(Ma non mi pento di averla usata)
Scritto da un cittadino di Austin. Originale pubblicato il 23 marzo 2018 con il titolo Why I Hate the Word Terrorism (But Don’t Regret Using It). Traduzione di Enrico Sanna.
Voglio essere sincero. Odio la parola “terrorismo”. La trovo troppo caricata, troppo politicizzata, viene usata per giustificare la violenza e i soprusi dello stato contro i cittadini. Per certi versi, vorrei che scomparisse.
La cosa potrebbe sorprendere qualche mio amico. Quando c’è stato l’attentato di Austin non ho esitato a chiamarlo terrorismo, e ora che l’autore è stato identificato, sembra ovvio chiamarlo chiamarlo terrorista. Ci sono state reazioni alla necessità di chiamarlo terrorismo, da conservatori e moderati che dicono di non vederci una chiara ragione politica, ma anche da qualcuno a sinistra che sostiene che non abbia molto senso reclamare la parola terrorismo contro l’estrema destra.
Forse è meglio che mi spieghi, cominciando da cosa intendo per terrorismo.
Nelle settimane successive l’undici settembre 2001, mentre gli americani riprendevano familiarità con il terrorismo dopo gli anni Settanta, un professore disse che una guerra al terrorismo non aveva senso. Disse che il terrorismo era una tattica, l’uso particolare di attacchi mirati per spaventare la popolazione in generale. Approvavo la definizione, significava che chiunque poteva fare del terrorismo per qualunque ragione. E la ragione era irrilevante. Non eravamo chiamati a dare un peso politico al farfugliare confuso di persone come Unabomber o Dylann Roof.
Lo stesso effetto l’ho visto negli attentati di Austin. Già al terzo attacco potevi vedere l’incertezza mortale calare sulla città. Ha cominciato con i neri e i bruni e poi si è diffusa, finché un qualunque rumore, uno scoppio bastava a generare post sui social e far correre le ambulanze. Una cosa che ho notato è che la gente non sapeva come definirlo. Non avevano mai sperimentato il terrorismo, e non sapevano come chiamarlo. Io ho usato la parola terrorismo così che anche loro potessero usarla. È terrorismo, avete perfettamente ragione a provare spavento. È quello che cercano di ottenere con gli attentati. Ma come li combattiamo?
Non “prendendo i terroristi”. Anche dopo la morte dell’attentatore, la paura di altri attentati è rimasta. La facilità con cui il terrorismo raggiunge i propri fini è tutta qua: tu prendi l’attentatore ma la paura rimane.
Il terrorismo si combatte con la risoluzione. Si combatte aiutando le vittime e insegnando a vedere un possibile attacco. Si combatte affrontando gli attentatori o i possibili attentatori. Anche se sono in casa tua o nel tuo quartiere. Ma, cosa molto importante, il terrorismo si combatte continuando a vivere la propria vita. Dimostrando che la comunità è più forte degli attentati e della paura che si vuole generare.
L’ho chiamato terrorismo perché quando sai cosa ti sta succedendo diventi più forte. Il mio obiettivo sono le vittime, le vittime dirette e la popolazione in generale. L’ho chiamato terrorismo pur sapendo benissimo che potrebbe essere la caricatura dei peggiori nemici di Trump: un immigrato senza documenti che è anche membro dell’Isis e dell’MS13, antifascista e attivista della Gay Straight Alliance.
L’attentatore per me è irrilevante, così come le sue ragioni. Non mi interessa sapere se lo ha fatto perché era un suprematista bianco, un socialista, un islamico, o perché gli piaceva fare Joker.
E ancora non mi interessa. Non mi interessa sapere chi è l’attentatore di Austin. Che idee politiche aveva, dove era cresciuto, a quali gruppi apparteneva. Se era simpatico. O anche cosa lo spingeva a fare terrorismo. Ha annullato la mia capacità di empatizzare o di capire quando ha messo la prima bomba.
Di sicuro non voglio partecipare alla “Guerra al Terrore” americana. Ho visto cosa produce e non voglio partecipare. Non la voglio vedere in Yemen, lungo il confine americano, nella parte est di Austin; e neanche a Pflugerville.
La mia attenzione, il mio cuore, è nella mia città, che ha appena subito un attacco terroristico. Adesso piangiamo i nostri morti, curiamo le nostre ferite, e combattiamo duramente per i vivi.
Non mi interessa un dibattito per capire se l’attentatore era un “vero terrorista”. Se la parola terrorismo può dare una mano a chi soffre, allora la uso. Altrimenti, non vedo perché dovrei usarla. Quello che vorrei dire ora è quello che ho detto con alcune persone, dopo la conferma che l’attentatore si era fatto saltare in aria. Una persona ha ammesso di sentirsi in colpa per essere felice. “La parola esuberante non basta a descrivere quello che sento ora,” ha detto un’altra amica. Io ho chiesto: “La parola tranquilla va bene?” E lei: “La preferisco.”