Di Jason Lee Byas. Originale pubblicato il 7 dicembre 2020 con il titolo Against the Criminal Justice System, Pt. IV: Free All Prisoners. Traduzione di Enrico Sanna.
Gli ultimi tre articoli di questa serie riguardavano l’ingiustizia della pena e del diritto penale, e la giustizia di un sistema d’illecito civile puro basato sul risarcimento. Quand’anche la pena in sé fosse legittima, però, esistono sempre ragioni per rigiutarla come principale strumento punitivo attuale. Si possono criticare le carceri, soprattutto quelle statunitensi attuali, da varie angolature. Per la loro inerente tendenza agli abusi, ad esempio, o per come alimentano il recidivismo (ex detenuti che ricadono in comportamenti criminali), o per come distruggono famiglie. C’è poi l’incentivo economico che spinge i sindacati dei secondini e i proprietari delle carceri private a fare attività di lobby per criminalizzare sempre più azioni. Basterebbero questi fattori combinati a garantire di per sé l’abolizione del carcere, ma è bene insistere sui suoi aspetti più immorali: una condanna al carcere è una condanna alla schiavitù. Data la pesantezza del giudizio, è bene spiegare subito cosa intendo per “carcere”. Non sempre il confinamento forzato è il carcere, e anzi ci sono casi in cui confinare una persona per ragioni di difesa può essere un atto legittimo. Per carcere intendo le grandi strutture in cui le persone sono confinate contro la propria volontà (solitamente assieme a tanti altri delinquenti) in risposta ad un loro crimine, senza che sia garantito loro il diritto ad essere trasferiti in altro luogo capace di mantenere lo stesso grado di confinamento e con un controllo totale dell’amministrazione sui detenuti. Questa struttura ideale non sarebbe adeguata a soddisfare tutte le condizioni, ma basta a darci un’idea generale dell’oggetto della discussione e della differenza rispetto al confinamento inteso in senso più generale. Quanto alla schiavitù, la sua caratteristica distintiva non è la violenza fisica. Se così fosse, diremmo che uno schiavo che non ha mai subito violenze non sarebbe uno schiavo, o che tutte le vittime di violenza fisica sono schiavi. Né possiamo affermare, al contrario di Nozick, che è schiava una persona privata del prodotto delle proprie fatiche. Perché allora chi è stato rapinato sarebbe uno schiavo. Né possiamo affermare che uno schiavo a cui è permesso utilizzare in tutto o in parte ciò che produce in realtà non è uno schiavo. Ciò che contraddistingue la schiavitù è il fatto che lo schiavista reclami il diritto di fare dei suoi schiavi ciò che desidera, senza il consenso degli schiavi stessi. È la relazione che permette allo schiavista di prendere a suo piacimento poco o tanto di ciò che lo schiavo produce, o di torturarlo per una qualunque ragione. In breve, si ha schiavitù quando una persona ha un diritto di proprietà su un’altra persona. E in carcere, il detenuto è a tutti gli effetti proprietà dell’amministrazione carceraria. Se gli amministratori ritengono che il detenuto abbia disobbedito, si riservano il diritto di punirlo immediatamente, talvolta con pratiche generalmente considerate torture. Se l’amministrazione non approva che il detenuto possieda certi beni, può dichiarare quei beni contrabbando. Se l’amministrazione è stufa dello sciopero della fame, può ricorrere all’alimentazione forzata.
Si potrebbe obiettare però che i detenuti, a differenza degli schiavi, hanno ancora alcuni diritti. Pur essendo spesso ignorati, questi diritti danno l’impressione che il detenuto non sia proprietà dello stato.
Ma il fatto che ci siano regolamenti che stabiliscono l’uso che un detenuto può fare di qualcosa non significa che questo qualcosa non sia legalmente proprietà sua. E dopotutto neanche gli schiavisti di un tempo potevano fare quello che volevano con gli schiavi. Certo raramente quelle leggi erano applicate, ma anche in caso di applicazione costante non avrebbero significato libertà.
La condizione di schiavitù dei detenuti purtroppo si vede anche da ciò che si dice di loro. Circolano molte battute sugli stupri in carcere. La violenza in particolare è accolta con indifferenza se non approvazione. Generalmente, il detenuto non è visto come persona.
Negli Stati Uniti esiste tutta una serie di imbarazzanti nessi storici tra la schiavitù e le origini del sistema carcerario. Come dice Angela Davis nel suo breve ma incisivo Are Prisons Obsolete?, il diritto penale fa sì che lo sfruttamento razziale continui anche dopo l’abolizione della schiavitù. Il primo passo furono i cosiddetti black codes, che dichiararono illegali per i neri tutta una serie di comportamenti, dal porto d’armi all’abbandono del posto di lavoro. Se poi guardiamo al carcere di oggi, che ancora sfrutta i detenuti come manodopera artificialmente a basso prezzo, che ospita prevalentemente persone di colore e che in certi casi si trova in ex piantagioni di schiavi, arrivare a queste conclusioni non è difficile.
Ma una critica del sistema carcerario statunitense, pur se importante, non dev’essere enfatizzata troppo. Che le carceri siano una forma di schiavitù è un fatto extrastorico, non è specifico degli Stati Uniti.
Nils Öberg, direttore del sistema carcerario e del sistema di libertà vigilata svedese, illustrando l’importanza della riabilitazione, ha spiegato che “compito dell’istituzione non è la punizione. La punizione è la condanna al carcere, la privazione della libertà. Punizione è il fatto che stiano con noi.”
Anche quando le carceri sono descritte nei termini più umani, c’è sempre l’ammissione velata che incarcerare è come schiavizzare. Öberg è serio quando dice che il governo si limita a privare il detenuto della libertà, e che tutta la punizione sta nel tenerlo in carcere.
Ma nonostante le buone intenzioni di Öberg, non basta che uno schiavista sia educato con i suoi schiavi, o che ne abbia a cuore la sorte. La schiavitù, in qualunque forma si presenti, dev’essere abolita, non riformata.
E noi siamo ben lungi dall’abolire le carceri, la pena, il diritto penale, o anche dall’istituire un sistema basato sull’illecito penale che ruoti attorno al principio del risarcimento della vittima. Allora come far sì che ciò che ho detto influisca sul nostro modo di considerare la realtà? A conclusione della serie, il prossimo articolo cercherà di dare qualche risposta.