Di Kevin Carson. Articolo originale: The Economist Isn’t Just Phoning It In…, del 20 maggio 2023. Traduzione di Enrico Sanna.
A quanto pare è come un disco rotto. In un articolo del 13 aprile dal titolo “The lessons from America’s astonishing economic record”, l’Economist riesce a fare un collage di tutti i luoghi comuni neoliberali esistenti. L’articolo (senza firma), andando contro il sentire comune pressoché totale che vuole che “l’economia americana sia guasta”, cerca di spiegare che, al contrario, è “una storia costellata di successi”, un “genio economico incompreso”: “Quella americana resta l’economia più ricca, la più produttiva e la più innovativa”.
Comincia, ovviamente, con il feticcio degli apologeti del capitalismo neoliberale di tutto il mondo: il pil.
Nel 1990 gli Stati Uniti rappresentavano un quarto della produzione mondiale al tasso di cambio del mercato. Trent’anni dopo, pur essendo cresciuto il potere economico cinese, la proporzione è la stessa. Il dominio sul mondo ricco è impressionante. Attualmente gli Stati Uniti rappresentano il 58% del pil del G7, rispetto al 40% del 1990. In termini di potere d’acquisto, solo i ricchissimi paesi petroliferi e gli snodi finanziari godono di un reddito pro capite più alto. [Negli Stati Uniti] il reddito medio è cresciuto molto più rapidamente che in Europa occidentale o in Giappone. Anche se si tiene conto del potere d’acquisto, il reddito medio del Mississippi, lo stato più povero, supera i 50.000 dollari: più della Francia.
Chiunque conosca l’abc della statistica capisce che si tratta di castronerie in malafede. Cosa significano pil e “reddito medio”? Il pil (lasciando da parte fattori complessi come le esternalità negative e quella parte del prezzo che finisce nella rendita) non è altro che la quantificazione della ricchezza totale di un paese. Non dice nulla riguardo la distribuzione di tale ricchezza.
Quanto al “reddito medio”, basta un piccolo esperimento mentale. Mettiamo Bill Gates (sette miliardi di dollari l’anno di reddito) in una stanza con altre diciannove persone, disoccupati e senzatetto. Un’altra stanza invece la riempiamo di persone con un reddito di 50 mila dollari l’anno (più o meno il salario minimo attuale se fosse agganciato alla produttività dal 1970). Secondo chi scrive sull’Economist, il primo dei due “paesi” sarebbe di gran lunga il più ricco, un posto meraviglioso in cui vivere; anche se, a dire il vero, tutto il reddito va al 5% più ricco mentre gli altri non hanno nulla. Dire che gli Stati Uniti hanno il reddito medio più alto è come dire che chi prende il salario minimo dovrebbe essere orgoglioso di vivere tra i magnati. Chi ha un minimo di nozioni statistiche capisce subito che parlare di ricchezza o reddito medio non ha molto senso; meglio sarebbe parlare di reddito mediano. E nell’esempio della stanza con Bill Gates il reddito mediano è zero.
Particolarmente disonesto, poi, paragonare il reddito medio del Mississippi con quello della Francia. Nessuna persona con un po’ di buonsenso vorrebbe far parte del 20% più povero del Mississippi piuttosto che della Francia, per quanto i vari ricconi del Mississippi tirino su il “reddito medio”.
Dopo aver deliberatamente confuso le acque, ecco quindi che l’anonimo autore, forse perché si rende conto che sono pochi i poveri che lo leggono, fa la sua rivelazione:
Dal 1990 a oggi, il numero dei lavoratori americani attivi è cresciuto di un terzo, mentre in Europa occidentale e Giappone di un decimo. E, potrà sorprendere, ma sono cresciuti laureati e specializzati post-laurea. È vero che gli americani lavorano più ore di europei e giapponesi. Ma sono anche molto più produttivi.
L’autore vanta il fatto che 1) molti più americani che europei o giapponesi devono lavorare se vogliono sopravvivere dato che le paghe sono schifose; 2) in percentuale, sono molti di più i laureati e specializzati americani che fanno lavori umilianti perché il potere contrattuale è nullo; e 3) i lavoratori americani lavorano più ore, pur essendo più produttivi, perché i guadagni della produttività extra vanno ad amministratori e azionisti più che ai lavoratori.
Allora diciamo che l’economia americana è “una storia costellata di successi” perché in America vivono i più ricchi al mondo circondati da un mare di poveracci. Comincio a capire perché questo imbecille non ha voluto mettere il suo nome sull’articolo.
Continuiamo: “Le aziende americane possiedono oltre un quinto dei brevetti registrati all’estero, più della Cina e della Germania messe assieme.” Che tradotto significa: le aziende americane sono bravissime a ricavare una rendita da quei monopoli garantiti dallo stato che danno loro il diritto esclusivo di decidere chi può produrre una determinata cosa.
“Gli investitori che hanno investito 500 dollari nelle principali società in borsa nel 1990 oggi hanno 2.000 dollari, quattro volte quello che avrebbero guadagnato in qualunque altra parte del mondo ricco.” Sì, lo sappiamo che gli Stati Uniti sono il miglior paese al mondo per chi vive di proprietà e investimenti e non di salario. L’autore continua a girare il coltello nella piaga.
Alla fine trae qualche conclusione su come gli Stati Uniti sono arrivati a prestazioni così incredibili. Tutto starebbe a muovere il culo:
Il dinamismo fa ancora scuola. Negli Stati Uniti, è facile aprire un’attività o ristrutturarla con una pratica di fallimento. La flessibilità del mercato del lavoro aiuta il collocamento a adattarsi alle mutevolezze della domanda. Molti dei licenziati da Alphabet e altre aziende tecnologiche all’inizio dell’anno stanno già applicando le loro raffinate capacità altrove, o stanno mettendo su un’attività propria. Nell’Europa continentale, per contro, le aziende tecnologiche stanno ancora negoziando i licenziamenti, e in futuro potrebbero pensarci su due volte prima di assumere…
L’articolista non fa altro che ripetere, anche se in forma diversa, che gli Stati Uniti sono un paese meraviglioso se possiedi un’azienda o sei un investitore, mentre se sei un lavoratore dipendente è un paese di merda. Certo è facile per il padrone di un’azienda “ristrutturarla con una pratica di fallimento”, molto più di quanto non sia per uno dei Fortunati Figli dell’America appellarsi alle leggi sui fallimenti perché a causa di un licenziamento ha perso il lavoro e affonda tra spese mediche e alimenti da pagare alla moglie divorziata.
E non dimentichiamo l’espressione magica “flessibilità sul lavoro”! Scommetto che siete felici di non vivere in uno di quei paesi infestati da cose come i sindacati, la sicurezza del posto e il potere contrattuale. Se vi ha colpiti il virus woke forse pensate che tutta quella flessibilità per il lavoratore è un bene. Cosa importa se il reddito collassa perché hai perso il posto di lavoro precario e sottopagato? Guarda l’aspetto positivo: basta che ti dai da fare, che muovi il culo, e magari trovi un altro lavoro ancora più precario e pagato ancora meno!
Nel 2003, poco prima della guerra contro l’Iraq, un mezzobusto notava compiaciuto che i lavoratori statunitensi lavoravano più degli europei dalle vacanze lunghe: per la gloria nazionale e per poter inviare le loro portaerei nell’Oceano Indiano.
Allora ricordate che è proprio grazie allo sforzo di persone come voi se i miliardari europei e giapponesi abbassano il capo per la vergogna davanti a quelli americani. Non siete contenti?
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