero dai fascisti seguaci di Jabotinsky. Trecento giovani revisionisti del Battaglione dei difensori della lingua, agitando bandiere sioniste, marciarono verso il Muro del pianto gridando “Il Muro è nostro” e cantando l’inno sionista “Hatikvah”120
Nel 1936, con la mediazione di governanti arabi in società con i britannici, ci fu uno sciopero generale, a cui seguì la falsa promessa che le lamentele dei palestinesi sarebbero state ascoltate. L’anno seguente la commissione Peel propose di destinare il 17% della Pelestina ad uno stato ebraico, lasciando il resto del mandato sotto il controllo britannico. La proposta scatenò una rivolta armata che i britannici impiegarono due anni a sopprimere. Le pratiche antisommossa britanniche, tra cui l’esecuzione sommaria per il possesso di un proiettile, furono poi riprese dai francesi in Algeria e da Israele nei territori occupati. Nella rivolta fu ucciso un decimo della popolazione nella Palestina araba.121 La posizione sionista in Palestina ne uscì fortemente rafforzata grazie a grosse forniture e addestramento fornito dai britannici alle milizie dei coloni.122
La proposta di ripartizione fatta dalla commissione Peel ebbe anche, secondo Mamdani, l’effetto di allontanare molti coloni, i quali erano risentiti dal fatto che, come era sempre più chiaro, “secondo i britannici la nascita di una casa per gli ebrei comportava la condivisione della terra santa, che non corrispondeva affatto ciò che volevano i coloni…”
La Seconda Guerra Mondiale indebolì la capacità delle autorità mandatarie britanniche di combattere gli obiettivi sionisti. “Lo spostamento delle truppe britanniche in Europa lasciò il campo aperto alle milizie dei coloni, le quali si rafforzarono. A dicembre del 1947 erano sufficientemente potenti da cacciare via le popolazioni arabe dai loro territori.”123
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, scrive Khalidi, di fronte al “pieno sviluppo del semistato dell’Agenzia Ebraica,”
al quale il mandato della Lega delle Nazioni aveva garantito le armi necessarie per governare, i palestinesi non potevano opporre nessun ministro degli esteri, nessun potere diplomatico… nessuna istituzione governativa, tanto meno una forza militare organizzata centralmente. Non avevano né la capacità di reperire i fondi necessari né il consenso internazionale necessario a fondare le istituzioni statali. Quegli inviati palestinesi che riuscivano ad incontrare funzionari stranieri, a Londra o a Ginevra, si sentivano dire che non avevano ufficialità e che pertanto quegli incontri non potevano che avere carattere privato, non ufficiale.124
Nell’anno 1947, esaurito dalla guerra e da una guerriglia sionista che la Gran Bretagna non aveva voglia di affrontare, il governo Atlee passò la questione palestinese alla Commissione Speciale sulla Palestina dell’ONU. La risoluzione 181 del 29 novembre sollecitava una divisione del territorio che dava il 56% allo stato ebraico, contro il 17% anteguerra della Commissione Peel.125
A dicembre del 1947, Haganah cominciò una sistematica campagna di intimidazioni contro i villaggi palestinesi. Secondo uno schema tipico, descritto da Pappé, “entravano in un villaggio indifeso verso la mezzanotte e vi restavano per qualche ora sparando chiunque osasse farsi vedere, dopodiché andavano via.”126 Pappé descrive il caso del villaggio di Deir Ayyub:
Quel giorno il villaggio aveva festeggiato l’apertura di una nuova scuola, che contava già un promettente numero di cinquantun bambini iscritti, grazie ai soldi raccolti tra gli abitanti con cui si poteva pagare anche il maestro. Ma la gioia scomparve quando, alle dieci della sera, una compagnia di venti soldati ebrei entrò nel villaggio, che come tanti altri nel mese di dicembre non aveva difese di nessun genere, e cominciò a sparare alla cieca.127
Seguì il 31 dicembre un intensificarsi della campagna terroristica, stavolta con grossi massacri, al fine di saggiare la volontà delle forze britanniche di intervenire. Il comando supremo “decise di saccheggiare un intero villaggio massacrando gran parte dei suoi abitanti.” Ordinò alle forze locali di circondare il villaggio di Balad al-Shaykh, “uccidere il maggior numero possibile di uomini, distruggere tutto ma senza attaccare le donne e i bambini.” Da notare il tentativo di risparmiare le donne: in seguito i capi israeliani decisero che la distinzione tra uomini e donne era un’inutile complicazione. Ad Haifa intanto le forze di Hagana espulsero tutta la popolazione del quartiere di Wadi Rushmiyya e demolirono tutte le case. Seguì a gennaio l’espulsione di altri 5 mila abitanti del quartiere di Hawassa e la demolizione delle case. Una lunga serie di bombardamenti terroristici nei quartieri arabi furono opera di Irgun.128
A gennaio ci fu un incontro decisivo tra i leader israeliani in casa di Ben-Gurion, incontro che Pappé definisce il “Lungo Convegno”. Fu deciso un cambio di politica: dalla rappresaglia, anche di massa o sotto forma di punizione collettiva, alla pulizia etnica. Stando a quello che riferirono due partecipanti all’incontro, “serviva una politica più aggressiva in zone che erano ‘calme da troppo tempo’.” Alla fine dell’incontro, Ben-Gurion…
diede il via libera ad una serie di attacchi provocatori o mortali contro villaggi arabi, alcuni per rappresaglia e altri no, con l’intenzione di fare danni in misura ottimale e uccidere quante più persone possibile. Vedendo che i primi obiettivi proposti erano tutti a nord, propose un’azione di prova anche al sud; un’azione mirata, non generica. Ben-Gurion si rivelò improvvisamente una mente vendicativa. Insistette per un attacco contro la città di Beersheba (oggi Beer Sheva), con l’intento particolare di uccidere al-Hajj Salameh Ibn Said, il vice sindaco e suo fratello, colpevoli di essersi rifiutati in passato di collaborare con il programma di insediamenti sionisti nell’area. Non c’era alcun bisogno, sottolineò Ben-Gurion, di distinguere tra ‘innocenti’ e ‘colpevoli’: era giunta l’ora dei danni collaterali. Anni dopo Danin spiegò cosa intendeva Ben-Gurion per danni collaterali: ‘Dopo ogni attacco doveva venire l’occupazione, la distruzione e l’espulsione.’ Secondo Danin si parlò di alcuni villaggi specifici.129
In seguito negli anni Sessanta uno dei partecipanti all’incontro ammise che “[s]e [i militari sionisti] non fossero stati addestrati per le provocazioni, la guerra [del 1948] avrebbe potuto essere evitata.”130
Anche i civili israeliani si lamentarono del fatto che le provocazioni dei militari stavano sconvolgendo i loro tentativi di instaurare relazioni pacifiche con i vicini arabi.
Il sette di gennaio, durante uno degli incontri settimanali, funzionari della città di Tel Aviv si chiesero come mai a Giaffa a portare avanti le provocazioni era anche Hagana e non solo Irgun, quando questi ultimi erano riusciti ad assicurare un’atmosfera di pace tra le due città confinanti. Il venticinque di gennaio del 1948, una delegazione di questi alti funzionari incontrò Ben-Gurion in casa sua, e lamentò il cambiamento drastico di comportamento di Hagana verso Giaffa. Tra Giaffa e Tel Aviv esisteva un accordo tacito secondo cui tra le due città, lungo la costa, avrebbe dovuto restare una striscia di terra di nessuno che permettesse una precaria convivenza. Senza consultarsi con loro, soldati di Hagana erano entrati nella striscia, coltivata ad agrumi, turbando il delicato equilibrio. E questo era stato fatto, protestò uno dei partecipanti, in un momento in cui le due amministrazioni cittadine stavano cercando un accordo di coabitazione. Hagana, a quanto pare, stava cercando di mandare all’aria questi tentativi di accordo con attacchi a caso: uccidendo senza una ragione persone trovate nei pressi dei pozzi in terra di nessuno, derubando gli arabi, picchiandoli, distruggendo i pozzi, confiscando le proprietà e sparando alla cieca per diffondere il terrore.
Lamentele simili, notava Ben-Gurion nel suo diario, venivano da rappresentanti di altre amministrazioni di città situate in prossimità di città o villaggi arabi. Erano arrivate proteste da Revohot, Nes Ziona, Rishon Le-Zion e Petah Tikva, il primo insediamento ebreo nell’hinterland di Tel-Aviv i cui rappresentanti, così come i loro vicini palestinesi, non capivano che Hagana stava adottando un ‘nuovo approccio’ contro la popolazione palestinese.131
Dopo il Lungo Convegno, Hagana mantenne un atteggiamento permissivo verso le incursioni terroristiche indipendenti, con bombardamenti, uccisioni e torture.132
Questo mentre la classica versione sionista parla di palestinesi che non accettavano la convivenza pacifica con i coloni ebrei.
Il primo esercito di volontari arabi, ALA, entrò in Palestina il nove di gennaio e impegnò le forze ebree in piccole battaglie riguardanti percorsi e insediamenti ebrei isolati.”133
Il diciannove febbraio i partecipanti del precedente Lungo Convegno si riunirono per la seconda volta nello stesso luogo. Ezra Danin riferì: “‘Gli abitanti dei villaggi non desiderano combattere. Per di più l’ALA limita le sue attività alle zone che l’ONU ha destinato al futuro stato palestinese.”134 Ciononostante, Ben-Gurion insistette sull’intensificazione della pulizia etnica.
Dopo la vittoria in seguito alle [prime] schermaglie, la leadership passò ufficialmente dalle tattiche di rappresaglia a operazioni di pulizia. Seguirono espulsioni coatte a metà di febbrario del 1948, quando in un giorno solo le truppe ebree riuscirono a vuotare cinque villaggi.135
A febbraio fu discussa la bozza del Piano Dalet, adottato ufficialmente il dieci marzo seguente. In quella data…
un gruppo di undici uomini, tra leader veterani sionisti e giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al programma di pulizia etnica della Palestina. Quella stessa sera fu diramato l’ordine alle unità sul posto di prepararsi ad espellere sistematicamente i palestinesi da vaste regioni del paese. Gli ordini furono accompagnati da una descrizione dettagliata dei metodi da adottare per costringere la gente ad andarsene: intimidazioni massicce; assedio e bombardamento dei villaggi e dei centri popolati; incendio delle case e di tutti i beni; espulsioni; demolizioni. Infine si raccomandava di minare le macerie per evitare che gli abitanti tornassero. Ogni unità ricevette una lista di villaggi e quartieri da prendere di mira. Con il nome in codice Piano D (Dalet, in ebreo), questa era la quarta e ultima versione di piani più sostanziali che delineavano ciò che i sionisti avevano in serbo per la Palestina e la sua popolazione nativa. I tre piani precedenti fornivano solo una vaga articolazione di come i leader sionisti intendevano trattare la presenza dei tanti palestinesi che vivevano sulla terra che il movimento nazionale ebraico voleva fare sua. La quarta e ultima redazione affermava chiaro e tondo: i palestinesi devono andarsene.136
Il Piano Dalet non usava mezzi termini quanto a obiettivi e mezzi:
Le operazioni devono essere condotte come segue: o si distruggono i villaggi (appiccando il fuoco, facendoli saltare in aria e minando le macerie), soprattutto quelli difficili da tenere sotto controllo permanente; oppure si passano al setaccio seguendo queste linee guida: si accerchia il villaggio e si fa un rastrellamento. In caso di opposizione, le forze armate devono essere spazzate via e la popolazione espulsa dai confini dello stato.137
Pappé definisce il piano “il prodotto inevitabile del desiderio ideologico sionista di avere una Palestina popolata solo da ebrei, ma anche una reazione agli sviluppi quando il consiglio dei ministri britannico decise di mettere fine al mandato.”
Scontri con le locali milizie palestinesi fornirono il contesto perfetto e il pretesto per la messa in pratica del programma ideologico di una Palestina etnicamente pulita. All’inizio la politica sionista si basava su operazioni di rappresaglia contro gli attacchi palestinesi del mese di febbraio del 1947; a marzo del 1948 diventò un’operazione di pulizia etnica di tutto il paese.138
La pulizia etnica fu pianificata con spietata scrupolosità scientifica, con date e elenchi dei villaggi da liquidare.
Il paese fu diviso in zone secondo il numero delle brigate. Le originarie quattro brigate Hagana diventarono dodici, così da facilitare la messa in pratica del programma. Ogni comandante di brigata ricevette un elenco di villaggi o quartieri da occupare per poi distruggerli ed espellere la popolazione, ognuno con una data precisa.139
La bozza del Piano Dalet approvato dai leader politici prevedeva di risparmiare dalla distruzione quei villaggi che si arrendevano incondizionatamente. Inoltre la pulizia etnica avrebbe dovuto attuarsi solo dopo il ritiro dei britannici. La versione consegnata dal comando militare alle forze Hagana, al contrario, non prevedeva misure per chi si arrendeva. I comandanti delle brigate dovevano ordinare la distruzione immediata dei villaggi.140
Secondo Khalidi, il piano era genocida tanto nell’ideazione quanto nella realizzazione:
Il Piano Dalet prevedeva la conquista e l’evacuazione ad aprile e nella prima metà di maggio dei due principali centri urbani arabi, Giaffa e Haifa, nonché dei quartieri arabi di Gerusalemme Ovest e di tante altre città, cittadine e villaggi arabi, tra cui Tiberiade il diciotto aprile, Haifa il ventitrè, Safad il dieci maggio e Beisan l’undici. La pulizia etnica cominciò molto prima della proclamazione dello stato di Israele il quindici maggio del 1948.
Giaffa fu assediata e bombardata incessantemente con mortai e presa di mira dai cecchini. Dopo l’invasione sionista, le prime settimane di maggio, quasi tutti i suoi sessantamila residenti arabi furono evacuati sistematicamente. Pur essendo Giaffa destinata a far parte dell’abortito stato arabo dal Piano di Partizione del 1947, nessun attore internazionale cercò di evitare questa importante violazione della risoluzione dell’ONU. Sottoposti a bombardamenti e attacchi contro i suoi maldifesi quartieri, i sessantamila palestinesi di Haifa, i trentamila di Gerusalemme Ovest, i dodicimila di Safad, i seimila di Beisan e i 5.500 di Tiberiade subirono la stessa sorte…
In cittadine e villaggi di tutto il paese la popolazione era in fuga. Tutti fuggivano mentre si diffondeva la notizia di massacri come quello del nove aprile 1948 nel villaggio di Dayr Yasin, vicino a Gerusalemme, dove un centinaio di residenti, sessantasei dei quali donne, bambini e vecchi furono massacrati da Irgun e Haganah.141
Durante questa prima fase della Nakba, prima del quindici marzo 1948, la pulizia etnica portò all’espulsione o alla fuga di circa 300 mila palestinesi e alla devastazione di molti dei centri urbani d’importanza economica, culturale e amministrativa a maggioranza araba. La seconda fase cominciò dopo il quindici maggio, quando il nuovo esercito israeliano sconfisse gli eserciti arabi… In seguito a questa sconfitta, e dopo ulteriori massacri di palestinesi, 400 mila persone furono espulse o fuggirono in direzione degli stati confinanti: Libano, Siria, Giordania, nonché Cisgiordania e Striscia di Gaza (queste ultime costituivano il 22 percento della Palestina che non era stata conquistata da Israele). La distruzione di case e villaggi rese impossibile il ritorno.142
Il nove aprile ci fu la più tristemente famosa tra le atrocità di Israele: il massacro di Deir Yassin.
Il carattere sistematico del Piano Dalet si manifesta in Deir Yassin, un tranquillo villaggio di pastori che era giunto ad un patto di non aggressione con Hagana a Gerusalemme, ma che tuttavia era condannato ad essere spazzato via perché rientrava tra le aree che secondo il piano dovevano essere ripulite. Visto il precedente patto siglato con il villaggio, Hagana decise di mandare le truppe di Irgun e Stern così da non avere responsabilità ufficiali. Quando, in seguito, si trattò di ripulire altri villaggi ‘amici’, neanche questo passaggio fu ritenuto necessario…
I soldati irruppero nel villaggio e mitragliarono le case uccidendo molti abitanti. I superstiti furono radunati e uccisi a sangue freddo e i loro corpi ingiuriati; molte donne furono prima stuprate e poi uccise.143
Pulizia etnica e disarabizzazione delle città procedettero assieme, cominciando da Tiberiade il diciotto aprile. Le settimane seguenti fu il turno di Haifa, Safad, Gerusalemme Ovest, Acre e Giaffa e altre.144
Contrariamente a ciò che racconta la versione ufficiale israeliana, la pulizia etnica del 1948 portò all’espulsione forzata di oltre 300 mila palestinesi prima che la Lega Araba intervenisse militarmente. Ilan Pappé riassume questa versione dei fatti, diventata poi la versione standard:
La storiografia inventata da Israele parla di un massiccio ‘trasferimento spontaneo’ di centinaia di migliaia di palestinesi, che decisero di lasciare temporaneamente le loro case e i loro villaggi per fare spazio agli eserciti arabi invasori che stavano distruggendo il neonato stato ebraico.145
Fonti storiche dimostrano che i leader militari e politici arabi non solo non ordinarono l’abbandono di villaggi e città da parte dei palestinesi, ma erano contrari.
La storia dell’esodo “ordinato dall’alto” dai vertici arabi, nonostante l’improbabilità, fu per molti anni una trovata propagandistica particolarmente efficace. Dal punto di vista logistico militare, l’idea che i vertici militari abbiano chiesto alla popolazione di lasciare le case per aprire la strada agli eserciti invasori, e per poi tornare e condividere la vittoria, non ha nessun senso. Gli eserciti arabi venivano da luoghi lontani e le loro operazioni, visto che si svolgevano nella Palestina araba, avevano bisogno dell’aiuto della popolazione locale per il vettovagliamento, il carburante, l’acqua, i trasporti, manodopera e informazioni.
La recente pubblicazione di migliaia di documenti sionisti e degli archivi di stato, così come anche dei diari di guerra di Ben-Gurion, dimostra che non ci sono prove a sostegno della versione di Israele. Il materiale desecretato smentisce la teoria dell’“ordine dall’alto”, tra le fonti ci sono documenti che testimoniano i grossi sforzi del Supremo Comitato Arabo e degli stati arabi volti a bloccare la fuga.146
…Stando a Aharon Cohen, capo del dipartimento arabo del Mapam (partito israeliano filosovietico, NdT), la leadership araba era molto scettica riguardo presunte “voci che dicevano di quinte colonne” dietro la fuga. Quando, dopo il mese di aprile del 1948, la fuga assunse dimensioni enormi, Abd al-Rahman Azzam Pasha, segretario della Lega Araba, assieme a re Abdallah, rivolsero un appello agli arabi palestinesi affinché non lasciassero le case. Fawzi al-Qawukji, comandante dell’Esercito Arabo di Liberazione, ricevette l’ordine di fermare la fuga con la forza ricorrendo anche alla requisizione dei mezzi di trasporto.147
Secondo fonti palestinesi, già a marzo-aprile il Supremo Comitato Arabo, in trasmissione radio da Damasco, chiese alla popolazione di non muoversi e invitò i palestinesi in età da militare nei paesi arabi a tornare in Palestina. Anche tutti gli ufficiali arabi in Palestina furono invitati a restare ai loro posti. Ma perché questi inviti ebbero così scarsi effetti? Perché furono sopraffatti dall’effetto cumulativo delle pressioni sioniste, dalle pressioni economiche alla guerra psicologica fino alla cacciata della popolazione araba palestinese ad opera dell’esercito.148
Moltissimi documenti dimostrano non solo che la versione di Israele riguardo la pulizia etnica vera e propria è falsa, come già detto, ma anche che lo sfollamento della popolazione era stato pensato molto prima dei combattimenti.
Nel corso degli anni Trenta, le autorità sioniste fecero ricerche sistematiche su tutti i villaggi della Palestina, compresa la topografia difensiva e la popolazione maschile in età da militare; in particolare queste ricerche riguardavano quei villaggi con cui i coloni avevano conti in sospeso (ad es., chi aveva preso parte a rivolte in passato, era coinvolto nel movimento nazionale palestinese, aveva perso parenti in scontri con i sionisti o aveva ucciso ebrei: tutte persone che poi finirono nelle liste delle esecuzioni sommarie del 1948), e servivano ad un futuro attacco militare. Moshe Pasternak, che aveva preso parte ad una di queste spedizioni nel 1940, scrive col senno di poi:
Dovevamo studiare la struttura in generale del villaggio arabo. La struttura e anche il modo migliore per attaccarlo. Alla scuola militare mi era stato insegnato come assaltare una moderna città europea, non un villaggio primitivo del Medio Oriente. Un villaggio arabo non poteva essere paragonato ad uno polacco o austriaco. Il villaggio arabo topograficamente si trovava in cima a una collina. Questo significa che dovevamo avvicinarci al villaggio dall’alto o entrarci da sotto.149
Uno di questi villaggi, Umm al-Zinat, fu sistematicamente infiltrato nel 1944 da informatori, i quali raccolsero informazioni sulla ubicazione della moschea, la casa dell’Imam e di altre personalità, e le armi. Nel 1948, secondo gli scritti di Pappé il quale attinge agli archivi di Haganah, il villaggio fu distrutto e i suoi abitanti espulsi senza una ragione.150
Scrive Pappé che “fonti palestinesi dimostrano chiaramente” che la pulizia etnica era iniziata molto prima del quindici maggio (giorno in cui i palestinesi si sarebbero “autoespulsi” per facilitare l’invasione araba):
Il ventinove di novembre del 1947 fu approvato il Programma di Separazione. Ai primi di dicembre iniziò la pulizia etnica con una serie di attacchi ebraici contro villaggi e quartieri palestinesi per vendicare la devastazione di centri commerciali e autobus durante le proteste palestinesi contro la risoluzione dell’ONU adottata pochi giorni prima. Per quanto sporadici, questi primi attacchi ebrei erano sufficientemente pesanti da causare la fuga di un gran numero di persone (quasi 75 mila).151
…[M]esi prima dell’ingresso delle forze arabe in Palestina, mentre i britannici avevano ancora il compito di imporre legge e ordine nel paese (quindi prima del quindici di maggio) le forze ebree erano già riuscite ad espellere con la forza quasi 250 mila palestinesi.152
Aggiunge poi in nota:
David Ben-Gurion, in Rebirth and Destiny of Israel dice francamente: “Fino alla partenza dei britannici [quindici maggio 1948] nessun insediamento ebreo, per quanto remoto, fu invaso o conquistato da arabi, mentre Haganah… riuscì a catturare molte località arabe e liberò Tiberiade, Haifa, Giaffa e Safad… Così nel giorno voluto dal destino quella parte della Palestina dove Haganah riuscì ad intervenire era praticamente priva di arabi.”153
Il trenta aprile, in reazione all’escalation, la Lega Araba decise di intervenire direttamente con forze militari, ma soltanto dopo la fine del mandato britannico.154
Il quindici maggio del 1948, mentre i britannici partivano, l’Agenzia Ebraica dichiarò lo stato ebraico in Palestina, ufficialmente riconosciuto dalle due superpotenze del tempo: Stati Uniti e Unione Sovietica. Lo stesso giorno, le forze regolari arabe entrarono in Palestina.155
E proprio quando, a quanto si dice, i palestinesi avrebbero dovuto “autoespellersi” per aiutare gli eserciti invasori arabi, centinaia di migliaia erano già stati espulsi con la forza dagli israeliani.
Altra assurdità ufficiale è che la guerra sia cominciata a maggio del 1948 in uno scenario da Davide contro Golia o che poteva essere un “secondo Olocausto”. Se qualcuno faceva le parti di Golia, questo era Israele.
Poche settimane dopo l’inizio della guerra, la campagna di arruolamenti israeliana si dimostrò così efficace che entro la fine dell’estate l’esercito arrivò a 80 mila soldati. Le forze regolari arabe, per contro, non andarono mai oltre i 50 mila, e non ricevevano più armi dalla Gran Bretagna, che era il loro principale fornitore.156
Subito dopo l’adozione della risoluzione ONU 181, i leader arabi annunciarono ufficialmente l’invio di truppe in difesa della Palestina. Mai una volta, tra la fine di novembre del 1947 e il mese di maggio del 1948, Ben-Gurion, e, aggiungo, il gruppetto di sionisti che gli stava attorno, temettero per il proprio futuro stato, o pensarono che le operazioni militari fossero così impegnative da rallentare le espulsioni dei palestinesi. Pubblicamente, i leader della comunità ebraica parlavano di scenari apocalittici e mettevano in guardia contro un ‘secondo Olocausto’. In privato questi toni sparivano. Sapevano benissimo che alla retorica di guerra degli arabi non corrispondeva una seria preparazione. Come ho detto, sapevano bene che erano male equipaggiati, mancavano di esperienza sul campo e anche di addestramento, e che pertanto avevano capacità combattive limitate per ogni genere di conflitto. I leader confidavano sulla loro superiorità militare, sapevano che erano in grado di realizzare gran parte del loro piano ambizioso. E avevano ragione.157
I curatori editoriali del diario di Ben-Gurion rimasero sorpresi quando scoprirono che tra il primo aprile e il quindici maggio del 1948 il capo della comunità ebraica in Palestina sembrava piuttosto noncurante degli eventi militari.
Era molto più preoccupato per la politica sionista interna, era molto impegnato in questioni organizzative pratiche come: come trasformare i nuovi arrivi ebrei in funzionari del nuovo stato di Israele? Dal suo diario non traspare affatto la sensazione di una catastrofe incombente, o di un ‘secondo Olocausto’, come invece dichiarava appassionatamente in pubblico.
Quando era con i suoi, parlava un’altra lingua. Agli inizi di aprile elencò orgogliosamente ai membri del suo partito Mapai i villaggi arabi che le truppe israeliane avevano appena occupato…
C’è un contrasto enorme tra quello che scriveva sul suo diario e le paure che instillava pubblicamente nella gente, e dunque nella memoria collettiva di Israele. Si intuisce quanto fosse cosciente del fatto che la Palestina fosse nelle sue mani.158
La pulizia etnica della Palestina prima del cessate il fuoco non fu il sottoprodotto di una disperata campagna difensiva combattuta aspramente, ma era stata pianificata a freddo mesi prima, come obiettivo a sé, da una leadership che confidava nella sua capacità di sconfiggere qualunque forza militare araba. A febbraio Ben-Gurion poteva dichiarare con certezza che Israele era in grado non solo di difendersi, ma anche di attaccare la Siria e quindi di “conquistare tutta la Palestina”.159
Secondo la storiografia classica, marzo fu il mese cruciale della guerra, e ad aprile ci fu il punto di svolta.
Secondo una certa versione dei fatti, una comunità ebraica in Palestina, isolata e sotto minaccia, dopo aver sfiorato la sconfitta passò dalla difesa all’offesa. La realtà non potrebbe essere più lontana: le differenze in termini militari, politici e economici tra le due comunità erano tali che non solo la maggioranza ebraica non correva nessun pericolo, ma, tra l’inizio di dicembre del 1947 e la fine di marzo del 1948, l’esercito era riuscito a completare la prima fase della pulizia etnica della Palestina, molto prima che si mettesse all’opera il piano generale. Se ci fu un punto di svolta ad aprile, fu il passaggio da una serie di attacchi e contrattacchi contro la popolazione civile palestinese ad una sistematica, massiccia operazione di pulizia etnica.160
Al quindici maggio gli israeliani avevano una superiorità numerica di svariate volte rispetto alle forze arabe combinate, “se si tiene conto delle truppe in seconda linea negli insediamenti, i battaglioni di reclute Gadna, la guardia nazionale e i gruppi Irgun e LEHI”. A partire dal venti, grazie a massicci trasferimenti di armi dall’Europa, la superiorità fu acquisita anche in questo campo.161
A comandare le forze arabe, entrate in guerra dopo il quindici maggio, era Re Abdallah di Giordania, il quale per qualche tempo aveva negoziato con gli israeliani la presa di una parte della Palestina, ovvero la Cisgiordania, che secondo il Piano di Partizione avrebbe dovuto restare araba. In termini di risorse, lo sforzo arabo fu piuttosto debole. I paesi arabi…
inviarono contro gli israeliani meno della metà delle loro forze armate, il minimo assoluto per sostenere una guerra contro Israele secondo i capi di stato maggiore. E per quanto Abdallah fosse comandante generale, non fu mai messo al corrente delle dimensioni, della composizione e dei piani strategici degli eserciti d’invasione. Un’invasione che cercarono di evitare fino all’ultimo. Sapevano di non poter sconfiggere lo stato ebraico. Altrimenti non avrebbero mai lasciato “l’onore della vittoria” nelle mani di Abdallah. Uno dei leader arabi più nazionalisti, Akram Hourani, del partito Baath siriano, dichiarò davanti al parlamento siriano: “la guerra per la salvezza della Palestina volge al termine, la creazione di uno stato ebraico è pressoché conclusa. L’intervento degli stati arabi non cambierà nulla.” In breve, proprio la nomina di Abdallah a comandante delle forze arabe significa che gli arabi non credevano nella possibilità di liquidare Israele con un intervento militare.162
E c’era chi parlava della minaccia di “gettare a mare gli ebrei”.
Dopo l’ingresso degli eserciti arabi, il quindici maggio, l’esercito giordano, il più forte della coalizione, fu in gran parte neutralizzato da accordi privati tra Re Abdallah e i leader israeliani. Gli sforzi della Giordania servivano principalmente a difendere i confini della Cisgiordania come da negoziato privato con gli israeliani. I combattimenti veri e propri furono a difesa della rivendicazione di Gerusalemme Est da parte di Abdallah. Perlopiù, gli eserciti arabi si limitarono ad occupare quelle zone della Palestine che erano state assegnate allo stato arabo dall’ONU e ad accerchiare qualche isolato insediamento ebreo in quelle zone. Anche così, però, sul risultato non c’erano dubbi: il ritardo con cui furono rotti gli accerchiamenti e espulse le forze arabe fu dovuto al fatto che Ben-Gurion dava priorità alla pulizia etnica in zone a prevalenza ebraica piuttosto che al combattimento con le forze militari arabe, un fatto che la dice lunga sull’entità di ciò che minacciava Israele in quel momento. La superiorità in loco di Hagana fu subito evidente quando arrivò agli accerchiamenti, che furono rimossi uno dopo l’altro. Le leggende eroiche che parlano di coloni israeliani disperati con una mano sull’aratro e nell’altra il fucile si riferiscono perlopiù a casi in cui il pericolo era tutt’al più modesto.163
Flapan conferma che le forze arabe si limitarono perlopiù a difendere dagli attacchi israeliani quelle zone che il Piano di Partizione assegnava alle popolazioni arabe.
Per quanto Abdallah avesse proseguito con il suo doppio gioco durante tutta la guerra, tenne fede alla promessa di non interferire con la creazione dello stato ebraico e di non attaccarne le forze armate. I combattimenti tra le forze ebraiche e la Legione Araba ebbero luogo a Gerusalemme e in quelle aree che la risoluzione dell’ONU non includeva nello stato ebraico. A Latrun e Bab al-Wab la Legione Araba combatté una battaglia difensiva contro le forze israeliane nel tentativo di conquistare i villaggi arabi lungo la strada di Gerusalemme, ma non impedì né disturbò la costruzione di una nuova strada ad opera degli Israeliani. La legione abbandonò Lydda e Ramleh, “isole arabe”, come le definì Ben-Gurion, in territorio israeliano. Ci fu anche una sorta di intesa tra Abdallah e Israele quando l’IDF lanciò l’offensiva contro le forze egiziane nel Negev. Gli israeliani conquistarono Beersheba il ventuno di ottobre e Beit Jibrin e Beit Hanoun il ventidue. Il giorno dopo la Legione Araba conquistò Betlemme ed Ebron, già occupate dagli egiziani. Nei suoi negoziati con gli israeliani, Abdallah non nascose il desiderio di vedere sconfitte le forze egiziane. La sua era una strategia vera e propria volta ad ottenere un obiettivo chiaro: impedire ad egiziani e siriani di impadronirsi delle aree palestinesi minando così qualsiasi azione militare araba congiunta.164
Flapan sfata il “mito della Guerra di Indipendenza… secondo cui molti ebrei sarebbero morti difendendo il Yishuv.”
I numeri… dicono tutt’altro. Oltre il 50% morì in azioni offensive e solo il 21% in azioni difensive. Il 60% del totale, inoltre, morì in azioni fuori dai confini dello stato ebraico.165
Contrariamente ad una certa storiografia convenzionale, che parla di un Israele “a rischio di annientamento”, sarebbe meglio dire che, tutt’al più, Israele “trovò qualche ostacolo sulla via del completamento della pulizia etnica.”166
Comunque sia, la pulizia etnica continuò a passo spedito e fu portata a termine esattamente come programmato. Così Pappé descrive il modo di procedere di Hagana dopo l’occupazione di una comunità palestinese:
Servendosi di informatori, individuavano e identificavano uomini sospettati di aver attaccato ebrei in passato, o che appartenevano al movimento nazionale palestinese, o che semplicemente stavano in odio agli informatori che sfruttavano così l’occasione per saldare vecchi conti. Questi uomini venivano solitamente uccisi subito… L’unità aveva anche il compito, non appena un villaggio o città veniva occupata, di separare tutti gli uomini ‘in età da militare’, ovvero tra i dieci e i cinquant’anni, mentre il resto della popolazione veniva ‘soltanto’ espulso o internato in campi di prigionia.167
Il risultato finale, in termini numerici, è paragonabile ai crimini commessi da Milosevič nella ex Yugoslavia. Così Mamdani:
Nel 1948 esistevano 526 distinte comunità palestinesi. Quattro anni dopo, 418 erano state o distrutte o espropriate e destinate ad altri usi. Alcune località in rovina furono rimboschite; sopravvissero solo alcuni luoghi sacri e monumenti storici a mo’ di memento tra gli alberi. Altre località furono recintate e trasformate in fattorie. Le infrastrutture che non venivano distrutte potevano essere appropriate dagli ebrei e magari entrare a far parte di quartieri urbani. Alcune località rimaste intatte diventarono “comunità di artisti, mostre, musei e attrazioni turistiche” (come Ein Houd, Cesarea, il vecchio porto di Safad, Ez-Zib, alcune parti di Giaffa e Acre), oppure parchi pubblici (come Yalo, Imwas, Kabri, Lubia, Dallatheh, Qula, Muzeir’a). Hadeel Assali, antropologo palestinese, scrive del porto di Giaffa: “vecchie case e edifici palestinesi sono stati trasformati in gallerie d’arte”. … Alcune comunità rimaste intatte, infine, furono usate per reinsediare nel nuovo stato di Israele persone di etnia araba mandate via altrove.168
Secondo una versione sionista diffusa, i palestinesi furono espulsi soltanto perché rifiutavano la proposta di uno stato in Palestina fatta dal Piano di Partizione dell’ONU e non potevano essere mandati via in altro modo. Come spiega Flapan:
La leggendaria volontà di Israele di accettare il compromesso e il sacrificio pur di raggiungere lo scopo dello stato ebraico era alla base di tutti i miti nati nel periodo cruciale tra le due delibere dell’ONU del 1947 e 1948. Questo mito tornava a galla ogni volta che i rappresentanti israeliani, Moshe Sharett, Abba Eban, Eliyahu (Eliat) Epstein, Gideon Raphael e Michael Comay, parlavano con delegati dell’ONU, ministeri degli esteri e diplomatici esteri…
L’apparente accettazione della risoluzione restava l’arma propagandistica principale di Israele, che pure ne violava tutti i capi uno dopo l’altro. Oggi, che Israele controlla la Cisgiordania, le Alture del Golan e il sud del Libano, il mito continua, inscritto nella coscienza nazionale israeliana e nei libri scolastici.169
I documenti dicono, al contrario, che i leader sionisti in Palestina avevano previsto il trasferimento delle popolazioni arabe già molto prima della Seconda Guerra Mondiale, e che pur riconoscendo in pubblico il Piano di Partizione, in privato si riservavano il diritto non solo di assorbire tutta la Palestina ma anche di allargarsi alla Transgiordania, al Libano, praticamente a tutto il vecchio regno di Salomone all’apice dell’espansione.170
Ben-Gurion considerava l’accettazione di un qualsiasi piano di partizione come fatto puramente temporaneo, un cavallo di Troia in vista di un futuro allargamento, per giungere alla proposta di partizione della Commissione Peel.
A suo parere, la tendenza crescente dei britannici, in seguito alla rivolta degli arabi, a limitare l’immigrazione ebraica, gli acquisti di terre e gli insediamenti, rendevano impellente l’istituzione immediata di uno stato, anche se l’estensione degli insediamenti era al momento ridotta. La proposta della commissione Peel, notava, “ci offre un’ottima base strategica… su cui lottare. … è il primo documento dai tempi del Mandato che rafforza il nostro status politico e etico… ci offre il controllo della costa palestinese, possibilità di immigrazione di massa, un esercito ebreo e una colonizzazione sistematica sotto il controllo dello stato.”
L’obiettivo di lungo termine di Ben-Gurion era chiarissimo: “Come non vedo nella proposta di uno stato ebraico la soluzione dei nostri problemi di popolo ebraico,” disse rivolto ai membri del suo partito, “così io non vedo nella partizione la soluzione finale della questione palestinese. Chi rifiuta la partizione ha ragione a sostenere che questo paese non può essere diviso perché forma un’unità inscindibile, non solo dal punto di vista storico ma anche in senso naturale e economico” (corsivo aggiunto).
Rivolgendosi all’Esecutivo Sionista, sottolineò ancora una volta il carattere tattico del suo sostegno al Piano di Partizione, e ribadì che, “dopo l’istituzione dello stato, quando avremo un grosso esercito, elimineremo il piano di partizione e ci espanderemo a tutta la Palestina” (corsivo aggiunto). In una lettera alla sua famiglia dello stesso periodo ribadì la sua posizione: “Uno stato ebraico non è il fine ma l’inizio… organizzeremo un sofisticato sistema difensivo, un esercito d’élite. Non ho dubbi che il nostro esercito sarà il migliore al mondo. E sono sicuro che allora nessuno ci impedirà di insediarci in altre parti del paese, o con accordi reciproci con i nostri vicini, oppure con altri mezzi.”171
A partire dalla Guerra d’Indipendenza, Israele ha sempre rifiutato confini stabiliti per legge che fossero d’intralcio ad un futuro allargamento. Ben-Gurion rigettò esplicitamente la proposta di uno stato palestinese perché significava accettare il Piano di Partizione. Poco prima che i britannici rimettessero il Mandato, il Governo Provvisorio di Israele decise di non specificare per iscritto i confini dello stato ebraico nella Dichiarazione d’Indipendenza e di non citare il Piano di Partizione.172
Meir Vilner, capo del Partito Comunista del nuovo stato, firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza, propose per gli arabi palestinesi il diritto ad uno stato indipendente, ma la sua proposta fu rigettata per questioni territoriali. Riconoscere il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione significava accettare i confini consigliati dal piano dell’ONU.173
Questo non impedì al rappresentante dell’Agenzia Ebraica Eliyahu Epstein di accettare a parole il Piano di Partizione nella sua dichiarazione al presidente Truman: “Ho l’onore di notificarle che lo stato di Israele è stato proclamato repubblica indipendente entro i confini deliberati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione del 29 novembre 1947.”174
Lo stato etnico di Israele
Per quanto i suoi difensori facciano notare l’esistenza di una minoranza di residenti palestinesi come prova del fatto che Israele non è uno stato etnico, questi palestinesi, nonostante la cittadinanza, sono per molti versi definiti ufficialmente come Altri.
E la cittadinanza l’hanno ottenuta quasi vent’anni dopo l’indipendenza. Fino ad allora, vivevano ufficialmente in un regime esplicito di apartheid.
L’apartheid si basa su una forma di governo separato per la maggioranza e la minoranza del paese. In Israele ciò fu realizzato inizialmente attraverso l’ordine militare e uffici speciali. Se gli ebrei avevano il codice civile e la possibilità di appellarsi allo stato (e ai loro rappresentanti nella Knesset) in base ad esso, i non ebrei erano governati da decreti militari e burocrati. Potevano appellarsi a vertici militari e uffici pubblici, ma non ai legislatori.
Questo sistema durò quasi vent’anni, dal 1948 al 1966. I palestinesi che vivevano in Israele erano sostanzialmente soggetti a una dittatura militare istituita sulla base delle Norme (di emergenza) di Difesa ereditate nel 1945 dai britannici. Le norme prevedevano forti restrizioni delle libertà civili, compresa la libertà di movimento…
Subito dopo aver conquistato una comunità palestinese, Israele usava le regole d’emergenza per imporre ai palestinesi rimasti il coprifuoco e il permesso per spostarsi. Quest’ultimo era la versione israeliana del passi americano e sudafricano. Il risultato fu la frammentazione e il concentramento della popolazione araba in un certo numero di zone di sicurezza, l’equivalente dei focolari nazionali in altre colonie. C’erano tre zone, nord, centro e sud, ognuna comandata da un ufficiale nominato dallo stato maggiore militare, a cui doveva rendere conto. Ognuno di questi governatori era sostanzialmente un dittatore. Le norme gli davano il diritto di detenere chiunque, espellere i residenti, confiscare terre e case e distruggere “case, colture o strutture”. Queste norme emergenziali di difesa valevano ovviamente solo per i palestinesi, non gli ebrei, i quali erano liberi di occupare le terre negate ai palestinesi. Chiudere le zone palestinesi significava impedire ai palestinesi, che fossero rifugiati di ritorno o sfollati interni, di riprendere possesso delle loro case. Al contrario, gli ebrei erano liberi di impossessarsene. Parlando alla Knesset, Ben-Gurion giustificò la pratica dicendo che il governo militare “è nato per proteggere i diritti degli insediamenti ebrei in ogni parte dello stato.” Anche dopo la fine formale del governo militare, avvenuta nel 1966, le Norme (emergenziali) di Difesa del 1945 restarono in effetto.175
Anche come cittadini, i palestinesi restarono cittadini di seconda classe. Come scrive Jonathan Cook:
La segregazione dura tra ebrei e palestinesi esiste in tutti gli ambiti principali della vita nazionale: diritto di cittadinanza, tutela costituzionale, rappresentanza politica, riconoscimento della diaspora, norme urbanistiche, istruzione, lavoro e rispetto della legge. Le leggi che regolano i vari ambiti si complementano e si rafforzano reciprocamente…, e permettono alla popolazione ebrea di controllare le risorse del paese, soprattutto terra e acqua, a proprio vantaggio.176
“Gli israeliani non ebrei”, secondo Mamdani, “sono per legge cittadini di seconda classe, ufficialmente non possono accedere ai servizi statali e i loro beni sono soggetti ad esproprio”. Quindi spiega i vari modi in cui si esprime questa disuguaglianza ufficiale tra ebrei israeliani e palestinesi, compresi quei palestinesi che hanno la “cittadinanza” israeliana.
Questo significa vivere da non ebrei nella patria ebraica. Tzipi Livni, importante politico liberale israeliano, disse: “Io vorrei che lo stato di Israele fosse la casa anche degli arabi israeliani, ma non può essere la loro patria.” Israele, esclusa la Cisgiordania e Gaza, è in effetti la casa di due milioni circa di palestinesi. Ma siccome Israele non è la loro patria, non possono esercitarvi la propria sovranità. Le leggi fanno sì che essi non abbiano la possibilità di influire su ciò che fa lo stato o di ricorrere allo stato per tutelare i propri interessi. Mentre gli ebrei sono automaticamente cittadini di Israele, i non ebrei, che hanno un legame antico con la terra, incontrano grossi ostacoli se cercano di ottenere la cittadinanza. Da un lato lo stato, alleato con istituzioni semipubbliche come il Fondo Nazionale Ebraico e l’Agenzia Ebraica, garantisce agli ebrei l’accesso alla terra per costruire o coltivarla; dall’altro, i non ebrei subiscono la confisca delle loro terre, non possono costruire le proprie città e le loro case sono regolarmente soggette a demolizione ad opera degli apparati di sicurezza israeliani. Gli israeliani palestinesi sono sotto la sorveglianza degli apparati di sicurezza israeliani nelle loro scuole e comunità, non possono far parte di un esercito e non possono accedere a molti benefici di stato. Gli israeliani palestinesi possono candidarsi e votare, ma a termini fortemente vincolanti. Basta esprimere l’auspicio di pari diritti per vedersi negata la candidatura. E chiunque ponga in questione i favoritismi verso gli ebrei viene rimosso dalla carica.177
Lo status di seconda classe della cittadinanza dei palestinesi in uno stato definito ufficialmente stato ebraico è particolarmente evidente nella legge del ritorno.
In Israele il concetto di cittadinanza è particolarmente complesso, e non senza ragione. Due sono le leggi che principalmente definiscono la cittadinanza: la Legge del Ritorno (1950) e la Legge sulla Cittadinanza (1952), ognuna delle quali crea cittadinanze di classi diverse a seconda della nazionalità. La Legge del Ritorno dà a tutti gli ebrei, ovunque si trovino, il diritto di migrare in Israele e acquisire la cittadinanza. Per contro, la Legge sulla Cittadinanza, pur dando la cittadinanza a quei palestinesi che nel 1948 sono rimasti in territorio israeliano, limita fortemente i loro diritti rispetto agli ebrei. In particolare fa sì che ai 750 mila rifugiati palestinesi della guerra del 1948 e ai milioni di loro discendenti sia negato il diritto di tornare alle loro case e di chiedere la cittadinanza israeliana. Queste due leggi sono pensate in modo da garantire che Israele resti uno stato ebraico per sempre: la Legge sulla Cittadinanza nega ai cittadini palestinesi il diritto di riportare in Israele i loro congiunti in esilio, mentre la Legge del Ritorno garantisce agli ebrei lo stesso diritto negato ai palestinesi.178
Parlando davanti alla Knesset nel 1950, Ben-Gurion disse della legge del Ritorno che costituiva…
un obiettivo cardine del nostro stato: radunare gli esiliati. Questa legge significa che non è lo stato a garantire agli ebrei all’estero il diritto a un insediamento, ma è questo diritto che è inerente al fatto di essere ebreo, se qualcuno vuole insediarsi nel paese.179
Con la definizione di Israele come stato ebraico, i palestinesi che vivono al suo interno (e all’interno di tutti i territori occupati da Israele ad ovest del Giordano) diventano ufficialmente un Altro la cui esistenza è una potenziale minaccia demografica. Il “problema demografico”, la necessità di evitare la crescita della minoranza araba, è un problema cruciale della politica israeliana.180
Quanto sia legittima la pretesa di democraticità di Israele, o il rifiuto dei suoi difensori dell’etichetta di stato etnico perché il 20% dei suo cittadini è arabo, lo si può intuire dalla proposta di un membro palestinese della Knesset, Azmi Bishari, di emendare la costituzione dichiarando Israele “stato di tutti i suoi cittadini” e non stato ebraico. La Knesset non solo ha respinto la proposta, ma ha anche emendato la costituzione così da vietare ai deputati di porre in questione la totale democraticità di Israele. Quanto a Bishari, fu espulso, il suo partito interdetto e lui stesso è ora un rifugiato politico in Qatar.
Nel 2018 la Knesset ha approvato una legge che dichiara Israele lo Stato Nazione del popolo ebraico, riconoscendo a tutti gli effetti per tutti i cittadini arabi lo status di cittadini di seconda classe, ufficialmente Altro.181
Da decenni i sionisti, spesso riferendosi alla dichiarazione d’indipendenza, insistono a dire che Israele potrebbe essere ed è allo stesso tempo “ebraico e democratico”. Col tempo la contraddizione è diventata sempre più evidente, tanto che alcuni israeliani hanno finito per ammettere (anzi, dichiarare con orgoglio) che, se costretti a scegliere, avrebbero preferito la definizione di “stato ebraico”. Nel mese di luglio del 2018, la Knesset ha codificato questa preferenza con la “Costituzione dello Stato Nazione Ebraico”, che rende istituzionale la disuguaglianza giuridica dei cittadini israeliani, attribuendo il diritto all’autodeterminazione esclusivamente agli ebrei, declassando la condizione giuridica degli arabi e dichiarando “d’importanza nazionale”, al di sopra delle altre necessità, l’insediamento ebraico. L’ex ministro della giustizia Ayelet Shaked, una delle più accanite sostenitrici della supremazia ebraica e patrocinatrice della legge, aveva sostenuto senza mezzi termini la causa pochi mesi prima del voto: “Ci sono casi in cui occorre essere fermi sulla definizione dello stato di Israele come stato ebraico, anche a costo della disuguaglianza.” E poi: “Israele… non è lo stato di tutti i suoi popoli. Pari diritti per tutti i cittadini ma non pari diritti nazionali.”182
Per inciso, pur dicendo di rispettare la risoluzione 181 dell’ONU, che chiede la divisione della Palestina e la creazione di uno stato ebraico a difesa della sua caratteristica di stato etnico, Israele di fatto viola i veri termini della risoluzione. Come nota Virginia Tilley:
Primo, la risoluzione 181 chiedeva l’istituzione di due stati separati in termini che escludevano assolutamente lo stato etnico sull’esempio poi sviluppato da Israele. La risoluzione approvava la divisione tra uno ‘stato ebreo’ e uno ‘stato arabo’, che erano etnici solo riguardo certi meccanismi (come la delineazione dei distretti elettorali e le linee guida per ottenere la cittadinanza), per incoraggiare una certa maggioranza etnica ma senza imporla. Per il resto, il testo della risoluzione proibisce esplicitamente e ripetutamente la discriminazione, in entrambi gli stati, su base etnica. Dunque la Risoluzione non ha mai sancito quel genere di stato etnico adottato da Israele, in cui gli ebrei sono giuridicamente privilegiati in molti settori sociali…
Secondo, le successive risoluzioni dell’Assemblea Generale, ritrattando tacitamente l’appoggio ad uno stato ebraico contenuto nella Risoluzione 181, chiedeva il ritorno dei rifugiati arabi palestinesi nel territorio di Israele; prima fra tutte, la ben nota Risoluzione 194 del diciannove novembre 1948. Dato che il territorio poi diventato Israele prima della guerra aveva una maggioranza araba palestinese (le forze sioniste si impadronirono di un territorio molto più grande di quello raccomandato dalla Risoluzione 181, compresa tutta la Galilea a forte maggioranza araba), con l’invito a favorire il ritorno dei rifugiati arabi l’ONU fa capire che non approvava più una maggioranza ebrea in quel territorio.183
Uri Davis similmente fa notare come Israele abbia nascosto all’ONU la sua intenzione di fondare uno stato etnico basato sull’apartheid.
Lo stato di Israele non avrebbe potuto espandersi ad ovest, come ha fatto a partire dalla sua istituzione nel 1948 come ‘unica democrazia in Medio Oriente’, senza nascondere astutamente il suo apartheid legislativo. Come nota Musa Mazzawi, nonostante l’esperienza dell’olocausto l’ONU sarebbe stato riluttante ad ammettere lo stato ebraico se non avesse ricevuto rassicurazioni formali e solenni che lo stato di Israele avrebbe rispettato la Risoluzione 181 approvata a novembre 1947, che raccomandava la divisione della Palestina sotto un’unione economica, e la Risoluzione 194 di dicembre 1948 che riconosceva ai rifugiati palestinesi del 1948 il diritto di tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini… Inutile dire che, date le circostanze, se il nuovo stato non avesse mostrato rispetto per il diritto internazionale avrebbe messo a rischio la sua ammissione come stato membro dell’ONU.184
Pur essendo vietate certe forme di apartheid meschino, del tipo sudafricano o del sud degli Stati Uniti, esistono forti differenze di status giuridico. Non una semplice discriminazione di fatto nell’applicazione delle leggi, ma uno status ufficiale di diritto.
Yousef Jabareen, accademico palestinese in Israele, nota quello che lui definisce ‘il forte dualismo normativo’ del diritto israeliano. Da un lato, a differenza dell’apartheid sudafricano, Israele vieta formalmente forme di discriminazione su base razziale o etnica, ad esempio sul lavoro o nei locali pubblici. Dall’altro lato, istituzionalizza apertamente la disuguaglianza tra cittadini ebrei e palestinesi in gran parte della vita pubblica. Questo contorsionismo legale e intellettuale serve a sciogliere l’enigma di un Israele che si definisce stato ‘ebraico e democratico’ e a mantenere un’apparenza di eguaglianza. Il gruppo legale Adalah ha identificato oltre cinquanta leggi che sanciscono esplicitamente la disuguaglianza tra cittadini ebrei e palestinesi, ad esempio nella definizione che lo stato dà di se stesso, nella simbologia dello stato, nell’immigrazione, la cittadinanza, la partecipazione alla vita politica, la terra, la cultura, la religione, la finanza statale e altro…
Il punto importante è che questa disuguaglianza non è una discriminazione di fatto, o il risultato della malafede di certi funzionari che non applicano leggi egalitarie. Certo, i cittadini palestinesi subiscono anche questa discriminazione di fatto…
Ma hanno anche a che fare con una molto più dannosa discriminazione di diritto: una disuguaglianza che è l’obiettivo delle leggi israeliane, e che i funzionari sono chiamati a mettere in pratica. Non c’è possibilità di appellarsi contro questa disuguaglianza proprio perché è voluta, così come era voluta la disuguaglianza tra bianchi e neri nel Sudafrica dell’apartheid.
Solo che qui la discriminazione di diritto è nascosta meglio di quella sudafricana, perché Israele dà a tutti i suoi cittadini, ebrei o palestinesi, gli stessi diritti individuali. Un’uguaglianza di facciata che è però smentita da leggi che ignorano la realtà binazionale di Israele e conferiscono diritti collettivi ad una delle due parti: gli ebrei. Questi diritti collettivi hanno sempre la priorità sui diritti individuali conferiti a tutti gli israeliani, e fanno sì che, in termini di diritti, i palestinesi siano sempre la parte perdente.185
I cittadini palestinesi hanno il diritto di voto, ma i partiti palestinesi vivono ai margini dell’illegalità. Se chiedono una vera democrazia, come abbiamo visto, dato il carattere ufficialmente ebraico dello stato possono essere puniti per “eversione”.
…Il fatto che Israele si definisca ‘stato ebraico e democratico’ comporta che quei partiti palestinesi che chiedono la democratizzazione del paese, mettendo fine al suo carattere ebraico, siano ai limiti della legalità. Sulla minoranza politica pende sempre la minaccia dell’interdizione e dell’azione penale. Un modo efficace di mettere la museruola e far tacere il dissenso. Negli anni successivi alla seconda intifada, Israele fece ricerche su tutti i palestinesi membri della Knesset, accusandoli regolarmente di incitamento alla rivolta ogni volta che esponevano le loro idee politiche.186
…Dopo l’elezione del governo di destra di Benjamin Netanyahu arrivò una raffica di proposte di legge che intendevano limitare il ruolo dei partiti non sionisti. Al momento figurano proposte che impongono ai membri del parlamento di giurare fedeltà ad Israele nella sua qualità di ‘stato ebraico e democratico’, e altre che revocano la cittadinanza per tradimento. Quest’ultima proposta, fatta dal ministro degli interni Eli Yishai, prendeva di mira due membri palestinesi, Azmi Bishara e Haneen Zoabi. Bishara si trova in esilio dal 2007 con l’accusa, non provata, di essere una spia degli Hezbollah. Zoabi è stato privato dei privilegi da parlamentare, probabilmente in vista di un processo per aver fatto parte di una flottiglia di soccorso a Gaza a maggio del 2010. Entrambi erano membri del National Democratic Assembly Party che guidava la campagna a favore della democratizzazione di Israele.187
La condizione di paria dei palestinesi è chiaramente evidente anche nel loro diritto, o meglio nella sua assenza, alla terra. Qui la differenza risale agli obblighi che comportava la scelta di istituire l’ufficialità ebraica di Israele, cosa che richiedeva una schiacciante maggioranza ebraica al fine di mantenere il carattere di stato etnico. Così Mamdani:
Durante la guerra d’indipendenza del 1948, i soldati ebrei espellevano dalle loro comunità i palestinesi non ebrei. Circa 750 mila furono gli esiliati e altre decine di migliaia gli sfollati. Tutti perderono terra e casa, poi “riscattate” dai nuovi proprietari ebrei. Quei palestinesi che invece rimasero in Israele furono concentrati per vent’anni in zone occupate militarmente. Negli anni seguenti i loro centri abitati e le loro case furono dichiarati illegali, così che oggi se lo stato decide di confiscarli o distruggerli non c’è possibilità di appello.188
La società israeliana doveva diventare ebraica. Al momento dell’indipendenza, gli ebrei non erano la maggioranza. Secondo la Commissione Speciale ONU per la Palestina (UNSCOP), nel 1947 era palestinese non meno del 45% della popolazione nelle aree destinata a stato ebraico. Come potevano gli ebrei istituire e mantenere il proprio status di maggioranza del paese se erano appena metà della popolazione?189
Secondo Cook, durante la guerra gran parte delle terre palestinesi furono confiscate e l’80% della popolazione araba espulsa. Ma gli israeliani trovarono un modo anche per impadronirsi della terra di quelle popolazioni arabe rimaste dopo la guerra.
Il diritto di proprietà terriera fu diviso per statuto in due categorie, ebrei e non ebrei, una caratteristica basilare dell’Apartheid. Secondo Uri Davis, la legge sulla Organizzazione Mondiale Sionista, o Agenzia Ebraica, approvata nel 1952 dalla Knesset…
impegnava per legge lo stato di Israele ad assicurare la concessione in monopolio dei ‘progetti insediativi’ per mezzo di un’organizzazione costituzionalmente riservata alla ‘colonizzazione agricola basata sul lavoro ebreo’, per cui ‘in linea di principio devono essere impiegati lavoratori ebrei’.190
Questo significa che in settori critici come l’immigrazione, gli insediamenti e lo sviluppo fondiario, la Knesset, il potere sovrano che formalmente rappresenta tutti i cittadini, ebrei e non, ha formulato e approvato leggi che cedono la sovranità statuale (compreso il fisco) e ha stretto patti, e conferito poteri, con organizzazioni come l’Organizzazione Mondiale Sionista, l’Agenzia Ebraica e il Fondo Nazionale Ebraico, che per costituzione promuovono gli interessi degli ebrei e solo degli ebrei.191
Ripeto, giusto per evidenziare il carattere spiccatamente etnico-nazionalista delle leggi fondiarie israeliane: negando i pari diritti degli israeliani palestinesi,
il compito di definire i progetti strategici dello sviluppo fondiario e degli insediamenti è stato affidato per legge ad organizzazioni… che, secondo i loro stessi statuti, sono impegnate a promuovere l’immigrazione e l’insediamento di ebrei (e solo ebrei) nello stato di Israele e ‘ovunque il governo di Israele abbia giurisdizione’.192
Quest’ultima clausola, che include quelle zone in cui Israele ha giurisdizione, smentisce le affermazioni di chi pignolamente sostiene che Israele non può essere considerato un regime di apartheid riguardo l’occupazione della Cisgiordania perché quest’ultima non si trova entro i confini israeliani.
Il processo di espropriazione delle terre palestinesi proseguì anche dopo il 1948.
Le terre dei palestinesi diventati cittadini israeliani furono [sic] prese con pretesti vari. Il provvedimento più rilevante riguardava quel 25% della popolazione israeliana classificata come sfollati interni, o ‘presenti assenti’, che fu privata del diritto alla casa e agli averi. La Legge sulla Proprietà Assenteista del 1950 toccava tutti i rifugiati, sia gli esiliati che quelli con la cittadinanza israeliana. Gran parte di queste terre si trovava nei 500 villaggi distrutti subito dopo la guerra.193
A facilitare il processo furono i requisiti stringenti per la cittadinanza alla popolazione araba residente.
Per acquisire la cittadinanza, gli arabi dovevano soddisfare i requisiti imposti dalla Legge sull’Ingresso in Israele del 1952. Per legge, dovevano avere la residenza nel Mandato Palestinese al primo marzo 1952. Dovevano aver risieduto in Israele durante i primi anni della statualità; ovvero dovevano essere residenti o emigrati legalmente “in Israele, o in qualche altro territorio poi divenuto territorio israeliano, nel lasso di tempo tra la nascita dello stato e l’entrata a regime della legge.”
Non a caso, molti non erano registrati. Gli arabi residenti nel territorio poi divenuto Israele furono definiti “presenti assenti”, categoria che segnò il loro destino e quello dei discendenti. Questi presenti assenti, o sfollati interni, dopo il 1948 costituivano il 20% della popolazione araba in Israele. La cittadinanza fu concessa solo nel 1980.194
Oltre alla confisca delle terre sulla base di questa “presenza assenza” e di altri status di rifugiati, durante l’applicazione della legge marziale tra il 1948 e il 1966…
Israele approvò una serie di leggi, oltre a quella sulla proprietà assenteista, al fine di confiscare in massa le terre palestinesi. L’atto più significativo era: classificare le terre agricole palestinesi come ‘zone militari chiuse’ per poi confiscarle perché ‘incolte’. I palestinesi avevano ben poche possibilità d’appello: erano strettamente confinati nelle loro comunità e per spostarsi necessitavano di un passi rilasciato dalle autorità militari.195
Ad autorizzare la vendita delle terre espropriate era un’entità governativa chiamata “Custode”. Lo status di “presente assente” , anche di chi aveva la cittadinanza, era una cornucopia [per lo stato, NdT]. Neanche chi aveva la cittadinanza poteva ereditare la terra.
La confisca delle terre assenteiste non conosce scadenze. Ancora oggi, decenni dopo l’indipendenza di Israele, gli arabi palestinesi cittadini di Israele continuano a ricevere notizia di confisca. Se, ad esempio, muore un proprietario terriero palestinese, e uno dei suoi eredi è rifugiato, la legge dà la possibilità al Custode di reclamare a sé quella quota. La mancata consegna della proprietà al Custode è reato penale. Per contro, il Custode gode di immunità. Finché l’acquisizione è fatta “in buona fede”, non c’è problema, anche se si dimostra che manca l’assenteismo…196
Anche dimostrare la proprietà era legalmente molto difficile. Israele considerava illegali e confiscava tutte quelle terre di non ebrei che avevano titoli consuetudinari o comuni, o che comunque non rispettavano gli standard della proprietà capitalista.
Oltre alle proprietà individuali, lo stato di Israele confiscava anche quelle terre comuni note col nome arabo di Waqf. Nella Palestina ottomana e mandataria il waqf era molto diffuso e comprendeva moschee, cimiteri, siti sacri, ma anche proprietà residenziali, agricole e commerciali a fini di beneficienza. Si stima che circa il 20% della Palestina mandataria fosse di istituzioni waqf. Di queste terre, l’85% finì nelle mani del Custode.
…Particolare importante, un palestinese che reclamasse la proprietà di un terreno doveva dimostrare di possederlo dai tempi dell’Impero Ottomano. Questo significava che la stragrande maggioranza dei contadini erano espropriabili perché “alla fine del dominion ottomano solo il 5% delle terre palestinesi erano ufficialmente registrate.” Tutte le terre non registrate passavano ad Israele perché senza proprietario: contadini che coltivavano la terra da generazioni diventavano usurpatori.
Le domande di registrazione erano talmente contro gli arabi che l’85% dei casi andava a favore dell’Amministrazione Fondiaria di Israele, l’agenzia governativa che si occupava della proprietà terriera.197
Una volta espropriata la terra, il quadro istituzionale della successiva ridistribuzione mostra chiaramente lo status di inferiorità dei cittadini palestinesi nello stato etnico ebraico. Ai cittadini palestinesi era negato anche il pari diritto di acquistare una terra espropriata, che in gran parte passava al Fondo Nazionale Ebraico, il cui regolamento prevedeva che tutte le terre in suo possesso fossero utilizzate soltanto “a beneficio del popolo ebraico”.198 Cito ancora Cook:
Il 99% delle terre israeliane è stato nazionalizzato, non a beneficio dei cittadini israeliani ma degli ebrei in tutto il mondo (il che evidenzia ancora una volta la distinzione tra cittadinanza e nazionalità). Per tradizione, la terra non viene venduta né ad ebrei né a palestinesi, ma concessa in prestito dallo stato. Lo stato la tiene in custodia per gli ebrei. Ovvero, come spiegò Ariel Sharon nel 2002, i cittadini palestinesi (‘arabi israeliani’, come li chiamava lui) hanno ‘alcuni diritti sulla terra’ mentre ‘tutti i diritti sulla terra di Israele appartengono agli ebrei’. In altre parole, i cittadini palestinesi erano semplici fittavoli, provvisori o no, mentre gli ebrei erano i veri proprietari di Israele.199
Le leggi fondiarie servivano anche a impedire la crescita delle comunità palestinesi.
Verso la fine del governo militare, l’approvazione della Legge di Pianificazione e Urbanistica del 1965 fornì un ulteriore pretesto per la confisca. La legge elencava tutte quelle località in cui le nuove autorità pianificatrici avevano identificato una comunità. Queste autorità, il cui personale era ebreo, rigettarono l’istituzione di qualunque nuovo centro urbano o villaggio palestinese, rendendo impossibile l’espansione spontanea, limitando fortemente lo sviluppo delle comunità palestinesi, e giustificando un’aspra politica di demolizioni a danno dei cittadini palestinesi. Oggi, decine di migliaia di case e costruzioni di proprietà di palestinesi sono a rischio di demolizione immediata. Le comunità ebraiche, soprattutto le cooperative rurali in espansione, kibbutzim e moshavim, erano trattate con indulgenza, e spesso si lasciava che invadessero le terre dei vicini palestinesi.
In più, la legge riconosceva soltanto 124 comunità palestinesi, il che significa che dozzine di altre comunità, perlopiù villaggi beduini del Negev e della Galilea preesistenti lo stato di Israele, non erano riconosciuti. Gli abitanti di questi villaggi sono diventati fuorilegge: non possono avere l’allaccio dell’acqua, le fogne, l’elettricità; niente scuole né ambulatori, per quanto siano grandi i villaggi; e tutte le case sono passibili di demolizione. L’obiettivo è di rendere impossibile la loro vita e costringerli ad abbandonare la terra per trasferirsi nelle comunità palestinesi, sovraffollate ma legali. Così che lo stato possa espropriare le loro terre e le loro cose.200
Le leggi fondiarie facilitano la giudaizzazione di intere aree come la Galilea occidentale, che anche dopo l’indipendenza di Israele restava a maggioranza palestinese.
Israele si serve della legge anche per frammentare la popolazione palestinese laddove è maggioranza. La giudaizzazione della Galilea, ad esempio, comportò l’esproprio di terre delle comunità palestinesi e la nascita delle nuove comunità ebraiche di Nazareth Alta e Karmiel. L’impresa, cominciata negli anni Cinquanta, fu una vera e propria impresa militare.201
La tattica di giudaizzazione, che consiste nel frammentare le comunità palestinesi in aree chiuse e impossibilitate a crescere, ricorda le riserve indiane degli Stati Uniti e i bantustan del Sudafrica. Anche se il 72% della popolazione della Galilea è palestinese, il 63% della terra è sotto il controllo dei consigli regionali a maggioranza aschenazita, appena il 6% della popolazione locale. Il 21% della terra è controllato dai consigli a maggioranza mizrahi, che sono il 22% della popolazione. Solo il 16% delle terre è amministrato da consigli a maggioranza palestinese…
Vittime della giudaizzazione sono non solo gli arabi ma anche i beduini. Negli anni Settanta, i beduini erano quasi il 90% della popolazione del Naqab, o Negev, il sud arido di Israele. Qui la giudaizzazione puntava a concentrare le comunità beduine in sette zone residenziali per poi trasferire le terre restanti a coloni ebrei. I beduini ricevevano un esiguo indennizzo: tra il 2 e il 15% di ciò che veniva offerto ai coloni ebrei evacuati dal Sinai. Quando quasi la metà dei beduini disse di no, le autorità statali dichiararono “illegali” cinquantotto villaggi.202
Il mancato riconoscimento è diventato negli ultimi decenni strumento importante di giudaizzazione. Questo status pone le comunità al di là della legalità. Lo schema nasce nel 1965 con la Legge di Pianificazione e Urbanistica, che dava autorità pianificatrice ad un ente governativo, il quale utilizzava i propri poteri amministrativi per ordinare demolizioni e confische e inasprire le multe a quei padroni di casa che svolgevano attività vietate perché non riconosciute. Il governo di allora riconobbe soltanto 123 villaggi palestinesi, compresi i 108 sopravvissuti alla guerra, oltre alle aree beduine che gli israeliani speravano di trasformare in luoghi in cui concentrare la popolazione. Queste comunità potevano continuare a svilupparsi, mentre nelle località non riconosciute, e quindi escluse dalla pianificazione, l’espansione era vietata. Un emendamento del 1981 aggiunse nuovi strumenti coercitivi: divieto di allaccio per l’energia elettrica, l’acqua e il telefono per gli edifici privi di licenza. Nei villaggi non riconosciuti era proibito costruire infrastrutture come pavimentazioni stradali e fogne, così come costruire e riparare abitazioni. Gli edifici esistenti erano a rischio di demolizione in qualunque momento. Quando gli abitanti continuarono a costruire illegalmente, lo stato ricorse alla demolizione. Fino al 1998, furono 12 mila le demolizioni approvate dai tribunali nella sola Galilea.203
Dopo la guerra del 1967, tecniche volte a facilitare l’esproprio di terre delle terre arabe in Israele cominciarono ad essere utilizzate anche nei territori occupati. Nel periodo 1968-79, per giustificare l’esproprio di “quasi 47 mila dunam (circa 4 mila 700 ettari) destinati a costruzioni si disse che “le costruzioni erano a fini militari”. La stessa giustificazione fu utilizzata dopo gli Accordi di Oslo per “costruire una rete stradale che collegasse gli insediamenti con i centri urbani di Israele dentro” i confini pre-1967. Quando la corte suprema rigettò la giustificazione, lo stato dichiarò queste aree terre pubbliche, soggette quindi alla precedente legge sugli espropri. Tra il 1972 e il 1992, Israele costruì 132 insediamenti per un totale di 231 mila 200 israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e altri sedici insediamenti per 4 mila 800 israeliani a Gaza.204
L’effetto cumulativo di questo regime giuridico, secondo Uri Davis, è che “il 93% di tutto il territorio di Israele prima del 1967 fu destinato per legge dalla Knesset a fini agricoli, costruzioni e insediamenti da e per soli ebrei”: una percentuale superiore anche all’87% destinato ai bianchi nel Sudafrica dell’apartheid205
Oltre che in questioni terriere e di cittadinanza, scrive Mamdani, i palestinesi sono ufficialmente discriminati anche in altri ambiti sociali. “Gli arabi non possono arruolarsi nell’esercito, una forma occulta di discriminazione in quanto molti benefici sono solo per chi ha fatto il servizio militare.”206
I palestinesi hanno scuole separate. Il che è talvolta giustificato con la scusa del mantenimento della loro cultura, ma ha, tra le altre cose, gli stessi difetti delle scuole “separate ma uguali” del vecchio sistema razzistico statunitense. Da notare che i fondi per ogni studente palestinese sono una piccola frazione di quelli che vanno agli israeliani ebrei.207 Quanto al mantenimento della cultura palestinese, è smentita dal controllo statale dei corsi nelle scuole arabe: mentre ogni setta ebraica ha il proprio sistema scolastico autonomo, “i corsi delle scuole arabe sono prerogativa del Ministero dell’Istruzione.208 Ovviamente, molti autori e poeti arabi sono vietati, e anche l’insegnamento della storia è d’impronta fortemente sionista. Quando nel 2007 un libro di testo fu autorizzato a scrivere che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe in arabo, NdT) l’esproprio del 1948 scoppiò il finimondo; due anni dopo l’autorizzazione fu ritirata.209 Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, ugualmente esercita un forte grado di sorveglianza nelle scuole palestinesi e ha potere di veto su insegnanti e personale amministrativo.210
Quanto all’istruzione superiore, ai residenti palestinesi è vietato avere una propria università.
Secondo una notizia pubblicata da Ha’aretz nel 2004, sono state riviste le regole per l’ammissione all’università dando più peso alle “interviste”, così che le autorità scolastiche israeliane hanno più potere per evitare concentrazioni di studenti palestinesi in ambiti giudicati sensibili dal punto di vista della sicurezza.211
Dunque per certi aspetti i cittadini palestinesi hanno gli stessi diritti degli ebrei, mentre per altri, molto più importanti, sono cittadini di seconda categoria il cui status sociale dipende dalla nazionalità. Così Uri Davis:
In Israele, il diritto di un cittadino classificato ‘non ebreo’ (ovvero ‘arabo’) di prendere parte al processo politico è formalmente lo stesso di quello di un cittadino classificato ‘ebreo’. Similmente, la posizione di un cittadino classificato come ‘non ebreo’ davanti ad un giudice è in principio lo stesso di un cittadino classificato come ‘ebreo’. …
D’altro canto però i diritti di proprietà di un cittadino classificato ‘non ebreo’, così come i diritti allo stato sociale e alle risorse materiali dello stato non sono gli stessi di un cittadino classificato ‘ebreo’. Inoltre, questi cittadini di Israele classificati ‘non ebrei’ (‘arabi’) non possono accedere al 93% del territorio pre-1967 amministrato dalla Israeli Lands Administration (Ente fondiario israeliano, NdT).212
Ronnie Kasrils così riassume le somiglianze tra l’apartheid di Israele e del Sudafrica: “Leggi e provvedimenti civili e militari adottati da Israele rispecchiano fedelmente quelli del Sudafrica prima e soprattutto durante l’apartheid.”
Tra queste, le infami leggi sulla nazionalità o la razza, che privano non ebrei e non bianchi, secondo i casi, della possibilità di accedere a diritti o benefici propri della cittadinanza piena. Le leggi fondiarie negano a certe categorie il diritto di possedere o dare in affitto terre o attività, e di acquistare o prendere in affitto case, tranne in località determinate. Ai documenti d’identità divisi per razza corrispondono ossessivi controlli kafkiani che limitano o limitavano fortemente la libertà di movimento di palestinesi e neri sudafricani, compreso il diritto di vivere, lavorare, studiare, giocare, passare il tempo libero ed essere seppelliti dove si vuole. A ciò si aggiungono le scandalose leggi sui matrimoni misti, e tanto altro.213
Da notare che questo quadro giuridico riguarda tutti i palestinesi, che vivano come cittadini di serie B, discriminati e con diritti limitati in Israele, o che vivano nei territori occupati, o ancora che siano rifugiati all’estero.214
Ruolo ufficiale dell’ordinamento religioso nello stato
Molti aspetti della politica israeliana rientrano nell’ambito di un ufficiale ordine ebraico di tipo religioso. Così Mamdani:
Altra contraddizione fondante di Israele è quella esistente tra laicità e teocrazia…
I termini di un compromesso formale furono elaborati da Ben-Gurion, in rappresentanza del protostato, e una delegazione di ebrei ortodossi. L’incontro avvenne a giugno del 1947, poco prima della conferenza dell’ONU che approvò il Piano di Partizione. Le parti convennero che il futuro stato avrebbe imposto il sabato come giorno di riposo e la cucina kosher in tutte le mense pubbliche frequentate da ebrei. Alle scuole ebraiche era concessa piena autonomia, e in questioni riguardanti lo status personale la competenza era della halakha (la legge ebraica). Non erano previsti matrimonio e divorzio civile: in materia la competenza era dei tribunali religiosi. Inoltre l’iconografia dello stato avrebbe ereditato tutta la simbologia ebraica. Ma fu anche stabilito che la costituzione dello stato ebraico non sarebbe venuta dalla halakha…
Come dice lo storico Tom Segev, l’accordo serviva “ad evitare che la casa di Israele finisse a pezzi”. I termini del compromesso sono però al centro di una controversia tuttora in corso, mentre Israele cerca di dare un senso alla sua particolarità. Emergono continuamente questioni di fondo. Lo stato può approvare statuti che contraddicono le leggi della Torah? Lo stato dovrebbe esentare gli ebrei laici dall’obbligo di rispettare la legge ebraica? Dopotutto, gli ebrei osservanti sono esentati dagli obblighi di stato. Gli uomini iscritti alla yeshivah non svolgono il servizio militare. Le leggi riguardanti la famiglia sono state particolarmente problematiche, con la corte suprema costretta a cercare cavilli per permettere i matrimoni civili fuori dall’ordine rabbinico, mentre i tribunali ordinari devono imporre le sentenze delle corti rabbiniche in materia di divorzio anche a costo di arrestare i mariti riluttanti.
La conclusione è che Israele resta uno stato semireligioso votato alla salvaguardia di un ebraismo ufficiale.215
Tra i compiti ufficiali dell’istituzione religiosa ebraica nello stato c’è la questione “chi è ebreo?” Nel 1960, il ministro degli interni H. M. Shapiro decretò: “[P]erché sia registrata come ebrea, una persona dev’essere di madre ebrea o convertita all’ebraismo ai termini definiti dalla halakha. Chi non professa la fede ebraica non può essere dichiarato ebreo.”216 Uno statuto della fine degli anni Sessanta emendò la norma in: chiunque sia di madre ebrea o si sia convertito e non sia di altra religione; eliminando il requisito della conversione ai termini della halakha.217
Il Sionismo cancella le diverse identità ebraiche
Come accennato, l’identità nazionale ebraica creata dal Sionismo ha comportato la cancellazione di tante altre identità ebraiche reali.
La creazione dell’identità israeliana rientrava nell’occultamento delle identità ebraiche della diaspora diffuse in tutta l’Europa e in Medio Oriente. La “nuova identità ebraica” creata dal moderno Sionismo era associata alla rinascita artificiale dell’ebraico, da oltre duemila anni lingua quasi esclusivamente liturgica, imposto come lingua ufficiale della nazione. A sua volta, ciò comportava la soppressione, ufficiale e non, delle identità ebraiche associate alla lingua Yiddish, alla lingua giudeo-spagnola e alle lingue arabe.
Le plurisecolari lingue e culture dei gruppi ebraici europei reali erano considerate un ignobile cimelio del passato, da soffocare o amalgamare in un’identità di nuova creazione incentrata sulla lingua ebraica.
Lo yiddish, la lingua parlata dagli ebrei aschenaziti d’Europa (derivata da un antico dialetto tedesco e scritta con l’alfabeto ebreo) era stigmatizzata dai leader sionisti in Palestina e dai primi governi israeliani.218 Max Weinreich, nel suo History of the Yiddish Language, spiega che “la trasformazione della lingua ebraica liturgica in una lingua parlata nasce dalla volontà di separarsi dalla Diaspora.” I coloni sionisti vedevano nelle identità diasporiche “un pantano culturale da bonificare”, e questo nonostante il Vecchio Yishuv comprendesse molti aschenaziti immigrati nel corso di secoli e nonostante la presenza continua dello yiddish (con numerosi prestiti linguistici dall’arabo).219 Il “nuovo ebreo” era un costrutto superumano idealizzato, quasi interamente separato dalle plurisecolari culture e tradizioni dei veri ebrei: “Lo yiddish rappresentava la diaspora, la debolezza, spiega il linguista Ghil’ad Zuckermann. ‘I sionisti cercavano un’identità dionisiaca: selvaggia, forte, muscolare e indipendente’.”220
Intanto, nonostante i sionisti usassero il Vecchio Yishuv come comodo appoggio per dimostrare che gli ebrei erano un popolo indigeno e quindi giustificare la colonizzazione partita dall’Europa, l’antipatia degli immigrati sionisti si rifletteva nell’atteggiamento degli ebrei di lingua yiddish residenti nel Vecchio Yishuv:
Gli ebrei del Vecchio Yishuv cominciarono a vederci un’offesa al loro credo. “Vedevano questi stranieri vestiti eleganti che scrivevano in ebraico [liturgico] e vivevano nei kibbutz; per loro tutto ciò era destabilizzante, era la fine del loro stile di vita”, detto dal laureando Eyshe Beirich.
Gli ebrei di lingua yiddish del vecchio Yishuv per distinguersi dai nuovi venuti dicevano Er iz a baladi, “è uno di noi”. “Baladi” in arabo significa “nativo”. L’ebraico khalutz, “pioniere”, significava “uno di loro”.221
Questo “disprezzo verso la diaspora” era “evidente… nella feroce campagna contro la lingua yiddish in Palestina, che portò non solo a vietarne l’uso nei giornali e nei teatri ma anche ad attacchi fisici contro persone di lingua yiddish.”222 A cominciare dagli anni Venti, chiunque in Palestina avesse avuto il coraggio di pubblicare in yiddish rischiava la distruzione dei macchinari da parte di organizzazioni che si facevano chiamare “Battaglione per la difesa della lingua ebraica”, “Organizzazione per l’imposizione dell’ebraico” e “Consiglio centrale per l’imposizione dell’ebraico”. Nel 1930 a Tel Aviv la proiezione del film Mayn Yidishe Mame (Mia madre yiddish) causò una rivolta guidata dal succitato Battaglione.223 Agli inizi erano vietate rappresentazioni teatrali e periodici in yiddish.224 Un articolo recente in difesa dello yiddish pubblicato sul Jerusalem Post spiegava che le lingue della diaspora “mettevano a rischio il progetto sionista”, ammettendo così che identità etniche reali minacciavano una identità fittizia creata da un’ideologia nazionalista.225
Se questo avveniva per lo yiddish, che è la lingua della maggioranza aschenazita negli insediamenti sionisti in Palestina, peggio ancora avveniva ad altre identità ebraiche, in particolare i Mizrahim di lingua araba delle comunità mediorientali (compresi quelli che vivevano in Palestina prima dell’arrivo degli ebrei europei). Quando fa comodo, la propaganda israeliana sbandiera i mizrahim come martiri (dopo il 1948 furono espulsi da paesi arabi come l’Iraq in quella che fu un’indubbia atrocità); per il resto sono considerati imbarazzanti, ridicoli, e subiscono discriminazioni da parte dei discendenti dei coloni aschenaziti. Sono poco più della metà della popolazione israeliana, nonché la colonna portante del partito Likud dell’attuale primo ministro Netanyahu. Proprio quest’ultimo una volta scherzando si scusò per il ritardo dicendo che era colpa di un suo “gene mizrahi”.226 E in un messaggio pubblicitario di un agente immobiliare si vede una famiglia di rozzi ebrei mizrahi che rovina la Pasqua di una famiglia dalla carnagione chiara, col sottinteso: “non ci sono più i vicini di una volta”.227
C’è una contraddizione: se da un lato il Sionismo riconosce le antiche origini mediorientali, levantine, degli ebrei, dall’altro i fondatori europei dello stato di Israele consideravano gli ebrei mediorientali sostanzialmente subumani perché “antiquati” e “orientali”, ed è ironico che si proponessero di elevarli servendosi della loro più progredita cultura occidentale. Ben-Gurion parlando degli ebrei mediorientali diceva: “mancano anche delle ‘conoscenze più elementari’, ‘non sembrano avere avuto un’istruzione ebraica o anche solo umana’. Più volte li disprezzò pubblicamente”:
“Noi non vogliamo che gli israeliani diventino arabi. Noi abbiamo il dovere di combattere lo spirito levantino che corrompe individui e società, dobbiamo preservare i veri valori ebraici come si sono cristallizzati nella Diaspora.” [corsivo aggiunto]… Così Abba Eban: “Una delle nostre grandi preoccupazioni… è il pericolo che la predominanza di immigrati orientali possa portare il livello culturale di Israele al livello di quello dei suoi vicini.” … In un articolo dal titolo “La gloria di Israele”, pubblicato sull’annuario governativo, il primo ministro lamentava “la scomparsa della presenza divina nel gruppo etnico ebreo orientale”, mentre elogiava gli ebrei europei per aver “guidato il popolo in termini sia quantitativi che qualitativi.”228
Così Mamdani riassume la situazione: “Se Israele vuole essere uno stato solo di ebrei, deve prima stabilire chi è ebreo e chi no. La risposta non può che appiattire le differenze all’interno dell’ebraismo mondiale riportandolo alla forma di ebraismo approvata dalla nazione. Questo è il lato nascosto della giudaizzazione: eliminare non solo i non ebrei ma anche gli ebrei che non rientrano nello standard accettabile.” Il risultato:
I mizrahim sono stati purgati della loro “arabità” tramite la soppressione della lingua araba e della loro cultura.229
I mizrahim sono ebrei “disarabizzati”. Giudaizzare la società israeliana significava non solo espellere gli arabi palestinesi, i musulmani e i cristiani, espropriarne le proprietà e darle agli ebrei, e trasformare i restanti arabi palestinesi in cittadini di seconda classe. Anche gli ebrei (mizrahim) dovevano essere “disarabizzati” per realizzare il sogno sionista di una società ebraica protetta, glorificata e migliorata da uno stato ebraico. La giudaizzazione dei mizrahim (cancellare l’ebreo arabo che con la sua esistenza minaccia il Sionismo dimostrando che la pluralità è possibile) prese le forme di una missione civilizzatrice aggressiva e esplicitamente razzista portata avanti dall’élite aschenazita.230
Le élite sioniste erano decise a civilizzare i mizrahim con una campagna ufficiale di “disarabizzazione”. Come disse Abba Eban, politico e diplomatico israeliano, “L’obiettivo sarebbe di infondere” nei sefarditi e nei mizrahim “uno spirito occidentale prima che ci trascinino in un innaturale orientalismo.” La missione civilizzatrice comportava l’uso della sola lingua ebraica a scuola, privando così i mizrahim “di qualsiasi legame con la loro lingua madre,” spiegano Noam Chomsky e Ilan Pappé. Ai mizrahim veniva chiesto di dimostrare “fattivamente la propria ‘disarabizzazione’ esprimendo odio nei propri confronti… e per tutto ciò che è arabo.” Le autorità arrivarono a vergognosi eccessi come rapire neonati per darli in adozione a famiglie aschenazite.231
Da notare che quest’ultima politica è da classificare come genocidio culturale.
Parte III. Proposte di soluzione
La strada che non è stata presa: il Sionismo astatuale
L’idea di un focolare ebraico in Palestina, come nota Mahmood Mamdani, non implica per forza l’insediamento su terre espropriate o uno stato etnico istituito con la forza contro il volere delle popolazioni che insistono sul territorio. Esisteva tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento una forte corrente sionista culturale e religiosa che immaginava l’istituzione pacifica di comunità ebraiche nel quadro politico dell’Impero Ottomano o di una Palestina multietnica.
Gli ebrei immigrati in Israele [alla fine dell’Ottocento] non avevano un progetto politico. Volevano solo ritagliarsi uno spazio all’interno della società esistente, vivere nell’attuale quadro politico, qualunque fosse. I coloni, per contro, avevano un progetto politico con lo stato coloniale al cuore. Fu questo progetto a scatenare la violenza politica, perché significava espellere i palestinesi dalla loro terra. I palestinesi non potevano iscriversi ai sindacati. Le cooperative non potevano accettare palestinesi. Il programma fu fin da subito esclusivista, escludeva la possibilità di pensare in termini di coesistenza pacifica.
Io credo che sia importante fare distinzione tra focolare e stato ebraico. L’idea che la terra dovesse appartenere esclusivamente agli ebrei era un’idea dei sionisti; nessun altro la pensava così. Per questo serviva l’appoggio esterno delle potenze imperiali, con i loro interessi, e ancora oggi serve…232
…Mentre l’immigrato si unisce alla società esistente, il colono non distingue tra società e stato. Senza il Sionismo, dal punto di vista di un immigrato, ma anche di un nativo, la Palestina avrebbe potuto essere la casa dei sopravvissuti all’olocausto: avrebbe potuto esserci una società ebraica, con un popolo ebraico, ma senza uno stato ebraico. Così il giurista israelo-palestinese Raef Zreik: “Nonostante l’importanza della necessità, sostenevano i palestinesi liberali, una cosa è salvare la vita degli ebrei, altra è avere uno stato ebraico.233
Ad esser sinceri, Mamdani esagera quando nega l’esistenza di correnti apolitiche all’interno del Sionismo; e sbaglia a confinare il “Sionismo” alle correnti politiche; infine esagera la dicotomia “politico”-“non politico”: esistevano correnti i cui fini “politici” si limitavano all’amministrazione locale autonoma nel più ampio contesto statale.
Dmitry Shumsky critica la tendenza propria degli storiografi contemporanei, sionisti e non, a vedere il primo Sionismo, compreso il “Sionismo politico” attraverso le lenti dello stato che si è imposto a partire dal 1948.
Quando la storiografia non riesce ad evitare gli anacronismi, gli storiografi finiscono per vedere in concetti e fatti del passato i precursori, se non l’espressione esatta, di fatti che sono avvenuti dopo, in un contesto storico diverso, e che invece hanno come causa circostanza storiche diverse che non solo in passato non esistevano ma che le persone di allora non immaginavano neanche.234
Nel caso particolare sionista, la storia di Israele diventa una storia di liberazione. L’idea che…
fin dall’inizio, il moderno nazionalismo politico ebreo vedeva nella sovranità territoriale l’unico possibilità di esistenza collettiva per gli ebrei emancipati nel mondo moderno… è diventata una colonna portante del paradigma nazionale statalista deterministico che ingabbia politicamente il Sionismo, spingendolo teleologicamente verso lo stato nazione indipendente del tipo sorto nel 1948.235
Mamdani fa distinzione tra Sionismo culturale, religioso e politico della prima aliyah (“migrazione” o “pellegrinaggio” in ebraico), e il Sionismo politico della seconda e terza aliyah.
La lettura israeliana classica delle migrazioni ebraiche in Palestina fa poca distinzione tra immigrati e coloni, come se lo Yishuv fosse sempre stato sionista. Ci sono due errori. Primo, si identifica la prima aliyah con il Vecchio Yishuv. Secondo, si confonde l’obiettivo spirituale della prima aliyah con gli obiettivi politici della seconda e della terza. Il Vecchio Yishuv era composto da persone che vivevano lì, la prima aliyah era composta da immigrati, la seconda e terza aliyah da coloni.
Quelli come Jabotinsky, Ben-Gurion e Dayan non vedevano differenza tra se stessi e gli immigrati ebrei che non erano coloni.236
Gli ebrei che andavano in pellegrinaggio in Palestina non erano coloni. Erano immigrati. Sceglievano di far parte di una preesistente comunità politica locale, non volevano fondarne una nuova. È questo che distingue il Sionismo dalle precedenti presenze ebraiche in Palestina. Gli immigrati non hanno armi; i coloni hanno armi e un programma nazionalista. Gli immigrati cercano una casa, non uno stato; per i coloni non c’è casa senza stato. Per gli immigrati, la casa può essere condivisa; per i coloni, lo stato dev’essere uno stato nazione, il custode della nazione che al massimo tollera la presenza di altri.237
Secondo Mamdani, la migrazione organizzata ebraica in Palestina cominciò nel 1882. L’obiettivo, spiega Mamdani citando il sociologo israeliano e storiografo Baruch Kimmerling, era…
istituire “comunità etiche religiose nella ‘Terra di Israele’ e ‘onorare il Signore’ lavorando la terra.” Definivano il loro trasferimento in Palestina aliyah, una parola che indica il pellegrinaggio degli Israeliti al Tempio. Questi “devotissimi e moderni ebrei ortodossi”, molti dei quali provenienti dalla Russia e dalla Romania, erano “relativamente ricchi, legati alla famiglia e apolitici”. Molti portavano con sé tre professionisti: “un rabbino, un esperto nella circoncisione e un agronomo”. Prima ancora di costruire le case o di iniziare a lavorare la terra, “costruivano una sinagoga e un bagno rituale (mikvah) per la comunità.”
Gli immigrati della prima aliyah si fusero in una società multireligiosa che comprendeva musulmani, cristiani e ebrei, ovvero quello che oggi è chiamato il Vecchio Yishuv. Queste comunità vissero prima sotto l’autorità ottomana e poi sotto quella britannica. Secondo una stima attendibile, la popolazione della Palestina alla vigilia della colonizzazione britannica, poco prima della Prima Guerra Mondiale, era di circa 720 mila abitanti. Gli ebrei erano tra i 60 mila e gli 85 mila. Rispettando i luoghi sacri, la stragrande maggioranza viveva nelle quattro “città sante” di Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade. Tra i 25 mila e i 30 mila nella sola Gerusalemme.
Per gli ebrei devoti, la Palestina era una casa, ma non casa loro. Erano pronti a condividerla con altri e a lasciare la guida politica alle potenze imperiali di quel tempo. Vivere sotto gli ottomani e i britannici era una cosa accettabile, purché potessero praticare liberamente la loro fede. I loro successori, quelli della seconda aliyah, la vedevano diversamente. Per loro, aliyah significava non pellegrinaggio ma “cittadinanza e identità nazionale”. Gli uomini della seconda aliyah erano “spinti da un impegno che era più politico che religioso”. Erano tendenzialmente più giovani e meno legati all’istituzione della famiglia. Erano guidati da ideali “laici nazionalisti socialisti” in contrasto con “il Giudaismo religioso dei loro padri.”
La seconda aliyah cominciò ai primi del Novecento e raggiunse il picco tra il 1919 e il 1923. Le date non sono casuali: sono i primi anni di governo britannico in Palestina. Prima della Prima Guerra Mondiale, i nazionalisti ebrei avevano fatto proposte, poi respinte, al sultano ottomano. Durante e dopo la guerra trovarono un alleato nell’imperialismo britannico.238
Pur evidenziando, come Mamdani, l’importanza di una corrente astatuale nel primo Sionismo, Shumsky colloca la linea di demarcazione in un punto diverso. Andando oltre Mamdani, vede un Sionismo ottocentesco perlopiù “politico”. Solo che per lui il termine “politico” comprendeva anche programmi che Mamdani definisce “culturali” e “religiosi”.
Anche nel caso del Sionismo esplicitamente politico (e anche quando ricorre l’espressione “stato ebraico”), dice Shumsky, l’aspirazione degli ebrei all’autodeterminazione nazionale, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dovrebbe essere vista nel contesto più ampio di movimenti simili all’interno degli imperi austroungarico e russo del tempo. Cita lo storico Miroslav Hroch, per il quale forse a quei tempi non esisteva necessariamente un legame tra il concetto di autodeterminazione nazionale e la sovranità dello stato nazione.
Alcune delle sue opere più tarde tracciano lo sviluppo delle rivendicazioni nazional-politiche così come venivano articolate e proposte tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, soprattutto ad opera di movimenti etnico-nazionalistici operanti negli imperi russo, asburgico e ottomano. Qui Hroch scopre che il desiderio di una totale indipendenza politica era del tutto assente in questi movimenti nel periodo esaminato. Invece di vedere questi movimenti come stati in fieri, come era prassi in questo campo, Hroch divide gli obiettivi politici in tre livelli: la creazione, da parte di gruppi etno-nazionalisti, di una particolare lingua e cultura nazionale; la partecipazione, da parte di rappresentanti di questi movimenti, alle istituzioni sia a livello locale che imperiale; e infine l’istituzione di un’autonomia territoriale in quelle regioni definite come madrepatria storica. Il raggiungimento di questi tre obiettivi (se realizzato) significava politicamente la riorganizzazione dell’unità imperiale in una struttura plurinazionale piuttosto che lo smantellamento in unità mononazionali separate. Istituzionalmente parlando, alla base di questa struttura plurinazionale ci sarebbe stata una complessa integrazione delle diverse identità collettive dei diversi gruppi culturali, etnici e territoriali.239
(E in effetti, prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano qualsiasi idea di “stato ebraico” in Palestina si riduceva ad un parastato autonomo all’interno di un più ampio stato multietnico).
Nell’ambito ucraino e europeo orientale (e, in linguaggio esopico, anche russo imperiale), il sionista Leon Pinsker, tradizionalmente considerato uno dei primi sionisti “politici”, sosteneva la necessità di separare l’impero dalle nazioni, e sottolineava il pericolo di uno stato identificato in una particolare forma di nazionalismo etnico.
A giugno del 1861 il periodico Osnova attaccò aspramente quello che definiva l’isolazionismo della “tribù ebraica” in Ucraina, che non aveva niente in comune con la nazione ucraina se non il fatto che gli ebrei vi risiedevano da generazioni. Il mensile affermava decisamente che “niente è più pericoloso per una nazione dell’esistenza, al suo interno, di un gruppo più piccolo inerte indifferente al proprio destino.”
Attaccando così duramente l’isolazionismo della “tribù” ebraica rispetto alla “nazione” ucraina, Osnova stava esprimendo una percezione più diffusa di nazionalità, che contrastava fortemente con l’opinione di Pinsker riguardo “popolo” e “terra” e che pertanto lo faceva arrabbiare non meno degli attacchi alla sua “tribù”. … Sfidando il portavoce del nazionalismo ucraino invece di affrontare di petto il nazionalismo russo, Pinsker coglieva l’opportunità di proporre la sua idea del futuro impero e delle sue nazioni in modo sistematico…240
Pinsker rispose dicendo che per una particolare nazione all’interno di uno stato o regione è pericoloso “identificarsi con il tutto (con la totalità composta da più nazioni, di qualunque stato o regione)” perché significa che la parte controlla il tutto subordinandolo a sé. E fece l’esempio dell’Ungheria:
Cosa accadrebbe ai poveri slovacchi, serbi e croati, per non dire dei tedeschi, se gli ungheresi adottassero la vostra stessa teoria notando che gli slovacchi, o per esempio i serbi, e ancor più i tedeschi, sono indifferenti al destino del popolo ungherese, che pensano solo a conservare le proprie peculiarità e non pensano di unirsi ai magiari se non quando è nell’interesse di tutti, della patria in generale compresa la loro, cosa accadrebbe se gli ungheresi approfittassero della loro superiorità numerica per dire che la presenza degli slovacchi o dei tedeschi è un grosso pericolo e decidessero di sterminarli o di espellerli? … Siete come gli inquisitori medievali, che non capite che la diversità è vita e che solo la morte è indifferenziata?241
Pinsker, che conosceva i precursori ottocenteschi del Sionismo, “approvava il tentativo di istituire un insediamento agricolo ebraico in Palestina di natura sostanzialmente diversa dal vecchio Yishuv che viveva delle donazioni della diaspora…” Ma era anche contrario all’idea di “ristabilire l’indipendenza politica degli ebrei in Palestina.”242
In seguito alle “Tempeste del sud”, l’ondata di pogrom avvenuti nella Russia meridionale nel 1881, Pinsker si convinse sempre più della necessità di emigrare in Palestina. Nel suo pamphlet Autoemancipazione spiegava che l’emancipazione socio-politica ci sarebbe stata solo se gli ebrei avessero avuto quella sorta di dignità che viene dall’avere una terra in cui vivere.243
Anche così, però, vedeva questa terra nazionale territoriale, che fosse in Palestina o altrove, “in forma profondamente parastatuale, come paşalık (distretto amministrato da un pascià) all’interno dell’impero ottomano o come territorium in America.” Pinsker…
immaginava la futura autodeterminazione territoriale della nazione ebraica sotto forma di regione autonoma all’interno di una più ampia istituzione statale. In questo senso, non faceva che articolare le tendenze politiche che caratterizzavano i programmi nazionali e la politica dei movimenti etnico-nazionalisti delle nazionalità non dominanti emerse entro lo spazio imperiale dell’Europa Orientale e Centrale durante la seconda metà dell’Ottocento… Dalle montagne del Caucaso all’estremità orientale dello spazio plurinazionale tri-imperiale agli sloveni e ai cechi all’estremità occidentale, i portavoce di nazionalità non dominanti immaginavano una forma molto flessibile di autogoverno territoriale, quella che Simon Dubnow avrebbe poi definito “indipendenza dentro l’impero”. Questa non era una semplice tattica nata dalla paura del dominio imperiale. Al contrario, molti dei contemporanei di Pinsker e Dubnow negli imperi russo, ottomano e asburgico credevano, per ragioni legate alla realtà specifica di ogni movimento nazionalista, che l’esistenza degli imperi avrebbe offerto le migliori condizioni per i loro popoli, a condizione che gli imperi assumessero un più equo carattere plurinazionale.244
“Per Pinsker lo stato era solo plurinazionale nell’ambito dei Romanov e degli Asburgo del tempo, una struttura coordinatrice, inclusiva e complessiva.”245
Pur essendo oggi considerato il padre del movimento per lo stato ebraico, per Shumsky, come per Pinsker, l’idea di stato non era affatto associata all’idea di stato nazionale sovrano. Molti altri movimenti nazionalisti delle minoranze dell’Impero Asburgico “attribuivano alla parola ‘stato’ un significato parastatuale, un distretto territoriale autonomo che facesse parte di una struttura imperiale esistente.246 Il movimento nazionalista ceco, ad esempio…
lottava per uno “stato ceco” entro il quadro politico asburgico… Il che in pratica era l’aspirazione ad un’indipendenza territoriale nazionale entro il quadro imperiale, come “lo stato ungherese” nella duplice monarchia austroungarica. E così era anche per i movimenti nazionalisti croato e sloveno, la fazione galiziana del movimento nazionalista polacco, il movimento nazionalista ucraino in Galizia e della Precarpazia, e quello rumeno nella Transilvania ungherese. Aurel Popovici, uno degli autorevoli leader del tardo movimento, scrisse nel 1906 un’influente opera dal titolo Vereinigte Staaten von Groß-Österreich (Gli Stati Uniti della Grande Austria). Popovici proponeva la riorganizzazione della monarchia asburgica in uno stato federale plurinazionale che avrebbe dovuto essere più equo dell’attuale modello tedesco-ungherese.247
Anche nel romanzo utopico Altneuland (Vecchia terra nuova), pubblicato da Herzl nel 1902, “si sottolinea il carattere subsovrano dell’entità politica che egli voleva istituire in Palestina…”248 “Herzl dice chiaramente che Altneuland è un distretto dell’Impero Ottomano…”249
La tradizione sionista spirituale e culturale (non necessariamente apolitica ma neanche associata all’idea di uno stato nazionale esclusivamente ebreo) continua nel Novecento.
Ahad Ha’am, pur essendo un poeta comunemente associato al Sionismo religioso-culturale, convenzionalmente definito “apolitico”,250 scrisse nel 1920 un commento esplicitamente politico sulla Dichiarazione Balfour:
Il diritto storico di un popolo ad una terra abitata da altri non significa altro che questo: il diritto di tornare e insediarsi sulla terra dei propri padri, lavorandola e mettendola a frutto senza interferenze. … Questo diritto storico, però, non cancella il diritto degli abitanti del luogo, che fanno valere i loro diritti in virtù del fatto di aver risieduto in quella terra e di averla lavorata per generazioni. Oggi questa terra è anche la loro casa, e loro hanno il diritto di coltivare le proprie risorse nazionali come meglio possono. Questa situazione fa sì che la Palestina sia la casa comune di popoli diversi, ognuno dei quali cerca di crearsi una casa propria. In una situazione del genere la “casa nazionale” di ognuno di questi popoli non può più essere totale, non può comprendere tutti gli aspetti che questa comporta. Se non si edifica una casa in una terra disabitata, se la si edifica laddove vivono altri, ovviamente si è padroni soltanto al di qua della porta. Dentro ci si può organizzare come meglio si crede. Fuori serve la cooperazione di tutti gli abitanti del posto, occorre accordarsi su una guida generale per il bene di tutti.251
Ahad Ha’am scrisse anche che “le ‘case nazionali’, o focolari, delle diverse nazioni del territorio possono solo chiedere che il proprio popolo sia libero negli affari interni, mentre la guida negli affari di tutti deve essere determinata da tutti i “capi delle varie case” congiuntamente…”252 Egli dunque vedeva…
nella maggioranza ebrea in Palestina un gruppo nazionale intento a gestire unicamente i propri affari interni. Come nell’esempio svizzero, la Palestina sarebbe stata unicamente ebraica se fosse stato un distretto ebraico autonomo fianco a fianco con altri popoli ognuno concentrato nel proprio distretto nazionale. Sia il popolo ebraico che gli altri popoli avrebbero potuto esercitare l’autogoverno in tutti quegli ambiti necessari a dar vita alle loro identità culturali collettive senza che le loro preferenze fossero “inquinate”. Allo stesso tempo, però, tutti avrebbero vissuto all’interno di un unico quadro politico, esattamente come in Svizzera.253
Fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per Ahad Ha’am, così come per Pinsker e Buber, “era più che ovvio che l’Impero Ottomano avrebbe continuato a governare la Palestina come uno dei suoi paşalık anche nel caso di una emancipazione territoriale palestinese.”254
Anche Martin Buber vedeva nel futuro Eretz Israel da istituire in Palestina una comunità autogovernata in una Palestina binazionale, non uno stato etnico ebraico. In un discorso al congresso sionista di Karlsbad del 1921, da lui ridefinito nel 1948 “discorso sul dialogo tra ebrei e arabi”,255 definì l’allora modello etnico-nazionalistico europeo “un nazionalismo degenerato, che ultimamente ha cominciato a diffondersi anche nel giudaismo.”256
Sappiamo bene che, sociologicamente parlando, il moderno nazionalismo nasce con la Rivoluzione Francese. Gli effetti della rivoluzione furono tali che il vecchio ordine statale che pesava così fortemente sui popoli europei ne fu scosso, e le nazioni fino ad allora assoggettate poterono liberarsi dal giogo. Ma liberandosi e acquisendo consapevolezza queste nazioni divennero consapevoli anche delle loro insufficienze politiche, della loro assenza di indipendenza, di unità territoriale e di solidarietà. Cercarono di rimediare a queste insufficienze, ma gli sforzi non generarono nuove forme. Non cercarono di darsi un’istituzione in quanto popolo, ovvero un nuovo ordine organico scaturito dalla loro esistenza naturale di popolo. Volevano unicamente diventare stati, potenti, burocratici, centralizzati apparati di stato come quelli che esistevano prima.257
Quindi proseguiva distinguendo tra nazionalismi buoni, o “sani”, e nazionalismi “falsi”. Questi ultimi, disse, “si costituiscono in principi permanenti unici, ovvero vanno oltre le loro funzioni, oltrepassano i confini e… bandiscono la spontanea esistenza della nazione. … Quando questo falso nazionalismo… non solo è imposto ad un popolo, ma diventa il marchio di un’epoca storica, significa che l’esistenza dell’uomo… è marcia.258
Nello stesso discorso denunciò l’ascesa, a partire dalla metà dell’Ottocento, di un nazionalismo convenzionale che separava l’identità nazionale dalla vocazione religiosa di Israele elevando quest’ultima a fine in sé. La diaspora “anelava alla terra di Israele, non in quanto nazione come le altre, ma in quanto Giudaismo…, con motivazioni e finalità che non sono interamente riconducibili alla categoria ‘nazione’.” Il nazionalismo ebraico ha finito per “voler essere anzitutto ‘come le altre nazioni’. …”
Anch’esso è colpevole di aver trasgredito all’ordine della legge che sta sopra a tutte le nazioni: che tutta la sovranità diventa falsa e vana quando nella lotta per il potere non si tiene fede al Sovrano del mondo, che è il Sovrano del mio rivale, il Sovrano del mio nemico, e anche il mio Sovrano.259
Parlando al Sedicesimo Congresso Sionista del 1929, Buber disse che approvava “il Sionismo di Moses Hess e Ahad Ha’am, il Sionismo di Vecchia terra nuova di Herzl e quello di A. D. Gordon.” Ribadì la sua fede non in un “nuovo Sionismo” ma nel “Sionismo di tutti i nostri leader spirituali”, invitò a stare lontani dalla “politica del potere” e lanciò un’ipotetica sfida: “questo è qualcosa che un giorno realizzeremo, ma prima dobbiamo dare sicurezza alla nostre vite”, facendo intendere con questo che il progetto sionista in Palestina non doveva servirsi di una politica di forza per garantire la sicurezza.260 Riguardo la “questione araba”, così esortò gli ascoltatori:
Ricordatevi… di come ci guardavano e ancora continuano a guardarci dall’alto dappertutto come stranieri, come esseri inferiori. Stiamo attenti a non guardare anche noi dall’alto, a non trattare da inferiori quelli che ci sono stranieri, quelli di cui abbiamo una conoscenza approssimata! Stiamo attenti a non fare agli altri ciò che è stato fatto contro di noi! … Non credo di illudermi se dico che ad oggi tra noi e gli arabi esiste un’armonia di interessi, o che tale armonia potrebbe nascere. E per quanto i nostri interessi siano diversi (il che è frutto dell’illusione più che della politica), un consenso politico è possibile, perché sia noi che loro amiamo la terra, perché sia noi che loro abbiamo fede nel futuro. E condividendo questo amore e questa volontà, possiamo collaborare per questa nostra terra.261 …
Quello stesso anno, in un articolo intitolato “La casa della nazione e la politica della nazione in Palestina” scriveva:
Riguardo la politica interna, si tratta di combinare assieme indipendenza nazionale e coesistenza possibile: ciò che viene chiamato stato binazionale… Se riusciamo a rassicurare il popolo arabo dicendo che stiamo chiedendo la rappresentanza popolare assieme a loro, il nostro diritto di esistere è salvo. Questo significa che si può istituire un parlamento solo con il consenso di entrambi i popoli e sulla base di una Magna Carta, una costituzione, con la garanzia delle autorità mondiali competenti, che garantisca i nostri diritti elementari ma anche i diritti degli arabi, ovvero soprattutto il diritto di migrare [in Palestina].262
E aggiunse: “È solo sulla base di accordi con loro [gli arabi] che possiamo espanderci e dare sicurezza alle nostre attività, migliorando il territorio…”263
Nel 1932, ad Anversa, parlando ad un convegno di rappresentanti della gioventù ebraica, Buber evidenziò come la missione divina di far rinascere la vita religiosa e culturale ebraica in Palestina non poteva passare da una politica di forza o di ingiustizie verso gli arabi.
Non otteniamo nulla se dividiamo il nostro mondo e la nostra esistenza in due domini: quello dominato da Dio, e quello governato esclusivamente dalle leggi dell’economia, della politica, dal semplice “imporsi” del gruppo…
…Ciò che è sbagliato per il singolo non può essere giusto per la comunità. Altrimenti Dio, il Dio del Sinai, non sarebbe più il Dio dei popoli ma solo dei singoli… E se noi scaviamo in fondo alla memoria e tiriamo fuori ciò che Dio ha ordinato agli uomini, cosa troviamo? La parola pace. Molti di noi pensano che questo comandamento sia riservato ad un futuro più propizio, che per ora dobbiamo prendere parte alla guerra universale se vogliamo sfuggire alla distruzione. Ma è solo prendendo parte a questa guerra che saremo distrutti; perché per noi l’unica distruzione possibile è l’abbandono da parte di Dio.
Mi capita spesso di sentire qualcuno di noi che dice: “Anche noi vogliamo realizzare lo spirito del Giudaismo; anche noi vogliamo una Torah che scaturisca da Sion, e sappiamo che se vogliamo realizzare questo proposito la Torah non può essere soltanto parole ma vita vissuta; vogliamo che la parola del Signore su Sion diventi realtà. Ma questo non avverrà finché il mondo non avrà un suo Sion, e allora dobbiamo prima di tutto edificare Sion, e edificarlo… con ogni mezzo.” Ma forse Sion non può essere edificato “con ogni mezzo” ma solo con Bemishpat (Isa. 1:27), solo “con la giustizia”. … Immaginiamo che qualcuno vada a rubare per sei anni, e che durante il settimo costruisca un tempio con le fortune accumulate. … Ha costruitò un tempio? O piuttosto un covo di ladri…, sul cui frontone avrebbe l’audacia di incidere il nome di Dio? …
…Spesso sento dire che una generazione deve sacrificarsi, che deve “assumere il peccato su di sé”, affinché la generazione successiva possa vivere rettamente. Ma è illusione e follia pensare che si possa vivere una vita nel male e allevare i propri figli al bene e alla felicità…
…La profezia della pace rivolta ad Israele non vale solo per il giorno in cui verrà il Messia. Vale per il giorno in cui il popolo è chiamato a raccolta per aiutare a dar forma al destino della sua prima casa: vale per oggi.264
Nella sua lettera aperta a Ghandi, Buber ribadiva che solo “come membri di una libera comunità ebraica di questo paese”, e non come “individui nella sfera della propria esistenza privata”, gli ebrei possono realizzare “la loro missione che consiste nell’indicare il vivere giusto alle prossime generazioni…” E in quel vivere giusto rientra…
la proprietà comune della terra, un livellamento continuo delle differenze sociali, la garanzia d’indipendenza per l’individuo, l’aiuto reciproco, un Sabbath che sia di riposo anche per i servi e le bestie in quanto esseri con pari diritto al riposo, un anno sabbatico che permetta alla terra di riposare e a tutti quanti di essere ammessi al godimento dei suoi frutti… E per questo noi abbiamo bisogno di una nostra terra…: non della terra altrui sotto leggi straniere.265
Buber confermò la sua adesione al Sionismo che aspira ad una “pace vera tra ebrei e arabi”, col che intendeva che “entrambi i popoli insieme hanno il diritto di coltivare la terra senza che l’uno imponga il proprio volere sull’altro.”266
All’affermazione di Ghandi per cui “la Palestina appartiene agli arabi”, Buber risponde dubitando che una terra possa appartenere ad un qualche popolo, il quale avrebbe il diritto di vietare l’immigrazione pacifica.267
…Vogliamo coltivare la terra assieme a loro… Più sarà fertile la terra, e più spazio ci sarà per noi e per loro. Non vogliamo affatto prendere ciò che è loro; vogliamo semplicemente vivere con loro. Non vogliamo dominarli, vogliamo renderci utili assieme a loro…”268
Altra voce importante del Sionismo binazionale fu Judah Magnes, figura di spicco del Giudaismo riformato, primo rettore, in seguito presidente, dell’Università Ebraica di Gerusalemme.
Nel 1913 Magnes espose il suo ideale di insediamento ebraico, in Palestina o altrove, non uno stato indipendente ma nel quadro politico dell’impero ottomano; in questo egli vedeva “l’opportunità di aiutare l’Impero Ottomano nel suo cammino verso il risanamento e la normalità.” Commentò favorevolmente anche il tentativo delle organizzazioni ebraiche europee di negoziare l’autonomia della maggioranza sefardita di Salonicco.269
Per quanto riguardava gli ebrei in Palestina, ma anche altrove, il suo obiettivo, dichiarato anche in una lettera del 1915, era semplicemente l’uguaglianza.
Il programma dell’Organizzazione Sionista al Congresso è: pari diritti per gli ebrei ovunque e una casa in Palestina. A mio parere, il fatto che ancora oggi si ripeta la stessa formula, senza un’azione costante e ufficiale da parte dell’Organizzazione Sionista, comporta molte gravi conseguenze per gli ebrei in Palestina, l’Organizzazione Sionista e tutto il Popolo Ebraico.
Avete spiegato ai sionisti, al popolo ebraico, alla nazione americana, al governo ottomano, a voi stessi cosa intendete per “una casa sicura”? Non mi pare. Forse vi siete dimenticati che la Palestina fa parte dello stato ottomano, e che lo stato ottomano è in guerra. Possiamo dunque biasimare il governo ottomano perché ci guarda con sospetto se, quando formuliamo un programma politico per il popolo ebraico, facciamo un’eccezione per la Palestina e diciamo che, se vogliamo pari diritti per gli ebrei in tutto il mondo, in Palestina vogliamo diritti maggiorati? Io sono per i pari diritti degli ebrei, né più né meno, ovunque, anche in Palestina. Voglio che gli ebrei in Russia siano allo stesso livello degli altri cittadini dell’impero, e mi aspetto la stessa uguaglianza in Palestina; né più né meno. Pari diritti per gli ebrei in Palestina significa che gli ebrei devono avere gli stessi diritti degli altri abitanti dell’Impero Ottomano. Così come i turchi, gli arabi, gli armeni e le altre comunità dell’impero hanno pieni diritti politici e piena libertà di praticare la loro cultura specifica, ovvero religione, lingua, istruzione, anche alla comunità ebraica in Palestina spettano gli stessi diritti politici e la stessa libertà culturale. Solo così si potrà dire che gli ebrei di Palestina sono allo stesso livello dei musulmani, dei cristiani, dei turchi, degli arabi, degli armeni e di altre comunità di quell’impero. È nostro diritto chiedere che agli ebrei sia permesso emigrare in Palestina, insediandovisi e mettendo in pratica liberamente le loro attività economiche e culturali, come le altre comunità dell’impero che hanno gli stessi diritti…
Voi direte: e il Sionismo? Sionismo deve significare oggi, come in passato per molti di noi, edificare in Palestina un centro culturale grazie all’energia culturale del Popolo Ebraico libero di Palestina, provincia ottomana.270
Non poteva quindi non accogliere la Dichiarazione con molto scetticismo. “I ‘lavoratori di Sion’,”
dichiarò pubblicamente nel 1919, non potevano accettare, così sperava, che gli ebrei diventassero “la coda di un aquilone imperiale”; avrebbero “convinto gli arabi, anche loro in lotta per la libertà e l’indipendenza, che noi ebrei vogliamo che spetti a noi quello che spetta a tutti.” In un’atmosfera effervescente, tra la Dichiarazione Balfour e la Conferenza di Sanremo, Magnes ammoniva a non affidarsi agli inglesi e perorava la causa della questione araba.271
In una lettera del 1920 che cominciava semplicemente con “Caro Amico”, ribadiva la sua contrarietà verso l’uso della forza imperiale per realizzare il programma di Sion; l’Impero Britannico non solo subordinava il popolo ebraico alle sue mire politiche, ma poneva gli ebrei nella posizione di chi occupa una terra acquisita con la forza delle armi, che dunque doveva essere mantenuta con la forza delle armi degli ebrei. Per Magnes, l’unico modo per edificare Sion in Palestina passava dall’impegno culturale e religioso degli ebrei in collaborazione con le popolazioni del posto.
Il fatto è che la popolazione araba in Palestina è cinque o sei volte quella ebraica. Voi parlate del “diritto storico” degli ebrei di avere la precedenza sull’attuale maggioranza araba. Ma io so che questi diritti storici, strategici, economici, hanno sempre finito per calpestare l’autodeterminazione quando ciò rispondeva alle esigenze dei conquistatori. Certo, anch’io credo nel “diritto storico” degli ebrei sulla Terra di Israele, ma non nel senso che la terra storica deve essere fatta propria con la forza, bensì, potendo, con la fatica, facendo lavorare il cervello e la mano, collaborando e scambiando le idee con l’attuale maggioranza.272
Scrivendo sul suo diario nel 1928, Magnes negava che la Palestina potesse “appartenere” ad un solo gruppo etnico o religioso, nel senso di impedire la libertà e l’immigrazione pacifica, sempre però tenendo conto della capacità del territorio di assorbire gli immigrati. Magnes credeva in un ordinamento plurinazionale in cui la Lega delle Nazioni avrebbe avuto funzioni analoghe a quelle del vecchio Impero Ottomano.
1. Cominciamo col dire che la Palestina è sui generis. Nessun altro angolo del mondo ha così tante testimonianze di così tanti popoli e fedi religiose… Terra di almeno tre grosse religioni e di altri credi sussidiari (Bahai). Non ha mai vissuto per sé. È sempre stata un ponte… Questo è vero per molte, moltissime nazioni e terre, ma particolarmente per la Palestina. La Terra Santa, La Città Santa, i Luoghi Santi. Monasteri, conventi, consolati, gli interessi delle nazioni. Le sette cristiane. Il turismo.
2. Spiritualmente, la Palestina non “appartiene” a nessuno in particolare. Ki li kol ha’arets [perché la terra è Mia]. La terra appartiene nel vero senso della parola a tutti i popoli che sono stati influenzati dal Giudaismo. Cristianità e Islam. La sua importanza storica e spirituale (geografica) è troppo grande per dire che “appartiene” a chi ci vive in un dato momento. Questi sono i suoi abitanti privilegiati, i suoi fiduciari (e come tali devono agire).
3. Una delle conseguenza di questa eccezionalità è pertanto la “internazionalizzazione della Palestina”. La Lega delle Nazioni rappresenta dunque la forma più appropriata di sovranità e controllo ultimativi. Bisogna accrescere l’influenza della Lega in Palestina. Dobbiamo far sì che il Mandatario sia sempre più cosciente del suo ruolo di fiduciario di una terra internazionale. La terra dovrebbe servire il meno possibile l’imperialismo politico o economico della potenza Mandataria… Un divieto internazionale di tenere eserciti imperiali ma solo forze di polizia… Un Libero Stato simile a una Libera Città, con un porto aperto a chiunque…
4. Una delle prime conclusioni di questo ordinamento internazionale è “Porte Aperte”: una terra aperta a tutti i popoli. Chiunque può venire, turista o colono, a prescindere dalla nazionalità e dalla religione. Una politica basata sulla libertà d’immigrazione, sempre però tenendo conto della capacità di assorbimento del territorio. L’immigrazione non avrà limiti di tipo religioso, politico o sociale.273
Scrivendo a Chaim Weizmann nel 1929, Magnes distingue il Sionismo come movimento culturale o religioso dal Sionismo come progetto statuale violento, e chiarisce la sua preferenza per il primo.
Io credo che sia il momento di chiarire fino in fondo l’atteggiamento ebraico riguardo la Palestina, perché solo una delle due strade è percorribile. Da un lato l’atteggiamento logico delineato da Jabotinsky in una lettera al Times di oggi, ovvero un’esistenza ebraica in Palestina basata sull’imperialismo e il militarismo; dall’altro un atteggiamento pacifico che considera del tutto secondarie questioni come lo “Stato Ebraico” o una maggioranza ebraica, o anche “La Casa del Popolo Ebraico”, e come primario lo sviluppo di un centro spirituale, educativo, etico e religioso ebraico in Palestina…
L’atteggiamento imperialista, militare e politico si basa su una massiccia immigrazione ebraica per conseguire (con la forza, se occorre) una maggioranza ebrea, a costo di opprimere gli arabi o privarli dei loro diritti. In questo caso, il fine giustifica sempre i mezzi. All’altro estremo abbiamo lo sviluppo di un Centro spirituale ebraico, che non dipende dall’immigrazione di massa, da una maggioranza ebraica, o da uno Stato Ebraico o ancora dalla privazione degli arabi (o degli ebrei) dei loro diritti politici, per una generazione o anche solo per un giorno; ma che al contrario vuole che la Palestina diventi una terra per due popoli e tre religioni, tutti con gli stessi diritti e nessuno con particolari privilegi; una terra in cui il nazionalismo faccia da base all’internazionalismo, in cui la popolazione sia pacifista e disarmata. In breve, la Terra Santa…
La questione è: vogliamo conquistare la Palestina come fece Giosuè ai suoi tempi: col fuoco e la spada? Oppure riconosciamo che la religione ebraica è cambiata dai tempi di Giosuè, dei Profeti, dei Rabbini o di chi scrisse i salmi, e allora ripetiamo le parole: “Non con la potenza né con la forza, ma con il mio spirito, dice il Signore.” La questione è: è possibile entrare, colonizzare e fondare pacificamente un paese, e possiamo noi ebrei farlo in Terra Santa? Se non si può…, io dal canto mio ho perso metà del mio interesse nell’iniziativa.274
In una lettera indirizzata a Felix Warburg, Magnes cita quanto riportato qua sopra e aggiunge: “La Palestina non appartiene né agli ebrei né agli arabi, e neanche al Giudaismo, alla Cristianità o all’Islam.”
Appartiene a tutti loro assieme. È la Terra Santa. Se gli arabi volessero uno stato nazionale arabo in Palestina, la loro proposta sarebbe indifendibile quanto quella di uno stato nazionale ebraico da parte degli ebrei. Dobbiamo, una volta per tutte, dimenticare l’idea di una “Palestina ebrea” che escluda e elimini una Palestina araba. Questi sono fatti storici, e la Palestina è semplicemente storia. Se la casa degli ebrei in Palestina è compatibile con la casa degli arabi nello stesso luogo, tutto bene, altrimenti il nome fa poca differenza. Il fatto è che non si ottiene nulla se ebrei e arabi non collaborano in pace per il bene della loro Terra Santa comune.275
Il 24 novembre, il New York Times pubblicò una dichiarazione di Magnes a sostegno di uno stato binazionale in Palestina. I termini del mandato che stabiliva pari diritti per tutta la popolazione, maggioranza e minoranza…
bastavano, secondo Magnes, ad autorizzare gli ebrei “a istituire in Palestina il proprio focolare sull’esempio immaginato da Ahad Ha’am, un centro intellettuale e spirituale per il Giudaismo e il popolo ebraico fondato sulla coltivazione della terra, l’industria e attività di ogni genere.” A queste condizioni, con una popolazione ebraica che allora era un quinto del totale, Magnes vedeva con favore l’istituzione di un’assemblea con poteri legislativi: questa per gli arabi era una proposta di fondo, ma vedeva i sionisti contrari.
Magnes in seguito illustrò il suo programma in un pamphlet, Come tutte le nazioni?, pubblicato a dicembre del 1929. Dopo aver riconosciuto il diritto degli ebrei di migrare e insediarsi, nonché di vivere ed esprimere la propria cultura, aggiungeva: “io sarei anche disposto ad uno ‘stato’ ebraico e una ‘maggioranza’ ebrea; ma credo anche che occorra un’assemblea con poteri legislativi e un regime democratico ordinato e pianificato accuratamente in modo da non violare i tre principi fondamentali citati più su.” Magnes era disposto “a pagare qualunque prezzo per questi tre [principi fondamentali], perché solo così si possono avere sicurezza e rispetto reciproco.”276
L’anno dopo, scrivendo a Chaim Weizmann, disse che “senza il rispetto reciproco tra arabi e ebrei… non è possibile nessun Focolare Nazionale Ebraico. In un poscritto, elenca i punti chiave di tale intesa:
I. Economico e sociale
1. Sviluppo economico e sociale della Palestina tramite la cooperazione tra ebrei, arabi e capitali britannici, e in altri modi.
a. Insediamenti ebraici e acquisto della terra lasciando però alle popolazioni attuali la terra sufficiente per vivere.
b. Arabi, britannici e ebrei dovrebbero aiutare i fellahin a passare alle colture intensive tramite sistemi d’irrigazione, nuove tecniche colturali, sanità e credito a basso costo, così da poter essere all’altezza degli immigrati ebrei una volta che questi si saranno insediati.
c. Le questioni di cui ai punti a e b devono essere regolate da una commissione neutrale e imparziale.
d. Cooperazione nell’industria, nello sfruttamento delle risorse naturali e nei servizi pubblici.
e. Istruzione e salute.
2. Sviluppo economico e sociale di altre terre arabe con capitali arabi, ebrei e britannici, ma anche con insediamenti ebraici.
II. Politico
3. Un’Assemblea Legislativa democratica basata su una costituzione che riconosca il mandato della Gran Bretagna e la Casa Nazionale Ebraica e offra la salvaguardia delle minoranze.
4. Crescita della cooperazione politica, economica e sociale tra i vari territori arabi, sempre facendo in modo che sia salvaguardata la particolarità della Palestina.277
Dopo lo sciopero generale e la rivolta delle popolazioni arabe, si fa sempre più pressante la posizione di Magnes riguardo la necessità di dialogare direttamente con gli arabi saltando l’autorità mandataria britannica.278 Nel mese di gennaio 1937, Magnes acclude a una lettera inviata a Reginald Coupland un memorandum a complemento di Come tutte le nazioni?, in cui sostiene la necessità di una tregua decennale con gli arabi al fine di…
a) Imporre un tetto all’immigrazione ebrea;
b) Fornire salvaguardie adeguate ai fellahin e ai fittavoli nelle pratiche d’acquisto delle terre;
c) Garantire un’equa distribuzione dei compiti e altre cose tra le due comunità;
d) Garantire una maggiore partecipazione di ebrei e arabi al governo, nell’organo esecutivo e con l’organo legislativo a condizioni chiare.279
A ciò, aggiunse, doveva essere “dovere primario… della Gran Bretagna assicurare altruisticamente che la Palestina rimanga la Terra Santa delle tre religioni, nonché aiutare la nascita di uno stato binazionale e birazziale.”280
Coerente con i suoi ideali, Magnes combatté fino all’ultimo qualsiasi proposta di divisione della Palestina in due stati, arabo e ebraico. Denunciò il piano di partizione elaborato nel 1937 dalla Commissione Peel come “un miserabile fallimento” di cui “tutti noi dovremmo vergognarci per non essere stati all’altezza del nostro compito storico.”281 Respinse il piano anche sulla base del fatto che la popolazione delle campagne, anche entro i confini del piccolo stato ebraico proposto allora, era araba, cosa che avrebbe portato ad un forte irredentismo arabo o alla loro espulsione.
Ma cosa succederà domani, quando avrete in regalo la sovranità di questa terra conquistata? Non l’avete pagata in moneta. Non avete mandato i vostri giovani uomini e donne a lavorarne la terra con amore: non ne avete avuto la possibilità. State ottenendo qualcosa che non vi appartiene.
Sotto il mandato, allo stato attuale, abbiamo ancora vent’anni di tempo per cercare di ottenere con il denaro, il lavoro, l’amore, la volontà, ciò che ci appartiene. Ma accettare una sovranità data in questo modo, a mio parere, non è degno della storia del popolo ebraico e degli ideali che l’hanno condotto fino a questa Terra Santa.282
Per le stesse ragioni, Magnes era contro la Dichiarazione Biltmore del 1942, e con lui anche altre correnti sioniste che ancora sostenevano lo stato binazionale.
“Lo slogan stato ebraico o stato associato”, scrive, “equivale in sostanza a una dichiarazione di guerra degli ebrei contro gli arabi.” … Anche altre persone in Palestina erano contro la Dichiarazione Biltmore. Nel movimento dei lavoratori, Hashomer Ha’tza’ir (partito della Giovane Guardia) e un piccolo gruppo socialista restavano fedeli allo stato binazionale. Molti immigrati dalla Germania presero in esame la scelta estrema. Molti degli ex appartenenti al B’rit Shalom, compresi gruppi universitari e coloni della prima ora come Chaim Margalit Kalvarisky, Moshe Smilansky e Rav Binyamin (Benjamin Feldman-Radler) vedevano nella Dichiarazione Biltmore una minaccia contro il loro tentativo di arrivare a un’intesa con i leader arabi moderati.283
A marzo del 1948, Magnes si allineò con quella fazione del dipartimento di stato americano che cercava di rimandare la divisione della Palestina per porla sotto il mandato dell’ONU.284 Quando gli eventi di maggio resero la statualità un fatto irrevocabile, sperò in una soluzione confederale come migliore soluzione pacifica. Da giugno fino alla morte, avvenuta ad ottobre, lavorò febbrilmente all’idea di una confederazione di stati arabo e ebraico con Gerusalemme come capitale.”285
Se Pinsker e Herzl davano un’interpretazione sfumata alle parole “stato” e “politico”, Shumsky vede un passaggio ancora più sfumato tra la prima e la seconda e tra la seconda e la terza aliyah rispetto a Mamdani. Andando oltre quest’ultimo, arriva a sostenere che negli anni Trenta anche arcinazionalisti come Ben-Gurion e (dio ci salvi) Jabotinsky avessero un concetto sfumato di “stato”.
Vladimir Jabotinsky fondò il Sionismo Revisionista, che allontanandosi dagli obiettivi socialisti assunse come obiettivo primario l’istituzione di uno stato etnico esclusivamente ebreo. Tra la Guerra Mondiale e la Dichiarazione Balfour, Jabotinsky per “stato ebraico” intendeva un’entità parastatuale, autonoma, sotto il governo ottomano o dei Giovani Turchi, all’interno di un impero plurinazionale debolmente organizzato. Dopo Balfour e il Mandato, cominciò a prospettare un’entità puramente sovrana pur vedendo ancora lo stato ebraico come qualcosa di simile ad un impero plurinazionale, con le comunità ebrea e araba in gran parte slegate dallo stato e lo stato con funzioni perlopiù amministrative.
Come Pinsker, anche Jabotinsky partiva dalla separazione tra “nazione” (etnica, territoriale o diffusa) e “stato” (non plurinazionale). Per Jabotinsky, ogni nazione aspira alla “autodeterminazione sociale”, che significa una concentrazione demografica ottimale in una data regione intesa come focolare storico. Politicamente parlando, però, queste nazioni hanno anche interesse a far parte di un più ampio stato federale plurinazionale che faccia da quadro politico organizzativo che comprende tutti i cittadini. Ogni comunità o distretto nazionale ha a sua volta il compito critico di mediare la propria inclusione in qualità di soggetto della sovranità governativa dello stato federale plurinazionale. Jabotinsky partì da quello che secondo lui avrebbe dovuto essere in futuro la Russia zarista. Dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, proiettò questo suo ideale sull’Impero Ottomano. Al cuore era l’istituzione di un autogoverno territoriale in Palestina che avrebbe dovuto essere parte di uno “stato delle nazionalità” (Nationalitätenstaat), che, così credeva, prima o poi i Giovani Turchi avrebbero istituito. Quanto all’Impero Austroungarico, terzo elemento dello spazio tri-imperiale, ci vedeva uno stato in fieri delle nazionalità definite, fonte inesauribile di modelli politici plurinazionali. L’Impero Austroungarico era un punto di riferimento costante anche di quel quadro politico plurinazionale di cui lo “stato ebraico” (leggi: distretto) presto avrebbe fatto parte.
Dopo il collasso degli imperi plurinazionali, cambiò radicalmente l’idea che Jabotinsky aveva del futuro politico ebraico. Per il resto della vita, pur mantenendo la proposta di una Palestina come Settimo Dominio dell’Impero Britannico, parlò dello stato ebraico in senso chiaramente sovranista. Ciononostante, continuò sempre e ostinatamente ad immaginare il futuro stato ebraico secondo quel modello nazionalista statale che lui vedeva nella Russia zarista e nella Turchia ottomana e che, sempre secondo lui, a breve si sarebbe realizzato anche nell’Impero Asburgico. Cominciò a sostenere, con forza crescente, la necessità di tenere “lo stato” fuori dagli affari interni delle sue nazionalità (prime fra tutte quella araba e ebraica, ma in teoria qualunque gruppo di persone che si dichiarasse “nazione”), riducendone i compiti ad una semplice attività di coordinazione tra le diverse comunità etnico-nazionali… [P]iù Jabotinsky alzava la bandiera di quella che prima della Prima Guerra Mondiale chiamava l’“autodeterminazione sociale” della nazione (lo slogan “il maggior numero possibile di ebrei in quanta più terra possibile” esprime concisamente il suo sogno di una forte maggioranza ebraica sulle due rive del Giordano), e più fermamente sottolineava il carattere plurinazionale dello “Stato Ebraico”, che sarebbe dovuto nascere se l’apparato politico si fosse tenuto lontano dalle questioni riguardanti il carattere nazionalistico della società.286
Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, con l’istituzione del mandato, Jabotinsky prospettò uno stato ebraico a maggioranza ebrea con il controllo di tutta la Palestina. Ciononostante, continuò a vedere le relazioni tra la maggioranza ebrea e la minoranza araba alla stregua di quelle da lui immaginate tra la maggioranza russa e le varie minoranze etniche in un Impero Russo plurinazionale.287
“[I]l futuro della Palestina,” scriveva nel 1926, “deve fondarsi, giuridicamente parlando, su uno ‘stato binazionale’.” La Palestina, come tutti i paesi “che hanno una minoranza etnica, anche minuscola, dovrebbe, ne siamo convinti, devono adeguare il proprio regime legale alla realtà e diventare uno stato binazionale, trinazionale o anche quadrinazionale…”288
Apparentemente, nella mente di Jabotinsky col tempo si inasprì il contrasto tra “nazione” e “territorio” da un lato e “stato” dall’altro. Più immaginava una territorializzazione ebrea e più vedeva con favore l’“evacuazione” degli ebrei dell’Europa Orientale e Centrale verso la Palestina, e più diventava marginale il ruolo dello “stato” nel plasmare la vita dei cittadini (i quali, come detto, erano considerati cittadini di nazioni integrate). Due anni prima di morire, Jabotinsky fornì una formulazione chiara e breve delle sue idee paradossali in un articolo pubblicato il ventuno ottobre 1938 sul quotidiano revisionista con sede in Palestina HaYarden, con il titolo “La questione sociale”: “L’entità “stato” deve essere organizzativa, non territoriale. Questa è la sua forma essenziale.” …
L’articolazione più chiara e precisa del suo ideale di stato ebraico delle nazionalità Jabotinsky la offre nel suo ultimo libro, The Jewish War Front (Il fronte di guerra ebraica, NdT), pubblicato nel 1940. Il testo… illustra brevemente il futuro stato ebraico in Palestina. Qui come altrove in precedenza, per Jabotinsky la natura ebraica dello stato viene né più né meno dal fatto di essere a maggioranza ebrea. Ma, sempre come altrove, per natura lo stato rispecchia il diritto all’autodeterminazione di (almeno) due gruppi nazionalistici, quello arabo e quello ebraico, mediando tra essi e la sovranità dominante dello stato. Scrive: “Le comunità etniche ebraica e araba saranno riconosciute come organismi autonomi uguali davanti alla legge… Ogni comunità etnica eleggerà la sua Dieta Nazionale, che avrà il diritto di emettere ordinanze e imporre tasse entro i limiti della sua autonomia, e nominerà un esecutore nazionale che dovrà rispondere davanti alla Dieta.”289
Come diversi altri, anche David Ben-Gurion prima della Prima Guerra Mondiale immaginava lo stato ebraico di Palestina come parte di un plurinazionale Impero Ottomano. Anche dopo il crollo dell’impero, continuò a immaginare lo stato a maggioranza ebraica secondo linee plurinazionali, una sorta di stato ottomano in miniatura.
Secondo Ben-Gurion, lo stato avrebbe dovuto essere indipendente e a maggioranza ebrea, ma avrebbe anche dovuto essere fondato su una democrazia plurinazionale piuttosto che su un centralismo mononazionale ad immagine dello stato nazione. Pensava che la minoranza araba che si sarebbe formata avrebbe avuto diritti nazionali collettivi, non solo diritti civili individuali…290
Nel suo programma del 1931, dal titolo “Presupposti di un regime governativo in Palestina”, scriveva:
La Palestina diventerà uno stato federale articolato così: 1) amministrazioni cittadine e di villaggio, pienamente indipendenti; 2) cantoni comprendenti stati autonomi all’interno dello stato federale palestinese. Ogni centro abitato di oltre 25 mila abitanti può diventare cantone libero. Ogni cantone può redarre la propria costituzione. Nessun cantone può approvare leggi che limitino o violino i diritti e l’uguaglianza degli abitanti di altri cantoni. Tutti i cittadini godono di pari diritti in tutti i cantoni; 3) le nazionalità autonome hanno autorità assoluta nell’ambito dell’istruzione, cultura e lingua, in linea con la costituzione approvata dall’assemblea costituente.291
Fino alla seconda metà degli anni Trenta, ma anche dopo la Grande rivolta araba del 1936, mantenne questo schema ideale “che ovviamente richiedeva l’istituzione di uno stato in Palestina con la struttura di una democrazia consociativa.”
Ben-Gurion cominciò ad allontanarsi da questo ideale politico-nazionalistico dopo la pubblicazione del documento conclusivo della Commissione Peel, in cui si chiedeva la divisione della Palestina in due stati con scambio tra arabi e ebrei. Per la prima volta nella sua storia, il Sionismo prospettava la realizzazione del diritto all’autodeterminazione degli ebrei in Palestina senza gli arabi. Ma il cambiamento più ampio e profondo non fu causato dalla Commissione Peel. Venne dopo aver appreso dell’Olocausto degli ebrei europei. A partire da questo momento, Ben-Gurion non parla più di uno stato ebraico che accetta la convivenza con gli arabi, ma di uno stato ebraico che riconosce soltanto i diritti collettivi degli ebrei…292
Ben-Gurion e Jabotinsky all’inizio del mandato optarono per uno stato etnico a maggioranza ebraica; in cui però, pur con una forte autonomia, autogoverno e pari diritti civili, i residenti arabi sarebbero stati cittadini di seconda classe, in quanto l’ambiente politico avrebbe rispecchiato il volere della maggioranza ebraica a prescindere dai decentramenti. Questo stato ebraico, inoltre, proprio in quanto stato ebraico, avrebbe permesso l’immigrazione illimitata degli ebrei ma non degli arabi dei paesi vicini. Si trattava di ideali profondamente diversi da quelli di Ahad Ha’am, Buber e gli altri che immaginavano un “focolare nazionale” ebraico in Palestina, una comunità autonoma all’interno di uno stato binazionale.
Se Ben-Gurion e Jabotinsky immaginavano un focolare ebraico senza stato etnico, le idee di Aha Ha’am e Buber dimostrano d’altro canto che la forma assunta dallo stato di Israele nel 1948 non era scolpita sulla pietra fin dall’inizio.
Le soluzioni monostatuali, bistatuali e astatuali
Le soluzioni monostatuali
A partire dagli anni Sessanta, le organizzazioni resistenziali più rappresentative, incentrate su al-Fatah che dominava l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), cominciarono a riconoscere, agli ebrei nati in Palestina dopo l’immigrazione sionista, il diritto di residenza e pari cittadinanza in uno stato unitario democratico e laico. Secondo Khalidi, fino ai primi anni Sessanta molti gruppi radicali palestinesi…
non avvertivano l’esistenza di due popoli, ognuno con diritti nazionali; per loro gli israeliani erano semplicemente coloni immigrati. L’opinione rispecchiava quella di molti israeliani, per i quali l’unico popolo con diritti nazionali in Eretz Yisrael, la Terra di Israele, era il popolo ebraico, mentre gli arabi erano intrusi. Secondo l’opinione allora prevalente in Palestina, Israele era un progetto coloniale-insediativo che l’Occidente aveva aiutato a nascere e sostenuto (cosa in gran parte vera), e gli israeliani facevano parte di un raggruppamento religioso, non erano un popolo o una nazione (cosa smentita dalla nascita di un potente stato nazionale con una forte identità). I palestinesi non accettavano la realtà di una nuova entità nazionale in Palestina anche perché ciò avvenne tragicamente a loro spese.
Gli obiettivi della lotta palestinese trovarono forma teorica nel Patto nazionale (al-mithaq al-watani), adottato dall’OLP nel 1964. Il patto dichiarava la Palestina paese arabo in cui solo i residenti pre-1917 e i loro discendenti detenevano diritti. Erano ammessi gli ebrei già residenti in Palestina, ma non quelli immigrati dopo la Dichiarazione Balfour, ai quali non restava che andarsene. In quest’ottica, la liberazione comportava il rovesciamento di tutto ciò che era avvenuto dopo la dichiarazione, il Mandato britannico, la divisione del paese e la Nakba. Significava riportare indietro l’orologio e riportare la Palestina allo stato di paese arabo. Anche se condiviso da molti palestinesi del tempo, forse la maggior parte, il patto fu adottato da un’istituzione della Lega Araba, non da un’entità eletta dai palestinesi o in loro rappresentanza.293
Questa posizione cambiò dopo il 1964, quando cambiò la politica interna palestinese con l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, e quando nel 1968 al-Fatah successe all’OLP.
…[I]l movimento nazionale formulò un nuovo obiettivo, che vedeva nella Palestina uno stato democratico unico per tutti i suoi abitanti, ebrei e arabi (talvolta facendo riferimento ad uno stato democratico laico). L’intenzione era di andare oltre gli obiettivi del Patto Nazionale, ammettendo che gli ebrei israeliani avevano acquisito il diritto di vivere in Palestina e non potevano essere mandati via. Il cambiamento puntava a rifare l’immagine pubblica dell’OLP e attirare le simpatie degli israeliani, che nel Patto Nazionale del 1964 erano considerati inesistenti. Dichiarando che ebrei e arabi residenti in Palestina avevano gli stessi diritti in quanto cittadini del paese il pensiero del movimento faceva un grosso passo in avanti. Ma la proposta di uno stato democratico unico non riconosceva i diritti di nazione degli israeliani né accettava la legittimità dello stato di Israele e del Sionismo.
Con il tempo, questo nuovo obiettivo finì per essere largamente accettato dai palestinesi e fu incorporato in importanti dichiarazioni politiche dell’OLP. Finì per andare oltre il patto e sostituirlo, ma fu ignorato dagli oppositori dell’OLP, che per decenni continuarono a prendere come riferimento il testo originale del patto.294
Le soluzioni bistatuali
L’idea di una Palestina stato unico multietnico col tempo divenne obsoleta. Ci si convinse che la soluzione rappresentava, tutt’al più, l’obiettivo di un futuro lontano. Come sottolinea Khalidi, sulla strada dello stato unico laico e democratico per arabi e ebrei c’era un ostacolo insormontabile: “la dissoluzione di Israele e la nascita al suo posto del nuovo stato di Palestina.”
Questo significava rovesciare quello che dal 1947 era diventato un dato di fatto riconosciuto internazionalmente: l’esistenza di Israele in quanto stato ebraico come specificato dal documento 181 della GA (Assemblea Generale dell’ONU). Solo un cambiamento rivoluzionario nell’equilibrio delle forze, in Israele e globalmente, potrebbe realizzare questo obiettivo, una cosa che i palestinesi non possono fare o anche solo prendere in esame per conto proprio. E non possono neanche contare sui loro fratelli nei regimi arabi. Stati radicali arabi, come la Siria, l’Iraq e la Libia hanno sempre grandi parole per la causa palestinese, ma sono parole vuote.
In effetti, parole a parte, la loro posizione si riduceva in pratica al riconoscimento di fatto dei confini di Israele prima del 1967.295
Cambiamenti nella situazione regionale spinsero molti leader dell’OLP a prendere in esame un’ulteriore modifica dei loro obiettivi. Un gran numero di fattori vi contribuirono: l’incapacità dell’OLP di sostenere efficacemente la guerriglia contro Israele dopo la perdita delle proprie basi in Giordania; il fatto che gli stati arabi vedessero sempre più il conflitto con Israele come un confronto tra stati sulle frontiere più che una lotta per l’esistenza; e poi le pressioni sia arabe che internazionali sull’OLP affinché limitasse i propri obiettivi…
Dall’inizio degli anni Settanta, membri dell’OLP, rispondendo a pressioni soprattutto dell’Unione Sovietica, lanciarono la proposta di uno stato palestinese a fianco ad Israele, in pratica una soluzione a due stati.296
Nella pratica, l’obiettivo si dimostrò difficile in sé. L’approccio più vicino alla soluzione bistatuale raggiunto dal governo israeliano e i rappresentanti palestinesi, gli accordi di Oslo, era tutt’al più modestissimo, e finì per subire il sabotaggio di sentimenti nazionalistici israeliani. Gli accordi, come nota Mamdani, furono una concessione di parte israeliana motivata dall’Intifada e dal bisogno percepito di una soluzione intermedia, qualcosa di simile ai bantustan sudafricani, che avrebbe reso più governabile la maggioranza palestinese.
La prima Intifada insegnò a Rabin e il suo seguito che non si potevano gestire i Territori Occupati senza un intermediario arrendevole. Ad Oslo questo intermediario si dimostrò essere Arafat.297
All’atto pratico, come spiega Khalidi, la soluzione evidenziò il parallelo con i bantustan sudafricani.
Avevano firmato un accordo che dava loro un limitatissimo autogoverno in una piccola frazione dei Territori Occupati, senza alcun potere sulla terra, l’acqua, i confini e molto altro. In questo accordo e nei seguenti basati sul primo, in vigore ancora oggi con piccole modifiche, Israele, oltre a gran parte degli attributi della sovranità, teneva per sé tutte queste prerogative, in pratica il controllo pressoché totale del territorio e della popolazione… Alla fine fu accettata una versione leggermente modificata del piano autonomistico di Begin a cui si attennero i governi di Shamir e di Rabin.298
Dal punto di vista israeliano, Arafat si rivelò l’uomo migliore con cui fare accordi. Cito ancora da Mamdani:
Primo, accettò tacitamente gli insediamenti in Cisgiordania. Secondo, accettò esplicitamente l’assedio israeliano sull’economia e la sovranità dei territori occupati, addirittura anche in un futuro stato palestinese. Sostanzialmente, Arafat concordò che non avrebbe interferito con tutta una serie di controlli israeliani post-’67 su Gaza e la Cisgiordania che imponevano restrizioni su tutto, dalla pesca ai pozzi per l’acqua. Ad Israele fu inoltre concesso il mantenimento del potere sulle risorse minerarie nel Mar Morto, pur essendo questo in territorio di un futuro stato palestinese. Israele avrebbe poi continuato a mantenere la sicurezza dei propri insediamenti che controllano le principali fonti d’acqua della Cisgiordania. Questo significava l’impossibilità di espandere sia l’agricoltura palestinese che le attività manifatturiere che dipendono dall’acqua. Grazie alla “cooperazione per la sicurezza” (garantire la sicurezza non solo dello stato di Israele ma anche degli insediamenti in Cisgiordania) Israele manteneva il controllo di tutti i confini tra i Territori Occupati (il futuro stato) e il mondo circostante. Il che significava non solo controllare per questioni di sicurezza i confini di uno stato virtualmente indipendente, ma anche sorvegliare i flussi commerciali in ingresso e in uscita dai territori. E a conclusione di tutto ciò, ad Israele veniva garantito il diritto di istituire una unione doganale con il diritto di imporre dazi su tutte le merci che i Territori Occupati e il futuro stato avrebbero importato da paesi terzi, dazi che sarebbero stati a carico del committente palestinese.
Secondo gli accordi di Oslo, questo committente doveva essere un’entità conosciuta come Autorità Nazionale Palestinese (ANP). In realtà l’ANP (detta anche Autorità Palestinese) era l’amministratore sul luogo dei Territori Occupati e della Palestina “indipendente” per conto dello stato di Israele. È incredibile la somiglianza con il sistema amministrativo nativo dei Bantustan in Sudafrica. Arafat fu eletto primo presidente dell’ANP nel 1996299
Il secondo Accordo di Oslo, del 1995, detto Oslo 2 o Accordo ad interim sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza, confermò la limitata autonomia palestinese. L’accordo…
tagliuzzava le due regioni in un infame mosaico di zone, A, B e C, con la zona C, il 60% del totale, sotto il controllo diretto, illimitato e totale di Israele. All’Autorità Palestinese spettava la sicurezza e l’amministrazione del 18% del totale, la zona A, e il solo controllo amministrativo del restante 22%, la zona B, la cui sicurezza rimaneva in mani israeliane. Le zone A e B rappresentavano il 40% del territorio ma ci viveva l’87% della popolazione palestinese. La zona C comprendeva tutti gli insediamenti ebraici tranne uno. Israele aveva inoltre pieno potere di entrare e uscire in tutti i luoghi della Palestina e il controllo esclusivo dei registri anagrafici, il che significa decidere chi poteva risiedere e chi no. La costruzione di nuovi insediamenti continuò a passo spedito, Gerusalemme fu ulteriormente tagliata fuori dalla Cisgiordania e ai palestinesi dei Territori Occupati fu progressivamente vietato l’ingresso in Israele. Finalmente, decine di checkpoint militari e centinaia di chilometri di muri e recinzioni elettrificate tagliuzzarono la Cisgiordania in una serie di isole sfregiandone il territorio.300
In più, continua Mamdani, “l’OLP rinunciò al diritto di rientro dei rifugiati del 1948”. Arafat non tentò neanche di farsi rappresentante dei cittadini palestinesi residenti in Israele, compresi gli “sfollati interni” (i ‘presenti assenti’). Accettò il ruolo di amministratore dei palestinesi nei Territori Occupati senza però tener conto dei loro interessi generali.
Il fatto di aver accettato questi termini, distingue l’OLP dall’African National Congress, che invece rifiutò le offerte di amministrare un governo di tipo Bandustan in Sudafrica. Ad Oslo, Arafat e i suoi collaboratori rinunciarono ad ogni diritto politico e morale di rappresentare i palestinesi. L’OLP, pur autocompiacendosi per il passo avanti nella soluzione a due stati, diventò tutt’al più il rappresentante di una parte degli abitanti dei Territori Occupati. Ben presto però rinunciò anche a questo accettando l’offerta israeliana di una posizione clientelare.301
Dopo un “periodo transitorio” durato molto più di quanto stabilito, Ehud Barak, a capo di un governo laburista tornato al potere, modificò ulteriormente gli accordi di Oslo durante un vertice a Camp David nel 2000. La sua proposta segreta, mai resa pubblica e ricavata solo da indiscrezioni, “prevedeva il controllo permanente della Valle del Giordano e dello spazio aereo della Palestina…, la continuazione del controllo delle risorse acquifere della Cisgiordania e l’annessione di aree che avrebbero diviso la Cisgiordania in blocchi isolati.”302 This proposal was never formally adopted, and became a dead letter after the Second Intifada.303
Il disincanto per la soluzione bistatuale, la rinascita della soluzione monostatuale binazionale e le soluzioni confederali o bistatuali
Con il disincanto della soluzione a due stati, ripartono le richieste di una soluzione comprensiva che comprenda tutta la Palestina. Bashir le chiama “soluzioni integrative”, ovvero “ideali politici e arrangiamenti istituzionali che vedono Israele/Palestina, ovvero il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, come un unico sito storico e politico.”
Date considerazioni pratiche di diverse realtà intrecciate tra loro, date considerazioni normative e etiche relative a diritti e valori democratici, le soluzioni integrative si basano sull’integrazione e l’inclusione piuttosto che sulla partizione territoriale e la segregazione…
Bashir identifica “tre dei tratti principali delle soluzioni integrative: sovranità liberale, binazionale e condivisa…”
Il tratto liberale enfatizza i diritti individuali e promuove uno stato inclusivo e egalitario che rappresenta tutti i cittadini a prescindere dalle loro preferenze nazionali, religiose o etniche. Il tratto binazionale riconosce la realtà di una diversità nazionale e etnico-religiosa e richiede un progetto democratico basato sulla condivisione del potere, gli arrangiamenti federativi o una qualche loro combinazione, al cui interno i vari gruppi hanno diritti comunitari e nazionali. Chi è per una sovranità condivisa pensa che nel caso di due gruppi con diritti all’autodeterminazione in conflitto, soprattutto quando le identità nazionali sono intrecciate, forti e esclusive, la soluzione passi per un arrangiamento basato su un potere condiviso e giurisdizioni territoriali parzialmente sovrapposte.304
Il “tratto liberale” di cui parla Bashir è sostanzialmente l’ideale originario dello stato unico, laico e multietnico, un obiettivo che può essere raggiunto non sciogliendo lo stato di Israele ma “desionizzandolo”, trasformandolo in uno stato di tutti i cittadini con pari diritti per tutti, e allargandolo fino a comprendere tutta la Palestina.
A proposito della desionizzazione, Dahlia Scheindlin e Dov Waxman parlano di un Israele ridefinito stato di tutti i suoi cittadini:
Dopo essere stati liquidati per anni come disperati sognatori o estremisti pericolosi, dopo essere stati confinati ai margini del dibattito politico sul conflitto israelo-palestinese, i sostenitori dello stato unico (perlopiù intellettuali palestinesi e israeliani o occidentali di sinistra) colgono ora l’occasione per proporre la loro causa e insistono nel dire che i diritti umani e civili dei palestinesi possono essere realizzati solo quando questi diventano cittadini alla pari con gli israeliani. Questo significa pieno diritto di voto e uguaglianza in altre forme in tutte le terre attualmente controllate da Israele.305
Anche Mamdani è a favore dello stato unico di ebrei e arabi, da realizzare tramite la desionizzazione, un processo che “separi lo stato dalla nazione”, per sostituirlo con un Israele “stato di tutti i suoi cittadini”.306
L’alternativa è una dissociazione radicale tra nazione e stato, cultura e politica. In questo caso lo stato non è più proprietà di una nazione: la nazione non è sovrana. Le nazioni non hanno sovranità; lo stato non è più binazionale o plurinazionale di quanto non sia fedele ad una sola maggioranza nazionale. Lo stato non è la casa di una nazione. La casa è la società in cui più nazioni con più storie possono convivere.307
La desionizzazione dello stato di Israele significherebbe conferma e protezione dei diritti di tutti i cittadini, sostituirebbe le istituzioni nazionali che privilegiano gli ebrei con strutture statuali che considerano tutti i cittadini alla pari. Cosa importante, tutti i rifugiati avrebbero diritto al rientro. Anche qui, è fondamentale un atto di giustizia sociale: il risarcimento di chi è stato privato della terra da quando è nato lo stato.308
Il “tratto binazionale” di Bashir è uno stato unico ma con diritti tanto nazionali quanto individuali. Se i cittadini di tutte le etnie hanno pari diritti legali, le nazionalità hanno particolari diritti sociali; sono “semistati”, per dirla con Shumsky. Il sionista liberale Peter Beinart approvava la differenziazione tra stato e focolare ebraico in uno stato binazionale:
Al cuore del Sionismo non c’è uno stato ebraico in terra di Israele, ma un focolare per gli ebrei in terra di Israele, una società ebraica viva che offra agli ebrei un rifugio e arricchisca tutto il mondo ebraico. Occorre cercare altre vie per arrivare a questo obiettivo, dalla confederazione allo stato democratico binazionale, vie che non passino dal dominio su altri popoli. Dobbiamo pensare ad una casa ebraica che sia anche la casa palestinese.309
Come stato binazionale, una democrazia Israele-Palestina dovrebbe tutelare non solo i diritti dell’individuo ma anche quelli della nazione. Belgio e Irlanda del Nord sono un buon esempio. Il Belgio delega molti poteri alle sue tre comunità: una fiamminga di lingua olandese, una prevalentemente vallona di lingua francese e una linguisticamente mista; oltre a queste comunità ci sono le relative istituzioni che rappresentano parlanti di lingua olandese o francese ovunque risiedano. Il 75% dei rappresentanti fiamminghi o valloni in parlamento ha il potere di bloccare una legge votando contro. In Irlanda del Nord, i due capi di governo vengono scelti, rispettivamente, dai principali partiti cattolico e protestante. Decisioni importanti richiedono un consistente appoggio in parlamento da parte di entrambe le comunità. Questi governi di tipo cooperativo, o “consociativo” non sempre sono la scelta migliore. Ci sono voluti 589 giorni di trattative tra il 2010 e il 2011 per formare un governo. I risultati però sono evidenti: le società divise basate sulla condivisione del potere funzionano molto meglio.310
Lama Abu-Odeh, palestino-americano, docente di diritto, con un articolo del 2001 propose uno stato federale binazionale in cui il semistato etnico e le entità amministrative avevano un significativo potere di mediazione:
Una soluzione possibile sarebbe uno stato federale in cui si possano esprimere le differenze culturali e darne seguito, in cui le diverse comunità avrebbero autonomia amministrativa in certi ambiti, mentre le risorse verrebbero ridistribuite così da promuovere l’uguaglianza tra tutti i cittadini e dare una risposta alle richieste dei palestinesi che sono stati ingiustamente esiliati e espropriati.311
Similmente, Tony Judt propose “uno stato federale o due comunità autonome, secondo il modello svizzero o belga…”312
Ovviamente, tra questi modelli e la soluzione convenzionale bistatuale il confine è vago. Come sottolinea Peter Beinart, gli studiosi hanno esplorato le numerose possibilità che esistono nella terra di mezzo tra queste due semplicistiche soluzioni a stato unico e a due stati.
Ci sono studiosi che studiano il modo di adattare questi modelli [consociativi belga o dell’Irlanda del Nord appena visti] alla realtà israelo-palestinese affrontando questioni brucianti relative ai diritti nazionali, l’immigrazione e il potere militare. Alcuni comportano il federalismo: un potere centrale che, come in Belgio o Canada, deleghi ad istituzioni locali il potere con cui ebrei e palestinesi possono gestire la propria vita. Altri modelli comportano la confederazione: uno stato ebraico e uno palestinese che delegano il potere ad un’istituzione sovranazionale sull’esempio dell’Unione Europea. A Land for All, gruppo a favore della soluzione confederale, ha proposto che a tutti i rifugiati palestinesi sia concesso di tornare in Israele restando però cittadini della Palestina, mentre i coloni ebrei potrebbero stare in Palestina e mantenere la cittadinanza israeliana.313
Particolarmente interessanti sono tutte le soluzioni bistatuali o confederali “soft”, più o meno come la “sovranità condivisa” di Bashir, che partono dalla convivenza di due stati, palestinese e ebreo, per poi puntare ad una progressiva unificazione. Come categoria, la soluzione bistatuale “soft” comprende tecnicamente tutte le caratteristiche delle soluzioni bistatuali (cioè due stati sovrani, israeliano e palestinese, che condividono tutta la Palestina), ma con aggiunge qualificanti. Tra queste, una unione doganale, o diverse zone franche, confini relativamente permeabili con libertà di muoversi, uguaglianza civile in entrambi gli stati, diritto di rientro sia per gli ebrei che per gli arabi, regole per quelle grosse comunità di cittadini di uno stato che risiedono nell’altro ma votano nel proprio stato, e infine smilitarizzazione. Il tutto, assieme ad altre misure volte a infondere fiducia reciproca, servirebbe a creare il clima adatto alla confederazione e magari, alla fine, all’unificazione in un unico stato multietnico.
Dato, ad esempio, l’evidente fallimento della soluzione bistatuale e lo scetticismo attorno alla fattibilità politica della soluzione monostatuale, secondo Scheindlin e Waxman si potrebbero avere i benefici della soluzione a stato unico nel quadro di quella che tecnicamente è una soluzione a due stati tramite il confederalismo (“basato sul concetto di due stati sovrani distinti che si accordano politicamente su una qualche forma di cooperazione permanente”).
Quanto a caratteristiche di queste entità, i progetti partono da due stati democratici indipendenti piuttosto che da un’entità palestinese governata militarmente da Israele com’è oggi. Rimarrebbe una decisa separazione, una chiara divisione geografica lungo i confini del 1967, ma anche un confine aperto che assicurerebbe a tutti maggiore possibilità di muoversi e accedere ovunque (per i palestinesi l’effetto più drammatico del conflitto è forse la limitazione della libertà di movimento col suo impatto sulla vita quotidiana).
Il concetto di confini aperti è la differenza principale tra questa proposta e la classica soluzione bistatuale. Nel modello bistatuale, con i suoi confini chiusi, Israele finirebbe per annettersi parte della Cisgiordania dove sono gli insediamenti ebraici, compresi i territori non contigui. La paura dei palestinesi è di finire in un territorio ‘come un gruviera’, con isole palestinesi sconnesse e senza libertà di movimento. Un’immagine che contribuisce a screditare la soluzionebistatuale.
Una soluzione bistatuale con confini chiusi, invece, darebbe ai palestinesi sovranità e pieno controllo su aree come Hebron. L’idea che luoghi sacri ebraici come la Tomba dei Patriarchi possa finire sotto il dominio palestinese, diventando inaccessibile agli israeliani credenti, scatena la loro forte opposizione. Negare agli ebrei l’accesso ai loro luoghi sacri sicuramente causerebbe forti risentimenti religiosi, e molto probabilmente causerebbe violenti attacchi da parte di minoranze estremistiche. Un approccio confederale, con libertà d’accesso e di movimento, darebbe a palestinesi e israeliani la libertà di visitare i rispettivi luoghi sacri.
E darebbe loro anche la possibilità di vivere nel proprio stato. Ogni stato si darebbe le sue leggi interne, comprese quelle sul rientro, mentre i cittadini dell’altro stato avrebbero diritto di residenza (come nell’Unione Europea)…
Con la distinzione tra residenti e cittadini si aprirebbero nuove soluzioni al problema dei rifugiati palestinesi che ha tormentato i precedenti tentativi di risolvere il conflitto. Nella classica soluzione bistatuale, la stragrande maggioranza dei rifugiati palestinesi non potrebbe tornare nelle zone da cui loro, o i loro antenati, sono stati espulsi nel 1948 e 1967… Gli ebrei israeliani sono fortemente contrari al diritto di rientro in Israele dei rifugiati perché minaccerebbe la maggioranza ebrea; altrettanto risolutamente i palestinesi insistono fino a farne il punto centrale della loro lotta nazionale.
L’assenza di flessibilità di entrambi è stata finora una delle ragioni principali del fallimento dei negoziati. Con la soluzione confederale, i rifugiati potrebbero tornare a vivere a Israele come residenti ma non come cittadini. Non sarebbero una minaccia demografica per la maggioranza ebrea. Questo allevierebbe il problema del diritto di rientro come la tradizionale soluzione monostatuale non è mai riuscita a fare.
Separare cittadinanza e residenza potrebbe anche aiutare a risolvere un altro grosso problema: il futuro dei coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, attualmente arrivati ad oltre mezzo milione… In tanti anni di negoziati sulla soluzione bistatuale, l’idea di evacuare gli insediamenti ha scatenato ostilità, violenze e addirittura di una guerra civile, per non dire della possibile insubordinazione dell’esercito israeliano in cui militano molti nazionalisti religiosi e coloni…
Nel modello confederale, per contro, gli insediamenti non annessi ad Israele non verrebbero evacuati. I coloni potrebbero rimanervi come cittadini israeliani ma sotto leggi palestinesi (rispettando ovviamente le leggi dello stato palestinese). In questo modo, i palestinesi non dovrebbero rinunciare a grosse porzioni di territorio grazie alla sovranità sugli insediamenti, compresi quelli più grandi.314
La risoluzione ONU 181 è forse la prima soluzione bistatuale proposta. Il programma oltre alla divisione prevedeva anche una “unione economica” tra gli stati arabo e ebraico. Le elezioni in entrambi gli stati dovevano avvenire a suffragio universale di tutti i residenti, ebrei e arabi. Ma gli arabi avevano un diritto limitato di risiedere in zone riservate agli ebrei e viceversa, pena l’invalida del mandato, mentre ai cittadini di ciascuno stato veniva garantita la “libertà di recarsi, anche temporaneamente” nell’altro stato. Ogni stato inoltre garantirebbe “pari diritti non discriminatori in ambito civile, politico, economico e religioso, nonché diritti umani e libertà fondamentali, compresa la libertà religiosa, di lingua, di espressione e stampa, d’istruzione, di assemblea e di associazione”, a prescindere dall’etnia. In breve, i due stati sarebbero “ebreo” e “arabo” solo in termini di maggioranza della popolazione, avendo per il resto garantito pari diritti civili e politici interni, libertà di movimento tra i due stati e una unione economica.315
Un esempio recente è la soluzione proposta da A Land for All,316 un movimento israelo-palestinese nato nel 2012 con il nome Two States, One Homeland317 (Due stati, un’unica patria, NdT). Il pamphlet disponibile sul sito si apre con un richiamo all’inseparabilità dei due popoli del territorio: arabo e ebreo.
In questa terra c’è un bisogno profondo, emotivo di collaborazione. Quando i palestinesi dicono Palestina, si riferiscono a tutta l’area dal Giordano al Mediterraneo. Ma anche gli israeliani quando dicono Eretz Yisrael si riferiscono allo stesso spazio. La terra è la stessa, pur con nomi diversi. Nessun confine internazionale può cambiare questo nesso, questa identità. Nessun confine internazionale può spezzare il legame dei palestinesi con Giaffa, Haifa o Lod, non più di quanto si possa spezzare il legame degli ebrei con Hebron, Nablus o Betlemme. Noi viviamo in un piccolo spazio geografico. Se si inquina un fiume in Cisgiordania, le falde della zona costiera ne sono colpite. Se l’aria è inquinata lungo la costa, ne risente anche la Cisgiordania. In questo angolino condiviso da due popoli, gli interessi di ognuno richiedono un forte grado di cooperazione.
Più di cento anni di conflitto ci hanno insegnato che nessuna nazione può essere padrona unica di questa terra.318
Il cofondatore, il giornalista israeliano Meron Rapoport (l’altro è l’attivista palestinese di al-Fatah Awni Al-Mahshni), scrive:
A Land for All riconosce in partenza che tra il Giordano e il Mediterraneo vivono due popoli, e che entrambi considerano quello spazio la loro patria. Agli ebrei e ai palestinesi che vivono in questa terra spettano gli stessi diritti civili e nazionali, e pertanto la nostra proposta è che ci siano due stati indipendenti, Israele e Palestina, nei confini del 1967 (significa presumibilmente che i confini rappresentano la linea divisoria), popoli con la stessa libertà di muoversi e risiedere, così che ognuno possa stare in contatto con tutta la terra…
In questo quadro, devono nascere istituzioni uniche per entrambi, e Gerusalemme dev’essere una città aperta, la capitale di entrambi gli stati. Con un regime particolare, equo.319
Altre due attiviste del sito, May Pundak e Rana Salman, definiscono il programma una risposta agli ostacoli pratici incontrati dai precedenti tentativi di negoziare una soluzione a due stati.
“Che lo vogliamo o no, viviamo assieme,” dice Ms. Salman. “Lavoriamo assieme. Abbiamo centri abitati misti. Restiamo però fermi alle proposte monostatuali o bistatuali. Dev’esserci una terza soluzione.” …
Secondo la proposta bistatuale, israeliani e palestinesi vivrebbero in stati sovrani separati dal confine del 1967, prima che Israele occupasse la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. I precedenti tentativi di accordo sono caduti per dispute sulla terra da riservare ai palestinesi, un problema incancrenito, tra l’altro, dal fatto che gli insediamenti ebrei si sono moltiplicati in Cisgiordania.
Ciò che è cambiato dagli Accordi di Oslo, dicono entrambe, è la fattibilità di un accordo basato sul principio di separazione tra israeliani e palestinesi. Con quasi mezzo milione di palestinesi che vivono come cittadini in Israele e oltre mezzo milione di coloni insediati in Cisgiordania, i due popoli sono irrimediabilmente intrecciati, ognuno si aggrappa all’idea di una patria su una terra reclamata da entrambi.
La risposta, dice Ms. Pundak, non è né lo stato unico né una semplice divisione. La soluzione sta in due stati confederati in una terra condivisa…
Per far sì che questa confederazione funzioni, entrambe le parti devono accettare certe condizioni, come la libertà di movimento di israeliani e palestinesi, la soluzione del problema dei rifugiati e come le istituzioni comuni devono affrontare questioni come i diritti umani, le risorse naturali e la cooperazione economica. I palestinesi che vivono in Israele voterebbero per elezioni palestinesi, mentre gli israeliani che vivranno in un futuro stato di Palestina voterebbero in Israele.
Gerusalemme sarebbe la capitale comune, dice, i luoghi sacri gestiti da un’autorità internazionale con una rappresentanza religiosa.320
Morris Haegi sul Times of Israel commenta: “Al contrario della classica soluzione bistatuale, A Land for All insiste su una separazione solo politica, non geografica, non demografica.”321
Puntando alla collaborazione invece della separazione, la proposta confederativa di A Land for All cerca di superare i principali problemi che in passato hanno paralizzato il processo di pace: il Diritto di Rientro dei rifugiati palestinesi, gli insediamenti in Cisgiordania, Gerusalemme, la sicurezza, i cittadini palestinesi in Israele e Gaza…
La proposta Due stati, una patria cerca di risolvere la “irrisolvibile” questione rifiutando la segregazione demografica e geografica tra israeliani e palestinesi; il che significa che i coloni ebrei potrebbero restare nello stato palestinese nello spirito dei Confini Aperti. Manterrebbero la cittadinanza israeliana e i diritti politici in Israele. Questo approccio rallenterebbe la corsa agli insediamenti perché l’allargamento di un qualunque insediamento non terrebbe conto della posizione dei confini permanenti tra Israele e Palestina. Uno stato sovrano palestinese, inoltre, potrebbe offrire la cittadinanza ai rifugiati della diaspora palestinese, che così diverrebbero cittadini della confederazione e avrebbero il diritto di vivere, lavorare e viaggiare ovunque tra Israele e la Palestina. Ulteriori misure potrebbero garantire ai rifugiati la restituzione dei beni espropriati, o un risarcimento degli stessi, senza creare ulteriori ingiustizie. La confederazione non solo aiuterebbe a risolvere il problema degli insediamenti e il diritto di rientro ma riconoscerebbe il legame esistente tra i palestinesi e Giaffa, Haifa e Lod, così come quello tra gli ebrei e Hebron, Nablus e Betlemme.322
Secondo la proposta, “l’attuazione di questa ideale Terra Aperta dovrebbe essere graduale così da evitare affollamenti e rivalità.” “Non è una soluzione pronta ma un obiettivo di lungo termine a cui aspirare”, e richiede una serie di misure volte ad alimentare la fiducia; ovvero, “dev’esserci una trasformazione del conflitto, sostenuta e allargata, che modifichi la visione egemone al punto che una vera compartecipazione, e quindi una soluzione a due stati in un territorio condiviso, diventa una possibilità fattibile.”323
Come primo passo, Israele e lo stato palestinese dovrebbero accordarsi su quanti rifugiati palestinesi potrebbero tornare in Israele e quanti coloni israeliani potrebbero acquisire la residenza in Palestina. L’obiettivo finale è che palestinesi e israeliani abbiano libertà di lavorare e viaggiare ovunque nel territorio. I passaporti emessi dai due paesi avrebbero valore nazionale (diritti politici) e transnazionale, o confederale (mobilità, lavoro, residenza), sul modello dell’Unione Europea.324
Secondo Ariel Ron, il programma prevede che “i rifugiati palestinesi possano tornare, se non alle loro terre originarie, almeno in località vicine…”
E poi ci sarebbe un giusto processo di restituzione per quei palestinesi che non possono reclamare la loro casa e per quegli ebrei espulsi dai paesi musulmani e costretti a lasciare le loro cose.325
Il ventotto di maggio del 2021, il movimento ha ricevuto il Premio Lussemburgo per la Pace per il suo forte aiuto alla pace.326
Haegi parla di un forte sostegno minoritario, sia in Israele che in Palestina, alla soluzione confederativa a due stati.
Secondo un sondaggio del 2018 condotto dall’università di Tel Aviv e dal Centro Palestinese di Studi Politici, un terzo circa di ebrei israeliani (30%) e palestinesi (31%) approvava l’ipotesi bistatuale confederale in cui 1) i cittadini di uno stato possano risiedere permanentemente nell’altro; 2) israeliani e palestinesi collaborino alla sicurezza e l’economia; e 3) Gerusalemme resti la capitale indivisa di entrambi gli stati.327
Un progetto simile, Due Stati, Un Solo Spazio, fu presentato a novembre del 2014 a Gerusalemme Est davanti ad un pubblico di israeliani, palestinesi e persone di altre nazionalità.328 Il manifesto constatava come nel 2014 la soluzione bistatuale fosse “pressoché superata”, non solo per “fatti contingenti”, come l’allargamento continuo degli insediamenti israeliani, ma soprattutto perché “il territorio tra il Giordano e il Mediterraneo forma una unità geografica che palestinesi e israeliani considerano patria, un territorio in cui la presenza araba e quella israeliana sono intrecciate.”329 Una soluzione bistatuale con frontiere chiuse non è fattibile a causa del mezzo milione di arabi palestinesi che vivono come cittadini in Israele e delle centinaia di migliaia di coloni ebrei in Cisgiordania; molti dei luoghi sacri della Palestina storica sono in Cisgiordania, mentre gran parte dei rifugiati palestinesi viene da città che oggi sono israeliane.330 La loro proposta, finché dura, è quella dei due stati ma, a differenza delle proposte precedenti, senza separazione.331 I due stati sarebbero uniti, oltre che da una frontiera aperta con libertà di movimento, anche da una confederazione e da una unione economica sul modello dell’Unione Europea.332
La soluzione astatuale
Se gli approcci più promettenti, tra stato unico e confederazione, mirano a separare stato territoriale e nazionalità, la soluzione astatuale va oltre: divorziare le funzioni amministrative di base, territoriali e altro, dallo stato.
Una soluzione anarchica, o “astatuale”, del conflitto, così come le soluzioni binazionale e confederativa, sarebbe un ritorno a certe proposte precedenti. È un fatto che molti di quelli che sostenevano un Sionismo culturale o religioso erano anarchici o quasi anarchici. Come spiega Jason Adams:
Prima che nascesse lo stato di Israele, nel primo quarto del Novecento, sorse un movimento anarchico di palestinesi e ebrei contro la nascita di uno stato ebraico e a favore di una società astatuale, a democrazia diretta e pluralista, che comprendesse ebrei e arabi. Le sezioni anarchiche del movimento “comunitario”, ispirate alla collaborazione di ebrei anarchici di spicco come Gustav Landauer e Rudolph Rocker, erano alla base del movimento dei kibbutz in Palestina: secondo Noam Chomsky, questo significava in origine la parola “sionista”. I primi sionisti erano contrari alla nascita dello stato perché “avrebbe significato la divisione del territorio e la messa ai margini, su base religiosa, di una grossa fetta dei poveri e degli oppressi, che altrimenti avrebbero potuto unirsi sulla base di principi socialisti.” Joseph Trumpeldor, uno tra i più importanti comunitari anarchici del tempo, convertì membri dei primi kvutzot al pensiero anarchico comunista di Pëtr Kropotkin. Il mutuo appoggio di Pëtr Kropotkin diventò nel 1923 il primo libro tradotto in ebraico e distribuito in tutta la Palestina. Il preliminare anarchico, ad opera di anarchici come Trumpeldor, influenzò profondamente il pensiero di Yitzhak Tabenkin, figura di spicco dell’importante movimento Kibbutz Hameuhad. Il giornale anarchico comunitario Problemen fu l’unico periodico anarchico internazionale pubblicato in yiddish e ebraico, una delle pochissime voci ad invocare la convivenza comunitaria pacifica di ebrei e arabi come prima della nascita dello stato di Israele. Il movimento cominciò ad estinguersi dopo il 1925, con la nascita del movimento filo-statualista e il consolidamento del partito.333
In qualche modo, l’idea in sé dello stato porta, anche se inconsciamente, la discussione verso soluzioni del tipo stato con il trattino secondo un assunto etnico nazionalista. Da oltre due secoli, il moderno stato nazione è considerato, in grande misura, uno stato etnico. Pertanto la norma secondo cui lo stato deve essere lo stato del popolo X influisce, come spiega Shuli Branson, anche sulle idee più progressiste riguardo il futuro della Palestina. Gli stessi assunti impliciti che permettono l’accettazione di Israele come stato legittimo, necessario, inevitabile”, ovvero che “fanno equivalere razza, popolo con stato”, “di riflesso portano a pensare che lo stato sia l’inevitabile aspirazione anche dei palestinesi, che si tratti di uno stato ‘democratico’ laico condiviso con ‘pari diritti’ con gli ebrei, o di un secondo stato etnico accanto ad Israele.” Le stesse “logiche si ripetono inconsciamente anche tra gli anarchici e la sinistra antitirannica. I tentativi di risolvere il conflitto israelo-palestinese cozzano contro l’ostacolo rappresentato da “idee radicate di identità viste attraverso il filtro della nazione, l’etnia e la razza.” Quando queste idee vengono connesse allo stato, l’implicazione tacita è che “la patria dev’essere esclusiva” in un modo che riflette la proprietà capitalista. Queste idee, quando vengono adottate da movimenti anticoloniali e anti-insediative, diventando un pericolo né più né meno di quando vengono adottate da stati coloniali e imperialisti.
Ogni popolo ha una sua terra…
…La nazione in quanto forma in cui si organizza la sovranità si basa sulla raffigurazione del popolo reso unito dalla cittadinanza, una mutazione dell’appartenenza alla terra che in realtà trasforma questa relazione basata sul fatto di vivere in un territorio in una relazione di proprietà…
…Fatto importante, l’idea di una cultura nazionale era anche la forma dominante dei movimenti decoloniali del dopoguerra, un’articolazione della liberazione attraverso la grammatica della forma egemonica dell’autodeterminazione (nazionale). Forse una delle ragioni per cui la decolonizzazione ha fallito è perché si esprimeva tramite identità nazionali razzializzate, cosa che ha portato le classi al potere a sterminare gruppi considerati una minaccia per la propria sopravvivenza…
In sostanza, il problema dello stato nazione è che come il capitalismo si riduce ad una scarsità imposta. Come il capitalismo dosa l’abbondanza di risorse, così che solo alcuni in alto hanno tutto mentre gli altri si devono accontentare delle briciole, così l’identità nazionale immagina che ogni gruppo debba diventare nazione legata ad un dato territorio, anche se il territorio non basta. Pertanto la terra intesa come risorsa diventa il centro del conflitto.334
Mohammed Bamyeh, riprendendo ciò che altri hanno detto, vede come ideale “l’affrancamento della persona dalla necessità di appartenere ad una identità nazionale che, tra oppressione e lotta, è diventata il nostro tratto distintivo.”
Una ragione c’è, ovviamente, perché viviamo in una condizione conflittuale in cui la garanzia dei diritti dipende dalla nazionalità. Questo non fa che rafforzare la necessità di legarsi alla propria nazionalità, e rafforza l’idea che i diritti dipendano esclusivamente dalla nazionalità.
Una soluzione ideale sarebbe far sì che le persone non siano più costrette ad aderire all’idea nazionalista.
Shuli richiama ciò che hanno detto molti altri intellettuali, citati a proposito dei modelli organizzativi del passato, che sostenevano la necessità di un’armonizzazione interetnica minimizzando il nazionalismo etnico:
Storicamente in Medio Oriente l’ultimo periodo tranquillo è stato quando o c’erano poche frontiere o non c’erano affatto, quando le popolazioni potevano spostarsi liberamente, quando le comunità ebraiche erano integrate nella regione, non [solo] in Palestina ma [anche] in Iraq, Egitto, Yemen, Nord Africa e altrove. C’erano comunità ebraiche che da secoli vivevano relativamente bene in territorio arabo.
Questa realtà storica è gradualmente scomparsa quando il potere coloniale ha creato, direttamente o indirettamente, gli stati della regione. Tutti questi stati alla lunga si sono dimostrati un fallimento, perché possono sopravvivere solo in lotta tra loro, contendendosi il potere egemonico semplicemente perché questa è la logica dello stato così come la intendono i suoi governanti. È la logica degli stati che, sapendo di non avere legittimità, ne creano una inventando un nemico, il che a sua volta permette di mobilitare la popolazione contro un nemico esterno sotto la bandiera dell’identità comune.
Emanciparsi significa liberarsi della camicia di forza dello stato moderno e della moderna violenza trapiantata nella regione tramite i processi coloniali. È quantomai urgente eliminare l’eredità coloniale non solo in Palestina, ma anche tutto attorno.335
La discussione si sposta sui possibili esempi da seguire per una futura Palestina astatuale, e l’intervistatore Jason Guille cita l’esempio di Rojava: “una federazione multietnica a più parti formata da distretti che esercitano la propria autonomia localmente in modo che questa si diffonda spontaneamente.” Bamyeh la riporta ad un contesto di movimenti orizzontali che si muovono ciclicamente. Rojava, dice…
non viene dal nulla. Alle sue spalle ci sono tradizioni sociali e capacità organizzativa. Elementi [di] Rojava li troviamo dappertutto nella regione. Basta guardare ai movimenti della Primavera Araba, tra il 2011 e il 2019, per trovare dappertutto quello che io ho definito una ribellione di tipo anarchico che sembra radicata nella tradizione sociale della famiglia. Non si trattava di movimenti con un’organizzazione centrale, non hanno dato vita ad un partito politico con un programma da seguire. Non sembravano alla ricerca di una leadership; al contrario, poggiavano sulla coordinazione orizzontale, sull’aiuto reciproco, sulla spontaneità intesa come arte del movimento. Molti hanno criticato questi movimenti proprio per queste sue caratteristiche. C’erano commentatori che criticavano il movimento perché non vedevano risultati. Insomma, tutti i movimenti della Primavera Araba fallivano perché erano disorganizzati, anarchici e così via. Secondo me invece il fatto veramente interessante, sociologicamente, è che le persone comuni che si sono rivoltate non erano interessate ad organizzazioni o leadership o quello che volete, ma esprimevano qualcosa di più profondo: il desiderio di non essere governati…
Da un lato abbiamo persone qualunque che nei loro villaggi compiono gesti sociali: gesti spontanei, solidaristici, positivi. Dall’altro, talvolta le stesse persone pensano che sarebbe meglio se il paese fosse governato da un despota illuminato. Due impulsi apparentemente contraddittori nella stessa persona e nella stessa testa. Tra la Primavera Araba e i precedenti movimenti rivoluzionari la differenza è che in passato il carattere era diverso, aveva poco a che fare con l’anarchismo vero e proprio. In tutta la regione è in corso un processo di apprendimento di tipo intuitivo, nel senso che non è organizzato, o perlomeno le persone non lo vedono come tale. Sembra però che le stesse persone mantengano una memoria storica, e dunque anche un concetto, dei precedenti tentativi di liberazione.
Ad esempio, nelle altre rivoluzioni c’erano leader carismatici e in quelle attuali no. Perché? Perché ci abbiamo già provato e il carisma non ha pagato. Così oggi le stesse menti cercano una via diversa all’emancipazione. Quello che accade a Rojava, penso, non accade nel vuoto, e non accade soltanto in un luogo. Rojava mi sembra l’espressione di un sentimento più ampio diffuso in tutta la regione, un sentimento guidato dal desiderio di un sistema post-tirannico che in qualche modo non significhi essere governati. Non è un anarchismo conscio ma un semplice anarchismo a cui sono stati aggiunti modi diversi di pensare che vengono dalle stesse menti.336
Come arrivarci
Alla fine Shuli Branson sembra farsi prendere dal pessimismo, dubita della possibilità di una “vera soluzione politica al problema di Israele in Palestina”; il che, da notare, non significa negare l’esistenza di una soluzione statuale. Che porterebbe a riforme che non riformano, mentre occorrerebbe il decentramento di funzioni dello stato verso organismi sociali, o un approccio graduale: un lento avvicinarsi alla soluzione astatuale piuttosto che un approccio del tipo o tutto o nulla. E questo attira altro pessimismo: “Quando una società si dichiara fuori dallo stato, in qualche modo entra in guerra con tutti gli stati (pensiamo a Rojava, pensiamo al Chiapas).”337
Io credo che non dovremmo affrettarci ad escludere una transizione graduale. C’è tutta una tradizione sansimoniana, dalla “dissoluzione dello stato nel corpo sociale” di Proudhon alla “estinzione dello stato” di Marx e Engels, che contempla il passaggio “dal governo delle persone all’amministrazione delle cose”.
Passare da una società statuale ad una astatuale non significa passare da uno stato al suo contrario. Come tutte le transizioni sistemiche del passato, il sistema con tutti i suoi elementi perde gradualmente il proprio carattere per assumerne un altro. In questo caso, le istituzioni statuali diverrebbero col tempo meno statuali, e/o subirebbero una perdita graduale del potere, si ritirerebbero sempre più dalla vita sociale per essere rimpiazzate da istituzioni autogestite con caratteristiche diverse.
Possiamo immaginare un periodo di transizione in cui lo stato viene “destatualizzato” togliendogli gradualmente quante più funzioni gestionali territoriali è possibile (soprattutto a livello locale) per sostituirle con una poliarchia di cooperative autonome gestite dai diretti interessati, nonché da istituzioni per la gestione dei beni comuni e piattaforme di supporto, i cui interessati formino reti intrecciate e reciprocamente dipendenti. Il fine ultimo sarebbe l’eliminazione di ogni organo dispotico, unitario e con potere di polizia su un determinato territorio. L’obiettivo intermedio è lo spostamento di quanto più potere possibile dalle entità statali a una serie di organismi poliarchici, i quali dovrebbero essere il più possibile astatuali nel loro esercizio.
Esempio utile di quest’ultimo processo di eliminazione della statualità è lo Stato Partner (Partner State), detto anche Stato Abilitante (Enabling State). Si tratta in sostanza di un processo evolutivo per cui organi federativi di un determinato territorio, residui dello stato, perdono il carattere statuale con potere di programmare e imporre leggi e si evolvono in piattaforme di sostegno per una determinata area geografica, con il compito di offrire aiuto, amministrativo più che politico, ad organi cooperativi e comunitari che operano localmente.
Come spiega John Restakis, “lo Stato Partner è soprattutto uno stato abilitante. Serve principalmente a ottimizzare la capacità della società civile di creare valore sociale fungendo da agente principale nella creazione di una politica pubblica.”
Sono i cittadini che, tramite istituzioni civiche controllate da loro, decidono e dirigono la messa in pratica di un programma pubblico. Il ruolo abilitante di questo stato non si limita alla promozione del valore sociale. Comprende anche la promozione di un accesso universale all’economia. Offre uno spazio operativo a tanti modelli imprenditoriali, comprese imprese a base collettiva o comunitaria come le cooperative e le reti paritarie, e inoltre promuove la partecipazione.
Lo Stato Partner allarga l’obiettivo dell’autonomia e della libertà personale, garantisce sicurezza personale economica rafforzando allo stesso tempo il legame sociale che rende sana e forte la società. Insomma, lo Stato Partner è soprattutto un supporto amministrativo per la coordinazione di programmi decisi da istituzioni civiche sulla base di una democrazia cooperativa diretta.338
Andando oltre, Christian Iaione, di LabGov, vede nello Stato Partner uno “Stato Piattaforma”, un “nuovo modello di stato, plurale perché diffuso”,
perché lo troviamo nei vari mondi della società, dell’economia e della conoscenza; non è più confinato nelle stanze e nei corridoi delle istituzioni. Occorre pertanto un programma di sperimentazioni di vasta portata che rifaccia le istituzioni, un programma in grado di rafforzare la capacità istituzionale delle amministrazioni di gestire il cambiamento senza soffocarlo e senza cercare di dirigerlo. Lo stato deve accompagnare, aiutare, monitorare e valutare il cambiamento diventando una piattaforma. Uno Stato Piattaforma potrà esistere e rendere disponibili le sue competenze e le sue risorse umane, tecniche e logistiche necessarie ad organizzare processi e laboratori locali dove tutto avviene a prescindere dall’amministrazione, ma in modo più controllato e legittimo. Darebbe a tutti la possibilità di sperimentare, permettendo a tutti di essere informati sui progetti altrui e magari di unirsi a loro. Offrirebbe la possibilità di sperimentare e immaginare nella certezza che si rispettino le norme di sicurezza e inclusione.339
Wikipedia, una piattaforma che rende possibile e coordina attività autoselezionate e autodirette su base stigmergica, ne è per certi versi un esempio. Lo Stato Partner, dunque, più che uno “stato” è un modo di gestire.
Il risultato finale, anche se forse non ci si arriverà mai, è una realtà in cui non esiste un ordine sovrano che controlla una fetta di territorio. È un luogo in cui le funzioni indispensabili vengono svolte da un insieme di istituzioni funzionali in parte sovrapposte, ognuna delle quali serve un insieme di persone che si accordano sullo svolgimento di determinati compiti (come amministrare una piccola griglia energetica di quartiere, un impianto di compostaggio, fiduciarie, condomini o servizi pubblici in cooperativa); ma possono essere anche delle piattaforme che svolgono funzioni di vasta portata a beneficio di una federazione orizzontale di comunità locali spontanee (come amministrare una strada intercomunale, una linea ferroviaria leggera o una rete a fibra ottica ad uso delle comunità connesse).
La soluzione astatuale partendo dalla situazione attuale rappresenta il punto d’arrivo di una serie di passi intermedi, nessuno dei quali è in rottura totale con il passo precedente e con quello successivo ma sfuma, come una transizione graduale. Qualsiasi allargamento dell’autonomia e dell’estensione territoriale dell’Autorità Palestinese sarebbe perlomeno un miglioramento marginale rispetto al presente. Una soluzione a due stati, anche drastica, sarebbe un miglioramento. Una soluzione confederale, binazionale o bistatuale soft, sarebbe un miglioramento rispetto a una separazione totale in due stati. Meglio di tutte la soluzione astatuale.
Oggi nessuna di queste soluzioni sembra politicamente fattibile o anche solo plausibile, neanche una maggiore autonomia palestinese data l’attuale atmosfera bellica a Gaza.340 Ma per la speranza c’è più spazio di quanto non si pensi. Dovremmo avvicinarci alla situazione tenendo in mente qualche regola di massima:
1) Aggrapparsi a tutto il possibile, anche negoziando un allargamento dell’autonomia in Cisgiordania, e spingere nella direzione voluta.
2) Perseguire una tattica multipla con tutti i mezzi disponibili e appropriati, unita a un negoziato politico condotto tramite l’attivismo e altre forme di pressione.
3) Non aspettarsi un punto di svolta improvviso che allarghi la possibilità di una grande soluzione. Ma neanche sorprendersi se ciò avviene. E, in tal caso, prepararsi a cogliere l’occasione.
Il processo dovrebbe seguire una strategia a due fronti: fare pressioni sullo stato affinché faccia spazio ad alternative orizzontali autonome, e allo stesso tempo cercare di coinvolgere le persone a creare queste alternative. Trattare con lo stato serve ad evitare “riforme che non riformano”; bisogna cogliere tutto il possibile e continuare a spingere nella direzione voluta. Questo significa spingere l’autonomia amministrativa verso una soluzione bistatuale, spingere la forma bistatuale verso una soluzione confederale, e spingere la forma confederale verso una soluzione astatuale. Come sostengono Mohammed Bamyeh e Uri Gordon, le varie soluzioni monostatuali, bistatuali, confederali e astatuali non si escludono a vicenda ma fluiscono una nell’altra: partire da una non esclude la possibilità di evolvere verso una soluzione migliore.
Mohammed Bamyeh: …Come ho già detto altrove, penso che la soluzione bistatuale, per quanto poco pratica, sarebbe meglio della situazione attuale, ovvero l’occupazione. Non è l’ideale, certo, e a questo punto potrebbe anche non essere pratica, ma è pure sempre meglio dell’occupazione.
Meglio la soluzione monostatuale, che è un adattamento alla realtà attuale. Ma anche questa sembra irrealizzabile.
Arriviamo quindi alla soluzione astatuale, che secondo me è meglio delle altre. Abbiamo quindi una sorta di ordine di preferenza. Questo non significa che io voglio una soluzione astatuale e che non accetto nient’altro. Non credo che questo sia un modo pratico di risolvere i problemi, soprattutto quando siamo di fronte ad un genocidio. Ci sono ordini di preferenza…
Uri Gordon: …Una sorta di compromesso, né più né meno pratico di tante altre soluzioni diplomatiche attorno al concetto di confederazione, una confederazione bistatuale in cui i cittadini di uno stato possono vivere nel territorio dell’altro, votano per il parlamento dello stato di cittadinanza e per il comune di residenza, una confederazione in cui i rifugiati possono tornare ad Israele e i coloni possono stare dove stanno.
Perché non una confederazione a tre stati con l’aggiunta della Giordania? Perché non Gerusalemme distretto internazionale sede dell’ONU? Voglio dire, sono tutte soluzioni diplomatiche plausibili, ma al momento non c’è la volontà politica di metterle in pratica, né le superpotenze fanno pressioni su Israele affinché accetti una condizione che metterebbe in questione lo sbilanciamento e il regime di disuguaglianza della realtà attuale.
E allora sono d’accordo con Mohammed che la Soluzione Astatuale non è meno plausibile delle altre due, proprio perché queste ultime al momento sono molto lontane. Per me comunque la Soluzione Astatuale resta un orizzonte, l’unico orizzonte che comprenda la decolonizzazione delle relazioni sociali sul campo. Perché anche lo stato singolo sarebbe pur sempre uno stato capitalista, e noi lo vedremmo comunque come una qualche forma di società nazionale di classe. Al momento, è quasi impossibile immaginare qualcosa di veramente positivo. Ciò che occorre fare nell’immediato è fermare tutto affinché la vita a Gaza torni ad essere sopportabile.341
Rispondendo a Branson, che vorrebbe arrivare ad un’organizzazione astatuale in modo assolutamente apolitico, Gordon, riguardo il “come arrivarci?”, aggiunge che…
in questo momento dobbiamo fermare i crimini di guerra. Dobbiamo creare le condizioni e cercare un ordine, un quadro di riferimento, qualcosa che ci consenta di ricostruire una qualche forma di esistenza umana. Il resto è nel nostro orizzonte utopico.342
Rispondendo ad una richiesta di chiarimento riguardo la “soluzione astatuale”, Gordon ripete che si tratta di un’ideale futuro, qualcosa a cui mirare mentre si agisce ora. Arrivare ad una soluzione “astatuale” comporta partire da un mondo di stati nazione, la società auspicata nasce in un mondo di stati nazionali.
…[M]i si chiede qual è il nostro orizzonte utopico. Cos’è una Soluzione Astatuale? Voglio dire, come fa ad esistere un ‘non stato’ che confina con gli stati? Ma la Soluzione Astatuale esiste in tutto il Medio Oriente. In tutto il mondo. È libera ed equa, non ha frontiere, è una società senza classi, non ha schemi. È più il fatto che in qualche modo riusciamo ancora a stare connessi in tempi molto bui, questo forse riflette il nostro modo di organizzarci, come facciamo politica insieme concretamente oggi.343
Secondo lo storico pensiero anarchico, spiega Bamyeh a completamento, il mondo ideale…
è una federazione autonoma di comunità, o di piccole unità. Si tratta di un concetto risalente al pensiero originario secondo cui la democrazia è possibile solo in scala ridotta, non nei grandi stati di oggi. Questo l’ideale. La realtà è che il mondo è governato da stati, e lo stato è l’unica forma di esistenza politica che ci è familiare. Per questo finiamo per immaginare l’emancipazione come sostituzione di un’entità statuale con un’altra.
Ma la realtà astatuale, se mai ne avremo una, va oltre le possibilità attuali. Può nascere solo con il convincimento…
Parliamo insomma di un processo pragmatico di adattamento alla realtà. Non può essere proposto in forma teorica prima che cominci a prendere forma dal fallimento della realtà attuale, prima che si diffonda il consenso su una soluzione astatuale come rimedio al problema dello stato e dell’ordine imposto, che oggi non può far altro che generare guerra e sofferenze indicibili.344
Come già detto più su, anche se improvvisi punti di svolta sono imprevedibili, dobbiamo essere pronti a trarne vantaggio. Per loro natura, tali eventi arrivano dopo lunghi periodi di gestazione silenziosa, quando meno ce lo si aspetta. Alla fine degli anni Ottanta, quando tutti pensavano che l’apartheid sudafricano fosse eterno e che non avrebbe mai ceduto il potere, i suoi leader arrivarono segretamente alla conclusione che fosse insostenibile e in silenzio ne stavano negoziando la fine. Così Steven Friedman:
Negli anni Ottanta, la lotta violenta tra il governo dell’apartheid e il movimento resistenziale nero, accompagnato da dichiarazioni apocalittiche dello stato che invocava una ‘azione totale’ per fermare la ‘carneficina totale’ delle forze anti-apartheid, sembrava confermare la prognosi facendo apparire utopica ogni pretesa del contrario.
Noi oggi sappiamo che la società, apparentemente bloccata in un conflitto senza fine, stava negoziando il passaggio verso un ordine politico comune.345
La cosiddetta “mentalità laager” del Partito Nazionale, con i suoi raccapriccianti incubi genocidi se la minoranza Afrikaner bianca avesse ceduto il potere alla maggioranza nera, era paranoica tanto quanto la mentalità del Likud e degli altri partiti di destra in Israele. Ma quando le trattative di Mells Park House diventarono di dominio pubblico, si scoprì che erano un punto cruciale dopo anni di tacite revisioni dietro le scene.
Il ripensamento dell’élite afrikaner sulla fiducia in uno stato etnico non fu una rivelazione improvvisa. Ci furono molte riluttanze, fu un lungo processo con ripetuti tentativi di puntellare il potere razziale nonostante le pressioni contro l’apartheid.
Possiamo dividere la questione in tre punti connessi tra loro. Primo, i ‘vincoli obiettivi’, i difetti strutturali del sistema che, anche senza un’opposizione dichiarata, cominciarono a renderlo meno sostenibile. Alla fine degli anni Sessanta cominciarono a mancare lavoratori qualificati bianchi. Servivano lavoratori neri per lavori qualificati, in precedenza preclusi, e questo diede loro un potere negoziale che poi usarono per sfidare il potere razziale. Secondo, gli obiettivi erano in contraddizione tra loro: i leader perseguivano obiettivi contraddittori minacciando la tenuta del sistema. Un esempio era il sistema dei Bantustan per i neri. L’apartheid era sostenuto da un’ideologia e da scelte strategiche che ritenevano possibile allontanare la richiesta di diritti civili dei neri creando per loro territori etnici ‘indipendenti’ e ‘autogovernati’. L’obiettivo chiave era il consolidamento del potere bianco nel restante 87% del paese. Ma era un obiettivo contraddittorio. Se i Bantustan si governavano da sé potevano diventare centri indipendenti di potere nero minacciando il potere dei bianchi. E poi avrebbero avuto bisogno di terre e risorse per essere fattibili, e la priorità andava all’elettorato bianco, così che ricevettero molto meno di quello che spettava loro. Dunque da un lato i Bantustan non potevano soddisfare le aspirazioni dei neri, e dall’altro le contraddizioni garantivano l’impossibilità di arrivare anche solo a quel minimo fattibile che gli architetti del sistema avevano stabilito per sé.
Il sistema subiva inevitabilmente anche i condizionamenti ‘soggettivi’ dall’elemento umano. Il più importante era la resistenza dei neri. Le sue origini risalgono all’inizio della dominazione bianca, ma il periodo cruciale iniziò con gli scioperi di Durban del 1973 e, tre anni dopo, la rivolta contro la scuola Afrikaans nella città di Soweto cui seguirono tre mesi di rivolta urbana. Questi avvenimenti furono uno spartiacque, portarono riforme ma anche repressione, e fecero capire che, anche se impercettibilmente, i rapporti di forza tra la minoranza di governo e la maggioranza senza voto erano cambiati. C’era poi una costante e crescente pressione internazionale, che limitava il campo d’azione dei governanti e dava un potere di leva alla resistenza. Conosciamo bene la campagna contro l’apartheid, non c’è bisogno di raccontarla. Diciamo solo che influenzò drasticamente gli schemi dei governanti dell’apartheid.346
In questi ultimi anni le classi dirigenti israeliane hanno avuto molte occasioni per un relativo ripensamento. Israele accettò gli accordi di Oslo soprattutto perché lo choc della Prima Intifada rendeva evidente che nel lungo termine la situazione era insostenibile. Oltre all’Intifada, anche la minaccia di una crisi demografica faceva capire che prima o poi sarebbe stata necessaria una qualche azione drastica, o sganciando i territori a maggioranza palestinese in Cisgiordania e Gaza oppure annettendoli e scacciando la popolazione. Nonostante il depotenziamento e poi l’abbandono degli accordi di Oslo da parte di Israele, la lezione è continuata. Particolarmente efficace sul lungo termine, forse, è il crescente allontanamento intergenerazionale da parte di ebrei occidentali della Generazione del Millennio e della Generazione Z, e la crescita del movimento BDS (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni, NdT). Gli attacchi del sette ottobre hanno fatto capire che la strategia di Netanyahu, ovvero abbandonare Gaza all’abbraccio di Hamas, ritirare le forze israeliane, e togliere l’assedio, non funzionava: il pericolo che la rabbia diventasse violenza rimaneva. Se l’intento dei leader israeliani all’inizio era di creare una massiccia “Seconda Nakba”, o di espellere i palestinesi da Gaza costringendoli a fuggire in Egitto, l’improvvisa e inattesa reazione massiccia dell’opinione pubblica mondiale, in particolare i movimenti di protesta negli Stati Uniti, e le spaccature nella comunità ebraica, sembrano aver costretto Netanyahu a ripensarci, almeno per ora.
Come dice Steven Friedman, la non fattibilità di una convenzionale soluzione a due stati è dimostrata da cose come la Seconda Intifada, l’ingestibilità degli insediamenti ebrei trincerati in Cisgiordania, e l’irrealizzabilità economica della divisione palestinese in aree autonome. Il problema è lo stesso delle mezze riforme dei Bantustan in Sudafrica. Semmai cresce la probabilità che si arrivi ad un punto critico che renda più facile l’accettazione di una soluzione a vasto raggio, ad esempio una soluzione confederale che lasci intatto lo stato di Israele, permetta ai coloni ebrei di continuare a stare all’interno di uno stato arabo come cittadini israeliani e dia la possibilità agli ebrei israeliani di visitare i luoghi sacri in Cisgiordania.
Come nota Bamyeh, “sono di solito le persone più improbabili a cambiare il mondo.”
Quando parliamo di una Soluzione ‘Astatuale’, partiamo da un’ottica che rifiuta non solo la realtà attuale, ma anche una prospettiva realistica. Se guardiamo al movimento resistenziale palestinese e alla sua storia, vediamo che l’aggressività cresce quando la situazione peggiora. Lo sciopero generale del 1936 e la mobilitazione nei campi alla fine degli anni Sessanta avvenirono in condizioni disperate dopo la sconfitta. La prima Intifada è sorta in un momento in cui il mondo si era dimenticato della Palestina. E così via.347
Se si vuole attirare l’interesse di Stati Uniti e altre grandi potenze verso la soluzione del conflitto in Palestina…
serve un movimento resistenziale che cambi i termini. Ha sempre funzionato, non risolve il problema ma lo rimette sul tavolo. Tutte le volte che c’è stato l’interesse degli stati a risolvere il conflitto, è stato solo perché i palestinesi hanno fatto ricorso a qualcosa di eclatante per agitare le acque. Soltanto allora gli stati guardano e dicono: “c’è un problema, dobbiamo fare qualcosa, o almeno fingere.” Oggi accade lo stesso. Prima del sette ottobre nessuno parlava di due stati. Tutti parlavano degli “Accordi di Abramo”, la distensione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi, dimenticandosi dei palestinesi. Quella era la direzione finché Hamas, qualunque cosa si pensi delle sue azioni, non ha riportato la Palestina in primo piano.
E improvvisamente ecco che Biden parla di due stati. Ipocritamente, credo, perché dopotutto non fa niente per realizzarla…
Insomma, l’unica risorsa oggi è sostanzialmente quella che ha sempre funzionato: gli oppressi prendono in mano la situazione e continuano a lottare, a resistere, fino a catturare l’attenzione internazionale mettendo se stessi in primo piano. Nella storia palestinese non è la prima volta. Lo schema si ripete: gli oppressi diventano protagonisti della lotta, non più l’oggetto di un potere coloniale.348
Uri Gordon: “[I]l fatto che l’apartheid e l’Unione Sovietica siano crollati inaspettatamente mi dà speranza. Ma è una speranza piccolissima.” Risponde Bamyeh:
Sono perlopiù d’accordo con Uri. Voglio solo dire che perché cambi l’opinione pubblica occorrono due cose, o una delle due.
Primo, un processo di persuasione. Possiamo discutere del significato in termini di come le persone parlano di sicurezza e tutto il resto. Fatto più importante, e più concreto, è che la situazione attuale ha un costo altissimo: l’occupazione non è gratis. E io credo che debba continuare così. Se la causa palestinese prima del sette ottobre stava per essere dimenticata del tutto è perché in Israele e in altri stati c’era l’impressione che l’occupazione fosse poco importante, perché agli stati non costava nulla. I fatti del sette ottobre hanno aggiunto un costo all’occupazione. Sostanzialmente, lo stesso effetto si può ottenere anche con altri mezzi, ad esempio con il boicottaggio.349
La spinta psicologica, intesa come modo di persuasione, è importante al pari delle pressioni esterne. Come scrive Peter Beinart:
I sostenitori della separazione tra ebrei e palestinesi ritengono la soluzione monostatuale ancora meno realistica di quella bistatuale perché per chi ha più potere, ovvero gli ebrei israeliani, è un tabù. Ma non è questo il punto. Oggi nessuna delle due soluzioni è realistica. La questione non è quale soluzione è al momento più creativa, ma quale è in grado di dar vita ad un movimento abbastanza potente da cambiare radicalmente le cose.
La soluzione bistatuale, che ha finito per significare una Palestina a pezzi sotto il controllo israeliano, non può farlo. Non dà più speranze…
Per evitare che in futuro l’oppressione degeneri in pulizia etnica occorre una visione delle cose che ispiri non solo i palestinesi ma tutto il mondo. L’uguaglianza è un esempio. Molti dei movimenti politici che in quest’ultimo secolo hanno avuto come obiettivo l’indipendenza nazionale, dal Fronte di Liberazione Nazionale algerino ai Vietcong, ne sono un esempio ma sbiadito. La voglia di uguaglianza, come la vediamo nei movimenti per i diritti civili, Black Lives Matter e movimenti anti-apartheid, ha ancora un potenziale etico enorme. Anche i leader israeliani lo riconoscono. Nel 2003, il futuro primo ministro Ehud Olmert avvertì che se i palestinesi fossero passati dalla “lotta contro l’“occupazione’” alla “lotta per un un uomo un voto”, “il fronte sarebbe stato molto più ampio; e in sostanza anche più potente.”
Una lotta per l’uguaglianza potrebbe far emergere leader con quell’autorità morale che manca a Abbas o Hamas. La voglia di separazione porta a cercare una leadership palestinese a Ramallah o a Gaza City. Ma come dice l’imprenditore e scrittore palestino-americano Sam Bahour, i politici palestinesi che parlano in modo più convincente di uguaglianza sono quelli che risiedono entro la Linea verde (il confine tra Israele e i limitrofi, NdT). Sono quei legislatori che fanno parte della Joint List dominata da palestinesi in Israele.350
Conclusione
Qualunque soluzione equa del conflitto Israelo-palestinese richiede, per principio, l’abbandono dello stato etnico, l’idea che lo stato debba essere lo stato di “una nazione”. Bisogna invece riconoscere che la Palestina è la terra del popolo che ci vive e degli esiliati che sono stati privati della terra. È la terra degli arabi palestinesi, che siano musulmani, cristiani o ebrei mizrahì, che vivevano lì da prima della Dottrina Balfour, ma anche dei palestinesi esiliati in accampamenti di rifugiati nei paesi confinanti. Ed è anche la casa di milioni di ebrei delle giovani generazioni che sono nati lì non certo per colpa loro, molti dei quali discendono dai sopravvissuti all’Olocausto o sono mizrahì espulsi dai paesi vicini arrivati in Palestina per disperazione. È necessario che gli ebrei facciano un passo indietro e i palestinesi uno avanti perché siano cittadini alla pari. I palestinesi devono riavere la terra da cui sono stati sfrattati o ricevere un risarcimento, e dev’essere riconosciuto loro il diritto di rientro. I palestinesi, così come gli israeliani, dice Rashid Khalidi…
devono liberarsi dell’incubo prodotto dalla natura coloniale del loro incontro con il Sionismo, che nega la condizione di popolo dei palestinesi, ma devono liberarsi anche dell’idea che gli israeliani non siano un popolo “vero” e che non abbiano diritti nazionali. È vero che il Sionismo ha trasformato la religione ebraica e lo storico popolo ebraico in qualcosa di molto diverso, in un nazionalismo moderno, ma questo non cancella il fatto che oggi gli ebrei israeliani si considerano un popolo della Palestina, che loro vedono come la Terra di Israele a prescindere da come è avvenuta questa trasformazione. Anche i palestinesi si considerano un popolo con un legame nazionale con quello che è il loro focolare ancestrale per ragioni che sono tanto arbitrarie e tanto congiunturali quanto quelle che hanno portato al Sionismo, e tanto arbitrarie quanto lo sono le tante ragioni che hanno portato alla nascita dei moderni movimenti nazionali. Questa conclusione sulla natura artificiale di tutte le entità nazionali, una cosa che fa arrabbiare i sostenitori del nazionalismo, per chi ha studiato le sue origini in moltissimi casi è una cosa ovvia.
L’aspetto ironico è che, come tutti i popoli, anche i palestinesi pensano che il loro nazionalismo sia puro e radicato nella storia e negano la stessa cosa agli ebrei israeliani. Certo c’è una differenza: moltissimi palestinesi discendono da persone che da tempi remoti, secoli se non millenni, vivevano in quello che consideravano spontaneamente il loro paese. Molti ebrei israeliani sono arrivati dall’Europa e da paesi arabi relativamente di recente in seguito ad un processo coloniale voluto e negoziato dalle grandi potenze. I primi sono indigeni; i secondi sono coloni o discendenti di coloni, anche se oggi sono lì da generazioni ormai, e sentono un profondo legame religioso con il paese, anche se in maniera molto diversa rispetto alle popolazioni indigene palestinesi. Questa differenza è importantissima perché questo è un conflitto coloniale. Oggi però nessuno negherebbe l’esistenza di entità nazionali sviluppate in paesi ex coloniali come gli Stati Uniti, il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia, questo nonostante alle origini ci siano state guerre di sterminio coloniali. A dare importanza alla distinzione tra coloni e indigeni è chi è accecato da ideali nazionalisti. Secondo l’antropologo Ernest Gellner, “Le nazioni, intese come classificazione naturale degli uomini sancita da dio, intese come destino politico innato, sono un mito. Spesso il nazionalismo trasforma culture del passato in nazioni; altre volte le inventa cancellando le culture preesistenti. Questo è un fatto.”
L’incontro tra palestinesi e ebrei è certo di natura coloniale, dobbiamo riconoscerlo, ma è anche vero che oggi in Palestina ci sono due popoli, a prescindere dalle loro origini, e il loro conflitto non può essere risolto finché l’esistenza come popolo dell’uno è negata dall’altro. L’accettazione reciproca può nascere solo dalla parità di diritti, anche dei diritti nazionali, nonostante le forti differenze storiche tra i due.351
Sullo stesso tono Mamdani: “Il bello del focolare nazionale è che non è necessario averne uno solo. Se ne possono avere diversi.”
Non occorre rinunciare ad uno per un altro. Le persone provano una grande emozione all’idea di un focolare, ma questo non significa convincersi che il focolare dev’essere esclusivo, che dal mio stato nazionale devono essere esclusi gli altri. Non vogliamo vivere senza una casa, ma non vogliamo neanche una casa prigione. Nelle società premoderne, la norma era vivere nella diversità. La creazione di focolari etnici separati è un’iniziativa moderna, anche nel mondo coloniale. Io credo che dobbiamo recuperare un pizzico della saggezza del mondo premoderno, imparare come vivere nella diversità e come convivere, prima di andare avanti.352
Note
1 Mahmood Mamdani, Neither Settler Nor Native: The Making and Unmaking of Permanent Minorities (London and Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 2020), pagg. 327-328.
2 Etienne Balibar, “The Nation Form: History and Ideology,” Review (Fernand Braudel Center), Vol. 13, No. 3 (Summer, 1990), pag. 342.
4 Nandita Sharma, Home Rule: National Sovereignty and the Separation of Natives and Migrants (Durham and London: Duke University Press, 2020), pagg. 3-4.
8 William Gillis, “The Continuing Obfuscation of Nationalism,” Human Iterations, 18 ottobre 2018 <https://humaniterations.net/2018/10/18/the-continuing-obfuscation-of-nationalism>.
9 Emmi Bevensee, “Settler Anarchists Should Tread Lightly Around Indigenous Anarchism,” Center for a Stateless Society, 2 ottobre 2018 <https://c4ss.org/content/51335>.
11 Gillis, “The Continuing Obfuscation of Nationalism.”
13 Gillis, “Partition & Entanglement: Review of Home Rule by Nandita Sharma,” Center for a Stateless Society, 11 gennaio 2022 <https://c4ss.org/content/55841>.
14 Un concetto sviluppato dall’antropologo James C. Scott in Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed (Yale University Press, 1998) and The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia (Yale University Press, 2010).
15 Gillis, “The Continuing Obfuscation of Nationalism.”
17 Edward Said, Orientalism (London: Pantheon Books, 1977, 2003), pag. 72.
25 Anouar Abdel Malek, “Orientalism in Crisis,” Diogenes 44 (Winter 1963), pag. 50.
28 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 3.
29 Mamdani, Define and Rule: Native as Political Identity (Cambridge and London: Harvard University Press, 2012), pagg. 73-74.
30 Benedict Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism. Revised Edition (London and New York: Verso, 1983, 2006), pagg. 12-22.
32 Mamdani, Define and Rule, pag. 93.
41 Sai Englert, Settler Colonialism: An Introduction (London: Pluto Press, 2022), pag. 90. Seguo l’impaginazione della conversione pdf fatta da Cloud Convert del documento epub che si trova presso la Library Genesis <https://libgen.is/book/index.php? md5=C4DE84CB1D4D4A22A1A942539C0C384A>.
42 Bambi Ceuppens and Peter Geschiere, “Autochthony: Local or Global? New Modes in the Struggle over Citizenship and Belonging in Africa and Europe,” Annual Review of Anthropology 34 (2005), pag. 388.
43 Mamdani, Define and Rule, pagg. 49-50.
46 Anderson, Imagined Communities, pagg. 165-166.
49 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pagg. 151-152.
50 Sharma, Home Rule, pag. 23.
51 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 146.
52 Terence Ranger, “The Invention of Tradition in Colonial Africa,” in Eric Hobsbawm and Terence Ranger (curatori)., The Invention of Tradition (Cambridge, New York, Melbourne, Madrid, Cape Town, Singapore, Sao Paulo: Cambridge University Press, 1983), pag. 212.
57 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 3.
59 Sharma, Home Rule, pag. 39.
60 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 12.
61 Sharma, Home Rule, pag. 45.
64 “Tutsi,” Wikipedia <https://en.wikipedia.org/wiki/Tutsi>. Visto il 25 gennaio 2024.
65 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 243.
66 Sharma, Home Rule, pagg. 226-227.
67 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 4.
71 Mamdani, Define and Rule, pag. 71.
73 Sharma, Home Rule, pag. 15.
74 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 3.
75 Sharma, Home Rule, pag. 251.
81 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 4.
82 Sharma, Home Rule, pag. 215.
84 Bambi Ceuppens & Peter Geschiere, “Autochthony: Local or Global? New Modes in the Struggle over Citizenship and Belonging in Africa and Europe,” Annual Review of Anthropology 34 (2005), pag. 386.
90 Sharma, Home Rule, pag. 208.
97 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 36.
100 Mamdani, Define and Rule, pag. 4.
101 Ilan Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine. Ebook edition (Oxford: One World, 2011), pagg. 29-30.
102 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pagg. 250-251.
103 Hannah Arendt, “Zionism Reconsidered,” New York Times, 5 maggio 1948. Presso &&& Publishing <https://tripleampersand.org/zionism-reconsidered/>.
104 Rashid Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler Colonial Conquest and Resistance, 1917-2017 (New York: Henry Holt and Company, 2020), pag. 21.
106 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 260.
107 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag. 54.
109 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 260.
111 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag. 27.
114 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 259.
115 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pagg. 36-37.
116 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pagg. 34-35.
118 Arendt, “Zionism Reconsidered.”
119 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag. 44.
120 Gudrun Krämer, A History of Palestine: From the Ottoman Conquest to the Founding of the State of Israel (Princeton University Press, 2008), pagg. 227-228, 230. Citato in “Pro-Wailing Wall Committee,” Wikipedia <https://en.wikipedia.org/wiki/Pro%E2%80%93Wailing_Wall_Committee>, visto il 10 giugno 2024.
121 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pagg. 46-47.
123 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 263.
126 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pagg. 75-76.
136 Ivi., pag. 13. Virgolettato nell’originale, sic.
141 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pagg. 73-74.
143 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pag. 109.
146 Flapan, The Birth of Israel, pagg. 84-85.
148 Simha Flapan, The Birth of Israel: Myths and Realities (New York, Pantheon Books, 1987), pag. 87.
151 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pag. 60.
161 Flapan, The Birth of Israel, pag. 196.
163 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pagg. 147-149; la pulizia etnica che preoccupava Ben-Gurion comprendeva le atrocità di massa di Tantura (Ivi., pagg. 152 et seq.).
164 Flapan, The Birth of Israel), pag. 142.
166 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pag. 104.
168 Mamdani, Neither Settler Nor Native), pagg. 280-281.
169 Flapan, The Birth of Israel, pagg. 15-16.
173 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 273.
174 Flapan, The Birth of Israel, pag. 35.
175 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 283-284.
176 Jonathan Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” in Ilan Pappé, ed., Israel and South Africa: The Many Faces of Apartheid (London, Zed Books, 2015), pag. 125.
177 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 251.
178 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pag. 126.
179 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 268.
180 Pappé, The Ethnic Cleansing of Palestine, pagg. 263-264.
181 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pagg. 311-314.
182 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag. 235.
183 Virginia Tilley, “Redefining the Conflict in Israel-Palestine: The Tricky Question of Sovereignty,” in Ilan Pappé (curatore)., Israel and South Africa: The Many Faces of Apartheid (London, Zed Books, 2015), pagg. 317-318.
184 Uri Davis, Apartheid Israel: Possibilities for the Struggle Within (London and New York, Zed Books, 2003), pag. 38.
185 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pagg. 129-131.
187 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,”pag. 135.
188 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 252.
190 Davis, Apartheid Israel, pag. 44.
193 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pag. 136.
194 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 267.
195 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pagg. 138-139.
196 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 288.
198 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag. 83.
199 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pag. 137.
201 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 291.
205 Davis, Apartheid Israel, pag. 39.
206 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 297.
207 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pagg. 141-142.
208 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 285.
209 Cook, “‘Visible Equality’ as Confidence Trick,” pagg. 142-143.
211 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pagg. 285-286.
212 Davis, Apartheid Israel, pag. 88.
213 Ronnie Kasrils, “Birds of a Feather: Israel and Apartheid South Africa – Colonialism of a Special Type,” in Pappé (curatore)., Israel and South Africa, pag. 24.
215 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pagg. 271-272.
218 Antony Lerman, “Yiddish is No Joke,” The Guardian, 5 marzo 2010 <https://www.theguardian.com/commentisfree/belief/2010/mar/05/yiddish-jewish-culture-zionism>.
219 Zach Golden, “How Yiddish became a ‘foreign language’ in Israel despite being spoken there since the 1400s,” Forward, 11 settembre 2023 <https://forward.com/forverts-in-english/560390/how-yiddish-became-foreign-language-israel/>.
222 Abraham Brumberg, “Anniversaries in Conflict: On the Centenary of the Jewish Socialist Labor Bund,” Jewish Social Studies 5:3 (Spring/Summer 1999) <https://muse.jhu.edu/article/18207>.
223 Lawrence Bush, “September 27: Anti-Yiddish Riots,” Jewish Currents, 27 settembre 2012 <https://jewishcurrents.org/september-27-anti-yiddish-riots>.
224 Golden, “How Yiddish became a ‘foreign language’ in Israel despite being spoken there since the 1400s.”
225 Eli Kavon, “When Zionism feared Yiddish,” The Jerusalem Post, 11 maggio 2014 <https://www.jpost.com/opinion/op-ed-contributors/when-zionism-feared-yiddish-351939>.
226 Alexander Fulbright, “Netanyahu apologizes for ‘Mizrahi gene’ remark,” The Times of Israel, 17 marzo 2017 <https://www.timesofisrael.com/netanyahu-apologizes-for-mizrahi-gene-remark/>.
227 Times of Israel staff, “Israeli real estate firm slammed for racist online ad,” The Times of Israel, 30 novembre 2015 <https://www.timesofisrael.com/israeli-real-estate-firm-slammed-for-racist-online-ad/>.
228 Ella Shohat, “Sephardim in Israel: Zionism from the Standpoint of Its Jewish Victims,” Social Text No. 19/20 (Autumn 1988), pagg. 4-5.
229 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pagg. 252-253.
232 Francis Wade, “The Idea of the Nation-State is Synonymous With Genocide,” The Nation, 9 gennaio 2024 <https://www.thenation.com/article/culture/mahmood-mamdani-nation-state-interview/>.
233 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 265.
234 Dmitry Shumsky, Beyond the Nation-State: The Zionist Political Imagination from Pinsker to Ben-Gurion (New Haven and London, Yale University Press, 2018), pag. 11.
236 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 264.
239 Shumsky, Beyond the Nation-State, pag. 7.
250 Contrariamente all’opinione “apolitica”, Ha’am ammetteva il suo debito intellettuale nei confronti di Pinsker. Ivi., pagg. 92-93.
255 Martin Buber, “Preface.” In Martin Buber, Israel and the World: Essays in a Time of Crisis (New York, Schocken Books, 1948), pag. 5.
256 Martin Buber, “Nationalism.” Discorso al Dodicesimo Congressio Sionista di Karlsbad, 5 settembre 1921. In Buber, Israel and the World, pag. 214.
260 Buber, “Nationalism and Zionism,” Discorso al Sedicesimo Congresso Sionista di Zurigo, 1929. In Asher D. Biemann (curatore)., The Martin Buber Reader: Essential Writings (New York, Palgrave-McMillan, 2002), pag. 278.
262 Buber, “The National Home and National Policy in Palestine,” in Biemann (curatore)., The Martin Buber Reader, pagg. 284-285.
264 Buber, “And If Not Now, When?” Discorso alla convention dei giovani ebrei di Anversa, 1932. In Buber, Israel and the World, pagg. 235-239.
265 Buber, “The Land and Its Possessors.” Citazione da una lettera aperta indirizzata a Gandhi, 1939. In Buber, Israel and the World, pag. 229.
269 Judah Magnes, letter to Oscar S. Strauss, January 2, 1913. In Arthur A. Goren (curatore)., Dissenter in Zion: From the Writings of Judah L. Magnes (Cambridge and London, Harvard University Press, 1982), pagg. 135-136.
270 Magnes, letter to Louis D. Brandeis, 2 settembre 1915. In Goren, ed., Dissenter in Zion, pagg. 149-150.
271 “Introduction,” Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pag. 28.
272 Magnes, letter to unnamed friend, May 1920. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pagg. 183-189.
273 Magnes, “Journal: The Arab Question,” 4 luglio 1928. In Arthur A. Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pagg. 271-272.
274 Magnes, letter to Chaim Weizmann, 7 settembre 1929. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pagg. 276-277.
275 Magnes, letter to Felix Warburg, 13 settembre 1929. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pag. 279.
276 “Introduction,” Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pag. 35.
277 Magnes, letter to Chaim Weizmann, 3 giugno 1930. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pagg. 288-289.
278 Arthur A. Goren introductory remarks to Section 5, “The Pursuit of Compromise: Arabs and Jews 1935-1939,” in Goren, ed., Dissenter in Zion, pagg. 309-310.
279 Magnes, letter to Reginald Coupland, 7 gennaio 1937. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pag. 316.
281 Magnes, letter to the Editor of The New York Times, 18 luglio 1937. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pagg. 324-325.
282 Magnes, Address to the Council of the Jewish Agency, 18 agosto 1937. In Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pagg. 332-333.
283 “Introduction,” Arthur A. Goren (curatore)., Dissenter in Zion, pag. 46.
286 Shumsky, Beyond the Nation-State, pagg. 19-20.
293 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pagg. 120-121.
297 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 307.
298 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag. 194.
299 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 308.
300 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pagg. 196-197.
301 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 309.
302 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pag..204-205.
303 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 310.
304 Bashir Bashir, “The Strengths and Weaknesses of Integrative Solutions for the Israeli-Palestinian Conflict,” Middle East Journal 70:4 (Autumn 2016), pagg. 561-562.
305 Dahlia Scheindlin and Dov Waxman, “Confederalism: A Third Way for Israel-Palestine,” The Washington Quarterly 39:1 (2016), pag. 85.
306 Mamdani, Neither Settler Nor Native, pag. 255.
309 Peter Beinart “Yavne: A Jewish Case for Equality in Israel-Palestine,” Jewish Currents, 7 luglio 2020 <https://jewishcurrents.org/yavne-a-jewish-case-for-equality-in-israel-palestine>.
311 Bashir, “The Strengths and Weaknesses of Integrative Solutions for the Israeli-Palestinian Conflict,” pag. 568.
313 Beinart, “Yavne: A Jewish Case for Equality in Israel-Palestine.”
314 Scheindlin and Waxman, “Confederalism,” pagg. 86-88.
315 Risoluzione delle Nazioni Unite numero 181 (II), Future Government of Palestine, November 29, 1947 <https://documents.un.org/doc/resolution/gen/nr0/038/88/pdf/nr003888.pdf? token=sOeYMA1BtcsnlnqwKO&fe=true>.
316 <https://www.alandforall.org/english/? d=ltr>.
317 Moritz Haegi, “A land for all? A glimpse into a shared future,” The Times of Israel, 22 giugno 2021 <https://blogs.timesofisrael.com/a-land-for-all-a-glimpse-into-a-shared-future/>.
318 From Conflict to Reconciliation: A new vision for Palestinian-Israeli peace. Draft for discussion (A Land for All, 2021), pag. 2 <https://www.alandforall.org/wp-content/uploads/2021/02/booklet-english.pdf>.
319 Ofra Rudner, “’Separating Jews and Palestinians Cannot Work’: Planning a Binational Confederation,” Haaretz, 3 ottobre 2023 <https://www.haaretz.com/israel-news/2023-10-03/ty-article-magazine/.premium/separating-jews-and-palestinians-cannot-work-five-books-on-a-binational-confederation/0000018a-efe6-d3af-a3ce-efe604760000>.
320 Mark Landler, “Five Miles and a World Apart, Younger Activists Dream of a New Peace Process,” The New York Times, 16 novembre 2023 <https://www.nytimes.com/2023/11/16/world/middleeast/israel-palestinians-new-peace-plans.html>.
325 Ariel Ron, “A Land for All,” The American Prospect, 17 novembre 2023 <https://prospect.org/world/2023-11-17-israel-palestine-land-for-all/>.
328 Scheindlin and Waxman, “Confederalism.”
329 Haim Yakobi, Noa Levy, Huda Abu Arqub, Alma Katz, Ofer Shinar, Muhammed Iriqat, Tamar Luster, Yael Berda, Reman Bakarat, Benedeta Berti, Two States in One Space: A New Proposed Framework for Resolving the Israeli-Palestinian Conflict (Jerusalem: Israel Palestine Creative Regional Initiatives, dicembre 2014), pag. 10 <https://issuu.com/ipcri/docs/two_states_in_one_space>.
333 Jason Adams, “Non-Western Anarchisms: Rethinking the Global Context,” Tahrir-ICN, 20 gennaio 2014 <https://tahriricn.wordpress.com/2014/01/20/non-western-anarchisms-rethinking-the-global-context/>.
334 Shuli Branson, “No State Solution: On Social War, Israel, and the Alibi of the State,” Patreon, November 22, 2023 <https://www.patreon.com/posts/no-state-93346904>.
335 “The No State Solution: A Dialogue with Palestinian sociologist Mohammed Bamyeh & Israeli political scientist Uri Gordon.” Trascrizione di un’intervista in diretta con Jason Guille del 22 gennaio 2024 in territorio irredento di Lekwungen nella cosiddetta occupata “Victoria, BC, Canada” <https://anarchistnetwork.info/wp-content/uploads/2024/05/ANVI-NoStateSolution.pdf>. Preso dalla rivista, riformattato e pubblicato presso The Anarchist Library <https://theanarchistlibrary.org/library/mohammed-bamyeh-uri-gordon-the-no-state-solution>.
337 Branson, “No State Solution.”
338 John Restakis, Cooperative Commonwealth & the Partner State (The Next System Project, 2017), pag. 11.
339 Christian Iaione, “The Platform-State. Government as an enabler of Civic Imagination and Collaboration,” in The City as a Commons Papers: The founding literature and inspirational speeches (CO-Cities, LabGov et al, 2019), pagg. 32, 34.
340 Al momento di terminare questo saggio, nel mese di luglio del 2024.
341 “The No State Solution: A Dialogue with Palestinian sociologist Mohammed Bamyeh & Israeli political scientist Uri Gordon.”
345 Steven Friedman, “The Inevitable Impossible: South African Experience and a Single State” in Ilan Pappé, ed., Israel and South Africa: The Many Faces of Apartheid (London, Zed Books, 2015), pag. 277.
347 “The No State Solution: Conversazione con il sociologo palestinese Mohammed Bamyeh e il politilogo israeliano Uri Gordon.”
351 Khalidi, The Hundred Years’ War on Palestine, pagg. 237-238.
352 Wade, “The Idea of the Nation-State is Synonymous With Genocide.”