Di Eric Fleischmann. Originale: Don’t Use the LGBTQIA+ Community to Justify U.S. Interventionism del 4 marzo 2022. Traduzione di Enrico Sanna.
Il Gay Times scriveva la settimana scorsa che, stando a “una lettera inviata il 20 febbraio a Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu”, secondo le autorità statunitensi la Russia avrebbe un elenco ufficiale di “giornalisti, attivisti e sostenitori dei diritti dei gay da punire una volta invasa l’Ucraina.” Tutto ciò è certamente in linea con il comportamento passato e presente delle autorità russe. Da quando Putin è al potere, sia il matrimonio che l’adozione gay sono vietati con emendamento costituzionale. Il governo reprime la libera espressione della comunità LGBTQIA+ e dei suoi alleati; ha anche invitato gli insegnanti di Sanpietroburgo a controllare l’uso di simboli LGBTQIA+ nei social studenteschi; e la “legge sulla propaganda gay”, come spiega Miriam Elder, “vieta l’equiparazione tra relazioni eterosessuali e gay, oltre che la distribuzione materiale sui diritti dei gay. Sono previste multe per i trasgressori, e multe particolari per gli stranieri.” Ma violenze e repressione dell’omosessualità sono realtà quotidiana di tutti i governi, nell’indifferenza del governo statunitense. L’Arabia Saudita, ad esempio, l’alleato degli Stati Uniti, dove, anche se la legge non è applicata rigorosamente, l’omosessualità è punibile con la morte. O gli stessi Stati Uniti, dove l’anno scorso “è stato stracciato il record del 2015 come peggior anno quanto a legislazione LGBTQ della storia recente, secondo un’analisi aggiornata fatta dalla Human Rights Campaign”; solo nelle prime settimane di quest’anno, 7 stati hanno proposto leggi antitransessuali. Perché allora si reagisce diversamente di fronte all’elenco del governo russo? Perché serve all’impero americano per convincere liberali e progressisti a sostenere un potenziale futuro intervento in Ucraina. È uno strumento importante che il governo statunitense ha attivato da quando Putin ha effettivamente invaso l’Ucraina, Biden ha imposto le sanzioni e inviato truppe nell’Europa orientale (anche se non in Ucraina) e l’Unione Europea ha approvato l’ingresso dell’Ucraina. Un conflitto tra le due superpotenze è, nonostante le promesse attuali di Biden, una possibilità reale.
Ricorda la prassi di cooptare il discorso femminista nel tentativo di giustificare le incursioni in Medio Oriente. Jyhene Kebsi ricorda che una delle “bugie usate dall’amministrazione Bush” per sostenere l’invasione statunitense dell’Iraq, una bugia “a cui i media non dedicarono la stessa attenzione” dedicata alle armi di distruzione di massa, fu “la cosiddetta emancipazione delle donne.” Questo fu “tra i pretesti del cosiddetto imperialismo umanitario quando la scusa delle armi di distruzione di massa cominciò a fare acqua.” La Kebsi cita l’allora sottosegretario di stato per gli affari mondiali Paula Dobriansky, che rispondendo alle critiche contro la guerra disse: “Operiamo per difendere gli interessi delle donne irachene in tutti gli ambiti, dai diritti umani alla partecipazione politica e economica alla sanità e la scuola”. A questo si aggiunse la “campagna chiamata ‘W Stands for Women’ (Traduzione equivalente: D Sta per Donna; ndt)… che mirava a presentare la guerra imperialista contro l’Iraq come un tentativo di ‘salvare e sostenere’ le donne irachene. La campagna rafforzava così la logica del ‘patriarcato compassionevole’ con cui lo stato maschile proteggeva la parte vulnerabile femminile della popolazione.” La Kebsi ricorda come a sostenere campagna ci fossero numerose “femministe liberali americane”, le quali “femministe liberali americane e bianche distorsero l’immagine della guerra in Iraq presentandola come una missione volta a ‘aiutare’ le donne irachene, e sostennero lo sforzo di Bush che utilizzava la retorica femminista per far passare l’emancipazione delle donne irachene per una questione di sicurezza nazionale.”
La tattica fu resa pubblica da un rapporto della Cia diffuso da Wikileaks nel contesto afgano, in cui si delineava una strategia di pubbliche relazioni che enfatizzasse la questione dei diritti delle donne rivolgendosi al pubblico francese e tedesco, il tutto al fine di assicurare il sostegno di quei paesi alla missione della International Security Assistance Force. Nel documento si leggeva che…
le donne afgane potrebbero fare da messaggeri ideali, umanizzare il ruolo dell’Isaf nella guerra contro i talebani data la loro capacità di parlare personalmente e credibilmente delle proprie esperienze sotto i talebani, delle aspirazioni future e delle paure riguardo una vittoria dei talebani. Iniziative di sensibilizzazione che diano alle donne afgane l’opportunità mediatica di condividere le loro esperienze con le donne francesi, tedesche e in generale europee, potrebbero aiutare a vincere lo scetticismo diffuso tra le donne dell’Europa occidentale riguardo la missione Isaf.
Simili strategie sono proseguite fino all’ultima fase della guerra al terrorismo, che aveva come obiettivo particolare l’Isil/Isis. Rania Khalek spiega come autorità e media statunitensi insistessero sulla violenza sessuale come ragione prima dell’opposizione militare all’Isis, nonostante di simili violenze fossero responsabili anche “i governi delle nazioni messe dagli Stati Uniti a capo della coalizione anti-Isis… ovvero i regimi iracheno, egiziano e saudita”. “I grandi media aziendali, velinari entusiasti, diffusero la panzana del governo statunitense che poneva i diritti delle donne in cima alle ragioni di una guerra infinita.” Il 90% degli attacchi con i droni, dall’Afganistan al Pakistan, dallo Yemen alla Somalia, ha ucciso civili. L’ambasciatrice statunitense per le questioni femminili Catherine Russell dichiarava a suo tempo: “Queste donne e ragazze avrebbero preferito essere uccise dagli attacchi aerei piuttosto che subire le violenze dell’Isil.”
Ormai dovrebbe essere chiaro che l’utilizzo della retorica femminista e dei diritti dei gay al fine di evitare le critiche, se non per cercare il sostegno, alla guerra in Medio Oriente, ha molto in comune con la strategia nascosta dietro le presunte informazioni trapelate che parlano di un governo russo con una lista di attivisti LGBTQIA+ da punire. Già in passato ci si è serviti sia del femminismo che degli attivisti LGBTQIA+ per giustificare gli interventi militari. Mentre associazioni come Gay Liberation Network (già Chicago Anti-Bashing Network), in linea con la femminista Code Pink, organizzavano l’opposizione alla guerra in Iraq, Mubarak Dahir si sentiva in dovere di appellarsi agli LGBTQIA+ interventisti e alleati dalle colonne del giornale queer Windy City Times di Chicago. “Gay e lesbiche che approvano la guerra e l’occupazione dell’Iraq,” scriveva, “o qualunque possibile azione militare futura contro paesi come la Siria, dovrebbero smettere di usare la scusa della simpatia verso i gay arabi per giustificare il loro sostegno. […] Non è difficile capire perché i sostenitori della guerra che si rivolgono alla comunità gay, lesbica, bisessuale e transgender parlano di libertà degli LGBT nel tentativo di conquistare il loro appoggio… ma noi non dobbiamo farci ingannare da questi finti pietismi.” L’atteggiamento potrebbe ricollegarsi alla pratica “omonazionalista” (Jasbir K. Puar), termine che indica la tendenza e/o la prassi di minimizzare l’omofobia e la transfobia dei paesi “occidentali” evidenziando le loro politiche a favore degli LGBTQIA+ (visto il loro presunto progressismo e egalitarismo), in opposizione al “non occidente” presunto omofobico e transfobico. Il tutto al fine, nel caso degli Stati Uniti, di riempire di significato l’eccezionalismo americano e l’interventismo perpetuo sia in Medio Oriente che, ora, potenzialmente, anche contro la “orientale” Russia.
Che l’affare della lista antigay sia intenzionale o meno, il fatto che sia finita all’Onu significa che serve come minimo a guadagnare l’approvazione di un’azione militare, e ora che è di dominio pubblico verrà quasi certamente usata per spingere liberali e progressisti a sostenere un potenziamento delle interferenze statunitensi in Ucraina. Il che non significa che i timori per la comunità LGBTQIA+ ucraina non siano infondati. Lo stato russo rappresenta effettivamente un pericolo per la libertà e la sicurezza delle minoranze sessuali sia in Russia che in Ucraina. L’azione di Putin non è legittimata né meno crudele e violenta perché il governo statunitense fa propaganda. “Non ci illudiamo riguardo lo stato Ucraino,” dice Autonomous Action states, “ma è chiaro chi è l’aggressore, questa non è una guerra tra mali equivalenti. Questo è fondamentalmente un tentativo del governo autoritario russo di risolvere i propri problemi interni vincendo ‘una guerricciola vinta e annettendosi dei territori’ [con riferimento a Ivan III].” Noi, non come governo ma come abitanti degli Stati Uniti, dobbiamo appoggiare l’autodifesa del popolo ucraino e i movimenti contro la guerra in Russia, soprattutto quelli popolari. Ma questa non giustifica il coinvolgimento degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono un impero in agonia, e Putin vorrebbe trasformare la Russia nella nuova superpotenza egemone allungando le mani sull’Europa. Una guerra con la Russia significherebbe il blocco delle forniture petrolifere per l’Europa, il che darebbe la possibilità al governo statunitense di utilizzare l’oleodotto che passa nei territori indigeni come leva economica. Per non dire delle quotazioni in borsa dei fabbricanti di armi. Le ragioni di una guerra sarebbero tantissime, ma nessuna ha a che fare con la protezione della comunità LGBTQIA+ ucraina. Facciamola finita con le pagliacciate. Non usiamo la nostra comunità per giustificare un intervento degli Stati Uniti.