Di Rai Ling. Originale pubblicato il 23 settembre 2019 con il titolo Postmodern Discourse in the Corporate Boardroom. Traduzione di Enrico Sanna.
Ad un recente incontro d’affari ho capito come le gerarchie aziendali portino spesso a distorsioni della realtà e ad una concorrenza a somma negativa. Come analista, elaboro “quadri operativi” che forniscano istruzioni attendibili ad amministratori aziendali. Serve la collaborazione di vari dipartimenti per poter creare nuove pipeline di dati costantemente aggiornate. Essendo alle prime armi, non mi aspettavo di dover passare gran parte del tempo a dribblare tra i malumori dei vari uffici, una cosa che i più anziani sembrano dare per scontato. In parole di David Graeber, sono diventato una sorta di duct taper.
In sostanza, questa era la situazione: l’azienda pensava di commercializzare un nuovo prodotto da destinare all’attuale clientela. Occorreva calcolare la differenza in termini di profitto tra il prodotto più simile già in produzione e il nuovo; magari cannibalizzando il primo. A supporto del nuovo prodotto è stato assunto un nuovo manager con una certa esperienza, mentre il personale specializzato nella vendita e nello sviluppo del vecchio prodotto avrebbe dovuto essere riqualificato e messo a lavorare al nuovo prodotto. L’azienda non intendeva dismettere immediatamente il vecchio, solo eliminarlo gradualmente.
Fu ingaggiata una ditta esterna di consulenza per calcolare il profitto del nuovo prodotto. Questo era compito mio, una cosa relativamente facile. Gli amministratori volevano anche l’andamento delle vendite con il team attuale, a titolo orientativo.
C’erano vari interessi da considerare nel contesto. Primo, il direttore delle vendite voleva tenere il suo posto di lavoro il più a lungo possibile, voleva mantenere i suoi numeri nel breve-medio termine e mettersi in buona luce davanti agli amministratori. Secondo, gli amministratori volevano massimizzare il profitto così da gonfiare i loro bonus, un obiettivo che secondo la nostra analisi era in conflitto con gli interessi del direttore delle vendite. Il mio capo, infine, voleva mantenere alta la sua reputazione di persona che fornisce informazioni accurate agli amministratori, che, come lui sapeva, avrebbero potuto farci fuori e crearci problemi.
Terminato il quadro, l’ho inviato agli interessati “di basso livello” per assicurarmi che i dati fossero giusti. Sono stato chiamato immediatamente dal capo delle vendite che, terrorizzato, mi diceva che i miei numeri erano sbagliati. Dopo qualche noioso botta e risposta con chi fornisce i dati delle vendite ai vertici aziendali, è apparso evidente che esistevano diversi modi di rappresentare la produttività che mettevano in diversa luce il team delle vendite. I miei numeri non erano sbagliati, semplicemente non facevano gli interessi del direttore delle vendite. Esisteva un’infinità di modi per definire il profitto secondo i costi e le categorie di guadagno che venivano esclusi.
Naturalmente, il direttore delle vendite vedeva di buon occhio quelle sistemazioni che facevano risaltare l’efficienza della sua squadra perché questo avrebbe dissuaso la dirigenza dall’introdurre il nuovo prodotto, tagliando le sue provvigioni, se non licenziandolo. E però per fare un confronto accurato e massimizzare i profitti dovevamo verificare la redditività dei due prodotti con lo stesso metodo, altrimenti era come confrontare mele con arance. Contestarono anche gli aiuti, con la squadra delle vendite che sosteneva che si dovessero escludere certe persone perché presto sarebbero state comunque licenziate.
Dopo molti battibecchi, e con mia sorpresa, il mio capo e il direttore delle vendite giunsero ad un “compromesso” tra due contrastanti versioni della realtà, una supportata dai dati e l’altra dall’istinto di conservazione. Informazioni esatte, ma non abbastanza da creare problemi. In sostanza, decisero di comune accordo di confondere i numeri (giusto un po’). Certo non dissero esattamente così, ma alcuni numero furono generosamente arrotondati, i ricavi totali definiti in modo diverso da quello usato dai consulenti, e diverse persone escluse dal conteggio finale. Questo fece salire la produttività della squadra abbastanza da assicurarne la permanenza, ma non così tanto da destare sospetti negli amministratori poco avvezzi a queste cose. I numeri finali erano un po’ più bassi di quelli calcolati dai consulenti. A beneficiarne fu per primo il direttore delle vendite, ma non la sua squadra, che fu spostata alla vendita del nuovo prodotto. Dopo una settimana di incubo burocratico, il mio capo mi diede un consiglio prezioso per la carriera: “Fai sempre contente le persone con cui lavori.”
Nel contesto del capitalismo questo consiglio è ad un tempo saggio e banale. Per quanto riguarda gli impiegati, mantenere buone relazioni con i capi e i colleghi assicura stabilità lavorativa e dà la possibilità di fare carriera e guadagnare di più. Crea però anche una mentalità che può portare ad esternalità negative per l’organizzazione nel suo insieme.
Nel nostro caso, gli incentivi perversi e sfasati ebbero come effetto alti costi in termini di tempo e denaro. L’azienda spese oltre 200.000 dollari in consulenze, con risultati incerti. Noi passammo una settimana a litigare sulle parole e rifare i numeri. Date le differenze finali in termini produttivi, è poco probabile che gli amministratori decidano di investire di più nello sviluppo di nuovi prodotti e di fare i necessari cambi di personale. I costi di queste decisioni sbagliate e del rallentamento della transizione saliranno a milioni. L’aspetto ironico è che la squadra che analizza i dati avrebbe dovuto segnalare gli sprechi all’amministrazione. Invece siamo stati ingaggiati per contribuire ad aumentarli.
Sotto la patina dell’elegante realtà certificata dei rapporti annuali e del materiale di marketing si celano illusioni in lotta tra loro per la supremazia. È raro il mercato in cui non ci siano informazioni imperfette, ma la cosa peggiora nelle istituzioni capitaliste a struttura gerarchica, dove i manager competono con i lavoratori, oscure concentrazioni di potere privato sono protette dallo stato, e i politici hanno tutto l’interesse personale a sviare l’attenzione della base elettorale. Parimenti, semplici dati statistici sono molto più complessi di quanto non appaiano. Tempo fa, ho lavorato ad una consulenza esterna per un progetto infrastrutturale finanziato pubblicamente (in cui sono rimasto scottato). Il progetto prevedeva la raccolta e l’elaborazione di complesse e incomplete informazioni sulla località prescelta al fine di far apparire la spesa come se questa andasse a vantaggio di aree rurali e piccole imprese. Il risultato finale, una mappa interattiva che avrebbe dovuto dimostrare l’impatto economico del progetto, presentava dati reali fortemente distorti. Gran parte dei soldi andarono a grosse società di consulenza con amicizie politiche delle grandi città.
La realtà ufficiale è tanto più distorta quanto più il capitalismo è irresponsabile e controlla la popolazione dall’alto, come dimostra l’attuale discussione politica sulla post-verità. I dati aziendali non servono necessariamente ad informare un processo decisionale razionale, ma a giustificare imperativi predeterminati che hanno il compito primario di cementare dinamiche di potere costituito. Nella mia esperienza aziendale ho scoperto che un aspetto comune non è l’adattamento delle conclusioni ai dati ma il contrario. Non si tratta di semplici dati inquinati e di modelli proiettivi ipersemplificati, ma di un panorama drasticamente postmoderno in cui la realtà empirica è distorta dal potere. È un tema ricorrente nella letteratura anarchica, ma è irritante ritrovarsi in questo laboratorio della realtà a manipolare dati usati da altri come base delle proprie decisioni. Altri come me hanno avuto esperienze simili:
Quello che non capivo era il fatto di dover per forza adattare l’analisi ad una conclusione. In un caso, la questione che ero stato chiamato a risolvere aveva una soluzione chiara e univoca… Ma il cliente non voleva analisi in contraddizione con le sue, e il mio capo mi disse che non era il caso di mettere in questione quello che il cliente chiedeva.
Ovviamente, le informazioni distorte generano sprechi. Secondo le stime, gli sprechi gestionali costano all’economia statunitense tremila miliardi l’anno. Le grandi aziende possono assorbire facilmente questi pesanti costi, ma occorre considerare gli enormi costi di opportunità. In un’economia anarchica, dominata da forti beni comuni e agili cooperative di lavoratori, i risparmi derivanti da una produzione più efficiente andrebbero a beneficio dei lavoratori e creerebbero interazioni a crescente somma positiva. Un miglior processo decisionale diffuso a tutte le unità produttive darebbe benefici enormi a livello globale.
A questo punto qualcuno potrebbe dire che una soluzione possibile sarebbe la creazione di un corpo centrale che renda trasparenti i flussi informativi, ovvero sarebbe meglio creare un sistema concettualmente chiaro che eviti i rapporti di forza e assicuri un’informazione accurata, con i quadri che controllano gli impiegati, gli esecutivi che controllano i quadri, gli amministratori che controllano gli esecutivi e lo stato che controlla il consiglio di amministrazione. Ma è una proposta che incappa in problemi di informazione ed è esattamente ciò che abbiamo ora solo con controlli più stringenti. In una grossa azienda con migliaia di dipendenti è impossibile che i dirigenti tengano d’occhio ogni cosa. Proprio per questo il direttore delle vendite e il mio capo non avevano problemi a adottare metodi generosi per calcolare la produttività; perché la dirigenza non se ne sarebbe mai accorta. Un potere più intransigente, dall’alto, non eliminerebbe i sottostanti conflitti d’interesse, servirebbe solo a cacciarli nell’ombra e alienare i lavoratori che già non sono più padroni della loro vita. Anche nel mio caso, ad esempio, il mio capo non sa bene o non capisce tutto quello che faccio. Un trucco usato da molti miei amici consiste nel far finta di dover terminare un lavoro e passare il tempo leggendo articoli o ascoltando podcast in attesa di un nuovo compito. Controlli più stringenti per evitare questo genere di comportamento sarebbero costosi e farebbero crescere stress e mal di pancia.
In un’organizzazione gerarchica ci sono incentivi contrastanti a tutti i livelli proprio per via della struttura gerarchica. Da questi contrasti nasce la necessità di eliminare le discrepanze in fatto di contatti e interessi personali così da poter facilitare l’azione. In Bullshit Jobs Graeber spiega in dettaglio queste inefficienze; figure da lui chiamate flunkies, goons, box tickers, duct tapers e taskmasters servono rispettivamente a validare, proteggere, giustificare, riprodurre e muoversi dentro il potere. Questi lavori stronzi sono perfettamente inutili. Il mio lavoro non rientra nella categoria, ma ci sono alcuni aspetti che posso definire stronzi e che esistono a causa della struttura gerarchica dell’azienda.
Incentivi e informazioni contrastanti, pur essendo inevitabili, in una cooperativa in cui tutti i dipendenti hanno lo stesso interesse non creerebbero gli stessi livelli di spreco e inefficienza. Nell’introdurre un nuovo prodotto, ad esempio, il direttore delle vendite non rischierebbe la sostituzione, mentre il personale potrebbe dire la sua riguardo i piani di transizione e investire nella propria riqualifica se necessario. In un’azienda capitalista, gli interessi dei lavoratori non corrispondono a quelli dei dirigenti, ma ne sono subordinati, il che crea incentivi perversi che incoraggiano frodi e inganni. Un’impresa organizzata attorno al consenso e la delega dei ruoli sarebbe molto più efficiente, meno stancante e meno alienante.
Grazie a questa e ad altre azioni, le piccole, agili reti di produttori sono più efficienti delle grosse aziende burocratizzate. Anche grazie alla maggiore trasparenza, alla concorrenza più agguerrita e ai costi più bassi per la logistica tipici delle piccole aziende.
A favore della grande produzione resta l’economia di scala, quando i costi fissi sono distribuiti su più unità di produzione, così che i costi marginali calano al crescere della produzione. L’argomento è già stato affrontato da Kevin Carson, che evidenzia il problema della conoscenza, discusso qui, l’alto costo dei macchinari da ammortizzare con la distribuzione di massa, costi logistici e promozionali, tutto imposto dall’enorme quantità di prodotto da vendere. Se il capitale fisso fosse un bene comune condiviso, si potrebbero contenere sia i costi delle economie diffuse di scala che la concorrenza. Come spiega Carson, una produzione decentrata avrebbe subito la meglio sulle organizzazioni centralizzate e burocratizzate se non fosse che l’attuale mercato capitalista, fortemente sovvenzionato, dedica una grossa porzione delle proprie capacità alla riproduzione delle concentrazioni di potere.
Incentivi conflittuali creati dalle strutture gerarchiche generano informazioni inutili e sprechi che potrebbero essere limitati a tutto vantaggio dell’efficienza e, quindi, della tranquillità personale. Le “idee basate sui dati” sono spesso più un espediente di marketing che una vera fonte di valore per l’economia. In realtà, se si sfruttassero i dati senza distorsioni l’efficienza ne guadagnerebbe come non mai.