Di Dawie Coetzee. Originale: “Car Culture”: Just Stop, del 12 agosto 2022. Traduzione di Enrico Sanna.
Nel corso della Conferenza in Memoria di Rothbard, Rothbard’s “Left and Right”: Forty Years Later, del 2006, Roderick Long illustrò brillantemente così l’anticoncetto del termine pacchetto randiano:
“Poniamo che io inventi una parola, xaxlebax, a cui attribuisco il significato di ‘sfera di metallo, come il monumento a Washington’. Proprio così: ‘sfera di metallo, come il monumento a Washington’. Insomma, incorporo nella definizione un esempio improprio. Poniamo ora che qualche sottogruppo linguistico adotti il termine xaxlebax per significare sia ‘sfera di metallo’ che ‘qualcosa come il monumento a Washington’. Tutto bene, se non fosse che la mia definizione incorpora entrambe le cose e quindi contiene il falso assunto secondo cui il monumento a Washington è una sfera di metallo. Pertanto l’uso della parola xaxlebax, con il significato che le ho attribuito io, comporta un falso assunto per il parlante. Questo è ciò che la Rand chiama termine pacchetto.”
Long continuava spiegando che il termine capitalismo, nella sua accezione comune e probabilmente anche in quella di Ayn Rand, è un termine pacchetto. Noto con piacere che nel frattempo la parola xaxlebax è entrata nel lessico di molti anarchici. Kaile Hultner, ad esempio, definisce xaxlebax le bufale giornalistiche. Io propongo di definire xaxlebax la cultura dell’auto.
Se cerco su internet l’espressione, virgolettata, “America’s love affair with the automobile” (la storia d’amore tra l’America e l’auto, ndt) saltano fuori 11.000 risultati. Il primo risultato fa risalire l’espressione ad un programma televisivo del 1961 sponsorizzato dall’industria chimica DuPont, allora uno dei principali azionisti della General Motors che aveva un forte interesse a far apparire il dominio dell’auto nella mobilità urbana un fatto spontaneo e naturale. Parimenti in rete abbondano i riferimenti alla cultura dell’auto, e quasi sempre con un significato implicito fortemente coerente. Ma è difficile trovare una definizione esplicita, meno ancora una che rifletta il significato che le do io. Perché se dovessi darne una definizione, sarebbe quella di un xaxlebax, ovvero: “passione popolare per l’automobile che crea un’eccessiva dipendenza strutturale dalla mobilità veicolare privata.”
Con tutto rispetto per il professor Long, poniamo che un sottogruppo linguistico adotti il termine cultura dell’auto per intendere sia “passione popolare per l’automobile”, che “ciò che causa un’eccessiva dipendenza strutturale dalla mobilità veicolare privata”. Niente da obiettare. Ma la definizione incorpora entrambi i concetti, celando così il falso assunto secondo cui la passione per l’automobile crea un’eccessiva dipendenza strutturale dalla mobilità veicolare. Quando si utilizza il termine cultura dell’auto nel significato che intendo io, e gran parte delle citazioni trovate su internet, si incappa in un falso assunto.
George Monbiot in questo senso è una delusione. Una delle poche persone di un certo profilo che riconoscono l’ampiezza e la gravità del problema, non riesce però a vedere la forza strutturale, spinta dallo stato, che sottostà alla questione. Giustamente riconosce che piccoli cambiamenti comportamentali non sono una soluzione, ma poi pensa che la soluzione possa avvenire grazie a grandi cambiamenti comportamentali, se necessario con la forza. In pratica: se riusciamo a sradicare la cultura dell’auto dalla testa degli appassionati del motore l’auto-dipendenza sistemica scompare. Il suo ragionamento ruota tutto attorno alla definizione confusa di cultura dell’auto di cui parlavo più su. Unica attenuante il fatto che i suoi detrattori stanno possibilmente peggio.
In molti casi, cultura dell’auto indica quella cultura popolare in cui l’automobile diventa un assioma, comprende tutto ciò che ruota attorno a chi si esalta per l’auto. Soprattutto quando parliamo di mobilità urbana, però, cultura dell’auto assume un significato diverso, ha a che fare con la pianificazione e le regole, è una cultura istituzionale in cui l’urbanistica diventa, di norma e irriflessivamente, un progettare attorno alla mobilità in automobile. C’è quindi il pericolo che si dia per scontato, inconsciamente, che gli urbanisti pianifichino la città attorno all’auto semplicemente perché la gente ha la passione per l’auto (o, peggio, perché la passione per l’auto è una sorta di verme senziente che mangia il cervello, cosa di cui loro con la loro superiorità sono immuni).
Capire la differenza tra i due sensi di cultura dell’auto significa vedere il falso assunto su cui si basano molte persone, ovvero l’idea che l’attuale conformazione urbana rifletta più o meno la volontà popolare, e non sia il risultato di una chiara, interessata pianificazione. È incredibile quanto è diffusa l’idea implicita secondo cui le autostrade urbane nascono spontaneamente come sentieri delle mucche che poi sono stati pavimentati, mentre al contrario nascono seguendo pianificazioni complesse guidate da considerazioni di genere industriale e economico, spesso dietro il condizionamento di attività economico-industriali e contro gli interessi dei semplici cittadini. Oppure prendiamo l’idea secondo cui la gente vive in sobborghi dormitorio e dipende dall’auto perché preferisce l’isolamento come bene intrinseco, e non perché decenni di regole urbanistiche hanno fatto sì che gli alloggi si trovino oggi quasi sempre in quei sobborghi.
È la stessa idea secondo cui lo stato incarna la società, come per magia; l’idea secondo cui la legge codifica, forse per amore dell’ordine estetico, ciò che la gente farebbe comunque, e non serve a costringerli a fare ciò che la maggioranza delle persone non farebbe in un milione di anni. Per qualunque anarchico questo modo di pensare vale una scomunica, ma anche noi spesso non vediamo quanto gli ordinari elementi del luogo in cui viviamo siano deformati dalle macchinazioni di stato e capitale in collusione tra loro. E così anche noi ci rivolgiamo “ai cuori e alle menti” di tutti, chiedendo risoluzioni che invece si possono trovare solo nelle circostanze.
Pertanto c’è differenza tra la cultura dell’auto popolare e quella istituzionale. La prima non è causa della seconda, per quanto si possa dire che la cultura istituzionale fa sì che quella popolare sia più diffusa di quanto non sarebbe altrimenti; più diffusa ma anche più superficiale. Vado oltre: le due forme, popolare e istituzionale, sono non solo diverse ma anche opposte. Anche se la forma istituzionale moltiplica le cause che fanno sorgere la forma popolare, la prima impedisce un approfondimento serio della seconda.
Il processo che ha portato l’automobile a diventare l’onnipresente componente base del sistema della mobilità urbana in quasi tutto il mondo è complesso. Vale forse la pena notare che quando questo processo politico-economico cominciò l’automobile esisteva già da quasi mezzo secolo. E l’auto non era poi tanto rara. Il luogo comune diffuso prima della seconda guerra mondiale, secondo cui l’auto era “un giocattolo per i ricchi”, è criticabile. Nel suo Vintage Cars 1886-1930, del 1983, lo studioso di storia dell’auto G. N. Georgano illustra lo sviluppo dell’auto a prezzi accessibili a partire dal 1895, quando De Dion Bouton presentò il suo popolare triciclo. Dice Georgano: “The Autocar, una guida inglese all’acquisto delle automobili, per il mese di febbraio del 1904 elenca non meno di 38 modelli sotto le 200 sterline, il più economico dei quali costava appena 80 sterline.” Nasce da qui la passione per l’auto, ovvero la cultura popolare dell’auto. Ma l’effetto sulla geografia e la mobilità umana, anche solo allo stato embrionale, fu nullo. E così restò per decenni.
C’era certo chi immaginava un futuro in cui l’automobile, almeno in teoria, sarebbe stata pienamente integrata nella vita, nell’industria, nell’economia e perché no anche nella politica, a livello mondiale. I profeti del modernismo immaginavano questa sorta di supercapitalismo: i mulini satanici di Blake trasformati in entità eleganti, lisce, angeliche, la cui vera natura si rivela in una violenta semplicità formale che ricorda la dittatura di Jacob Burckhardt come negazione della complessità. Le Corbusier presentò il suo progetto della Ville Contemporaine nel 1922, l’anno in cui il fascismo di Mussolini arrivò al potere. C’è una certa affinità tra il corporativismo[1] mussoliniano e il Plan Voisin,[2] il piano urbanistico sviluppato da Le Corbusier nel 1925, un piano che, se attuato, sarebbe stato mille volte più distruttivo del vandalismo del barone Hausmann degli anni 1860, quando interi quartieri di Parigi furono rasi al suolo per lasciare lo spazio a file e file di grattacieli cruciformi collegati tra loro, ovviamente, dall’automobile.
Nel 1932, Frank Lloyd Wright presenta negli Stati Uniti la sua idea di Broadacre City, anch’essa basata sull’uso diffuso dell’automobile anche se con minore accanimento impietoso. La proposta di Wright aveva affinità concettuali e estetiche con le idee di Ebenezer Howard e Frederick Law Olmstead, e con il movimento della città giardino a cavallo dei due secoli.[3] Inizialmente indifferente all’automobile, l’idea era però figlia del capitalismo, dato che il sistema salariale imponeva implicitamente una separazione rigida tra abitazione e luogo di lavoro quale componente fondamentale. Il programma urbanistico, pur contenendo in forma embrionale l’attuale città automobilistica, era piuttosto mite e casalinga rispetto all’incubo spettrale di Le Corbusier.
Le aggiunte all’infrastruttura dei trasporti del tessuto urbano di New York, proposte da Robert Moses nel 1927, sembrerebbero poca cosa se non fosse che diventarono realtà. Rappresentano il primo atto di uno stato che cercava di offrire uno spazio e un ruolo sistemico all’automobile, per quanto piuttosto timido dati i tempi. Furono gli eventi politici, parte di quell’ondata mondiale arrivata qualche anno dopo, a mettere Moses su quella strada che lo condusse a diventare, alla fine, l’arcinemico di Jane Jacobs.
La cristallizzazione del corporativismo fascista negli anni Venti era in realtà una manifestazione di quel più ampio clima intellettuale del tempo riguardante l’organizzazione dell’industria e l’economia. Una filosofia in sintonia con le implicazioni del taylorismo caratterizzava il pensiero di chiunque aspirasse allo status di intellettuale. Era di moda il centralismo, paradossalmente considerato tanto un fatto inevitabile quanto un ideale sufficientemente precario da giustificare qualunque eccesso dittatoriale. Nessuno dubitava della necessità di ridurre l’industria a poche entità di grandi dimensioni così da permettere allo stato di avere un rapporto individuale privilegiato con esse, il tutto nell’interesse di quella che James C. Scott definisce leggibilità.
Sono stati fatti dei paralleli tra la politica industriale del Terzo Reich e quella del New Deal, anche se probabilmente fu Roosevelt ad influenzare Hitler, non il contrario. Sappiamo che Henry Ford era un ammiratore di Hitler, e che Stalin a sua volta ammirava Ford e cercava di realizzare il fordismo in Unione Sovietica, per certi versi un tentativo di dare al taylorismo dimensioni sociali. Il risultato fu la nascita, nel 1929, dell’industria ad organizzazione fordista GAZ, che a partire dal 1932 produsse la GAZ-A copiando la Ford modello A.
Tutto ciò non cambiò grandemente l’ordine delle cose; fino all’istituzione del New Deal nel 1933. Fu quest’ultimo a far nascere, con la forza della legge, come se fosse una funzione legittima dello stato, la cultura istituzionale dell’auto, con un programma che creava la domanda dei prodotti di un’élite industriale del motore creando un bisogno strutturale. Fu questo a determinare la natura dell’industria dei motori, il posto dell’automobile nella mobilità e l’idea stessa di automobile, un processo poi diffusosi dagli Stati Uniti all’Europa, e dall’estremo oriente al mondo intero.
È bene sottolineare che oggi l’auto in quanto tale è semplicemente il risultato di politiche e programmi statali come questo. Non è il risultato di apporti continui da parte di innumerevoli innovatori. È il sogno del volk che ogni giorno con la propria Kdf-Wagen va avanti e indietro dalla fabbrica al bucolico ordinato sobborgo (altro che centri storici fatiscenti!) con la forza di tutti i numeri macroeconomici, tradotto in lingue diverse dal tedesco e sostenuto dalla forza delle autorità costituite. Non è frutto dell’ossessione di Fred Lanchester per “la periodicità di un uomo che cammina”, o dello studio dell’ingranaggio del Maggiore W. G. Wilson; e neanche delle intuizioni celestiali di Alphonse Forceau sulle sospensioni.
Programmi come il New Deal causarono un cambiamento profondo nell’industria dell’auto, che da un gran numero di produttori generalmente piccoli, ognuno rispondente al sistema di mobilità che trovava, passò ad un piccolo numero di enormi organizzazioni potenti le cui relazioni particolari con lo stato permisero loro di trarre profitto dalla nascita, grazie alla politica, di nuovi sistemi di mobilità adatti ai loro bisogni. Il New Deal cambiò anche lo sviluppo tecnologico dominante, generando la necessità di investimenti crescenti in tecnologia come obiettivo da perseguire, allontanando sempre più la tecnologia automobilistica dalle possibilità del piccolo artigiano. Ancora una volta, non fu un processo spontaneo! Fu un fatto sostanzialmente politico. Nel 1934 il cambiamento fu improvviso e radicale: la Chrysler Airflow negli Stati Uniti e la Citroën 7CV “Traction Avant” impiegavano entrambe tecnologie delle presse Budd, la cui caratteristica principale era il fatto di essere tecnologicamente inaccessibili. Siamo davanti a un processo di cattura delle tecnologie produttive a tutto beneficio del capitale. Ed era solo l’inizio di un processo pluridecennale. Parlavo prima degli anni tra il 1934 e il 1989 come di un’epoca controversa, durante la quale si perseguì attivamente l’idea di un’automobile come oggetto prodotto massicciamente e considerato bene indispensabile per la popolazione intera, ma c’erano paradigmi alternativi che riuscivano ancora a convivere con questa tendenza.
L’aspetto più importante della “filosofia del 1934” è il fatto di basarsi su tecnologie produttive economicamente possibili solo a livelli produttivi molto più grandi di quelli che sarebbero esistiti senza una pianificazione intesa a creare un bisogno funzionale del prodotto. La stessa possibilità di volumi di traffico che noi oggi consideriamo normali fu creata appositamente.
Col tempo il design finì per rivolgersi sempre più alla popolazione, che altrimenti non avrebbe avuto interesse per l’auto, piuttosto che a quella minoranza dotata di conoscenze tecniche. Niente di strano quindi se negli Stati Uniti, dove la recente espansione urbana soppiantò la vecchia mobilità, l’attenzione fu catturata, più di ogni cosa, da innovazioni come il cambio automatico, introdotto sulle Oldsmobile e le Cadillac nel 1939 dopo diversi dispositivi semiautomatici sperimentati da altri produttori. Fu così che l’auto, da strumento di partecipazione tecnologica, diventò un accessorio di servizio il cui funzionamento è appositamente, dichiaratamente e a tutti gli effetti alieno al possessore. Com’è ancora oggi.
Questo orientamento di massa creò una cultura popolare dell’auto? No. Quella continuava spontaneamente la propria esistenza dalla fine dell’Ottocento senza differenze significative. E avrebbe potuto continuare allo stesso modo fino ad oggi.
A partire dagli anni Sessanta, il paradigma secondo cui le auto dovevano essere per forza fabbricate a milioni cominciò ad essere fisicamente insostenibile. Creare una domanda sufficiente a soddisfare la produzione industriale significava utilizzare l’automobile con una tale intensità che certe emissioni, soprattutto monossido di carbonio,[4] crescevano più di quanto l’atmosfera non riuscisse a smaltire. A rigor di logica, il problema era l’intensità con cui si usava l’auto, ma l’opinione di chi faceva politiche industriali in tutto il mondo, in blocco, era che il problema andava risolto altrimenti. L’industria inventò arrangiamenti tecnici come la marmitta catalitica che, oltre a procurare enormi profitti a certi interessi minerari nel campo del platino, fu imposta per legge al fine di mantenere l’uso dell’auto ai livelli richiesti dagli standard delle industrie capitaliste esistenti. Questo dei requisiti legali produsse un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra costruttori, automobilisti e stato, contribuendo a ridurre l’automobilista a “puro consumatore” passivo e elevando il costruttore allo status di organo dello stato a tutti gli effetti.
Come le tecniche produttive riflettono la struttura organizzativa dell’industria, così la natura del prodotto riflette le tecniche che lo hanno prodotto. L’automobile sorta dopo il 1933 doveva necessariamente cambiare lo sviluppo tecnologico automobilistico: tranne rare eccezioni, dietro ad ogni cosa si nascondeva il fine di accrescere i requisiti di capitale necessari alla produzione, aumentando di conseguenza la produzione minima vitale. In mezzo secolo l’auto venne sviluppata, anzi rifatta, per far sì che fosse impossibile produrla se non in quantità enormi.
E qui ci troviamo: l’abbondanza è nell’idea stessa dell’auto, essenziale al suo essere. Ogni innovazione prodotta dall’industria automobilistica esistente non fa che diffondere e intensificare questa caratteristica fondamentale. Lungi dal rappresentare un punto di rottura paradigmatico, l’auto elettrica rappresenta l’apoteosi di ciò che l’auto è sempre stata fin dal 1990, se non peggio. L’auto oggi per continuare a esistere ha bisogno di città che dipendono dall’auto.
Possiamo avere l’auto elettrica senza conduttore, o possiamo avere abbastanza pedonalità da riuscire ad eliminare la dipendenza dall’auto. Non possiamo avere entrambe le cose. Temo che troppe persone vedano nella prima un’alternativa accettabile alla seconda.
Se vogliamo eliminare sul serio l’autodipendenza continuando a produrre automobili (una condizione, lo ricordo, esistente tra il 1890 e il 1930 circa), dobbiamo fabbricare automobili in maniera completamente diversa. Occorre produrne molte di meno, e questo significa produrre automobili pensate per un’intrinseca scarsità. Dato che il prerequisito della sua esistenza fondamentalmente privilegiata è l’abbondanza, non dobbiamo aspettarci nulla dall’industria automobilistica esistente. Le poche auto necessarie dovrebbero dunque essere prodotte da persone qualunque.
Oggi ci sono persone che lo fanno, e sono tante e si infilano ovunque ci sia uno spazietto da sfruttare. Subiscono le maledizioni dei sostenitori dell’urbanità perché rappresentano la quintessenza della cultura popolare dell’auto, ma non sono loro il problema. Spero invece di riuscire a dimostrare come possano essere parte indispensabile della soluzione.
La questione è importante perché ci costringe a mettere a nudo certi comuni punti deboli del pensiero riguardo l’autodipendenza. Un punto in cui mi imbatto spesso suona così: “il problema è che le auto son diventate un ricettacolo di questioni culturali di ogni genere, invece di essere un semplice strumento per andare da qui a lì”. Ma questi qui e lì, aggiungo io, devono essere in posizione tale per cui l’auto è il modo peggiore per andare dall’uno all’altro? Perché se c’è qualcosa che un’automobile non dovrebbe essere è proprio un mezzo per andare da un luogo ad un altro. Ma allora cosa dovrebbe essere un’automobile?
Ovvero, che genere di auto si avrebbe in una futura società anarchica? Ora, dato che l’attuale automobile è il prodotto di un particolare programma politico iniziato nel 1934, invito a studiare attentamente l’avanguardia automobilistica dei primi anni Trenta. Con questo non voglio dire che in una società anarchica le auto dovrebbero tornare ai primi anni Trenta, ma che potrebbe essere utile cercare di immaginare cosa avrebbe potuto accadere senza quello che è accaduto dopo, con il beneficio del senno di poi. Occorre separare le innovazioni che sono servite solo a rendere indispensabili le tecniche di produzione di massa capitalista dalle innovazioni che avrebbero potuto avere una certa utilità. Non sempre è facile farlo: alcune delle ultime innovazioni dipendono dalle prime, e devono essere ripensate. E poi bisogna sempre tener conto dei problemi strutturali sistemici. La macchina organizzativa che serve a permettere gli attuali livelli di efficienza energetica sarebbe giustificabile in un mercato in cui la domanda di combustibili è l’uno percento del livello attuale? Che importanza avrebbe l’aerodinamica senza infrastrutture pubbliche come le autostrade ad alta velocità che servono a perpetuare la dipendenza dall’auto? Io credo che vedremmo meno Aptera e più Frazer-Nash.
E tutta la questione dell’efficienza non è legata alla scarsità delle risorse? Se pensiamo che la natura sistemicamente circolare dell’industria richiede un alto tasso di consumo delle risorse, sufficiente a generare una forte scarsità, la quale poi necessita di una quantità di efficienza nelle risorse convenientemente ottenibile con mezzi tecnologici, i quali accrescono ulteriormente la capacità dell’industria capitalista di aver bisogno di un alto tasso di consumo di risorse innalzando la soglia tecnologica, e così via, ecco che la funzione dell’efficienza nell’insieme ci appare diversa. Certo, si potrebbe raggiungere la stessa efficienza altrimenti, senza la domanda generata dall’industria capitalistica; bisogna vedere se ne vale la pena.
Lo studio delle tecniche costruttive mi ha convinto della superiorità della cosiddetta soluzione al 99%, o anche 95%, si offendano pure i fan del futurismo. Un tetto con un’impermeabilizzazione dell’80% è un disastro, ma con il 100% i costi sarebbero probabilmente proibitivi e potrebbero imporre limiti che compromettono altre parti del progetto. Un tetto impermeabile al 99%, invece, è facile da ottenere: un sistema collaudato consiste nel mettere due pollici di sabbia pulita in un barattolo di caffè messo sotto il tetto laddove filtra l’acqua. L’acqua non è mai abbastanza da riempire il barattolo, e quando smette di piovere evapora. Da qui un principio generale: come diceva il mio professore di costruzioni, non sigillare, lascia che filtri ma in maniera controllata.[5] Parliamo di un’efficienza di genere diverso, che tiene conto di tutto, costi e risultati. Forse che il risparmio dato dalla rinuncia a quell’ultimo punto percentuale non conta come efficienza?[6]
È questo un altro modo di ideare, un modo che, credo, sarà di grande utilità in una futura società anarchica. Ma lasciamo perdere, divago. Il punto è che una società anarchica con poche auto è perfettamente possibile senza proibizioni, che sono una cosa antianarchica. Immagino un mondo con macchine agricole e vari altri mezzi utili, qualche mezzo d’emergenza e una vasta gamma di auto per il tempo libero, auto sportive, auto speciali, auto trucccate, motociclette, tricicli a motore, fuoristrada e ogni genere di artificio dotato di ruote di cui non si capisce il senso se non nel contesto specifico. Oltre che un bene, sarebbe un esempio di vitalità, creatività, espressività e divertimento. Niente di disprezzabile a meno che il risultato non sia smog, isolamento extraurbano e una pletora di incidenti stradali. Il che non dovrebbe accadere, se questa cultura popolare dell’auto non si trasforma in una cultura istituzionale dell’auto.
Sostengo da sempre che gli amanti dell’auto dovrebbero avere tutte le ragioni per sostenere una città a piedi e per opporsi alla città motorizzata. Non hanno alcun interesse costituito a mantenere la cultura istituzionale dell’auto, nessuno. La cultura istituzionale dell’auto ha compulsivamente cercato di far sì che le persone ordinarie non potessero contribuire in modo attivamente e tecnologicamente creativo all’automobile. Dovrebbero essere loro, gli amanti dell’auto, col loro desiderio di contribuire attivamente in modo tecnologicamente creativo, a reagire. Essi non hanno alcun interesse a provocare ingorghi, guida distratta, poliziotti pignoli, regolamenti sulle emissioni rese necessarie dall’uso intensivo politicamente imposto, regolamenti di sicurezza giustificati dal fatto che l’auto è ovunque e il suo uso è di fatto obbligatorio, né hanno bisogno di tutte le altre cose generate dalla prevalenza costante di un traffico intenso. E non hanno neanche interesse a moltiplicare le auto in circolazione, soprattutto se diffusione significa banalità. E se la cultura istituzionale dell’auto degrada il tessuto urbano, l’appassionato ne soffre non meno degli altri. Non sarebbe dunque logico che i veri amanti dell’auto e i sostenitori di una città a misura di pedone stessero dalla stessa parte?
Note
[1] Il termine corporativismo diffuso oggi tra gli anarco-capitalisti indica il capitalismo reale, dominato da grandi imprese e opposto ad un “capitalismo vero” immaginato dagli anarco-capitalisti stessi. Sotto il fascismo il termine indicava qualcosa di molto diverso: la compartimentazione dell’industria in settori al servizio dello stato, in maniera grossomodo analoga alle forze armate.
[2] È curioso come Le Corbusier avesse intitolato il suo ideale urbanistico all’amico Gabriel Voisin, pioniere dell’aviazione e poi fabbricante d’automobili. Ironicamente, la Voisin C7 di Le Corbusier rappresentava proprio quella produzione artigianale che lui cercava disperatamente di sradicare. Voisin aveva certo aspirazioni più totalitarie, la cui frustrazione spiega bene perché le sue auto sono ancora oggi affascinanti ed eccentriche.
[3] Chi volesse cercare una forma estetica adatta ad un’utopia anarchica farebbe bene a studiare il movimento Arts & Crafts di fine Ottocento, che però fallì proprio in ambito urbanistico. Il movimento aveva tendenze spiccatamente rurali, forse perché gli orrori urbani dell’industria erano particolarmente evidenti a quei tempi. C’è però da dire che nonostante la sua infatuazione per tutto ciò che era medievale non riuscì a trovare ispirazione nella ricchezza delle città medievali. Che io sappia, l’unica persona del tempo ad aver tentato un simile approccio fu l’austriaco Camillo Sitte, i cui contatti con Arts & Crafts furono al massimo indiretti.
[4] Dato un tasso di generazione sufficientemente basso, tutte le emissioni regolate per legge degradano spontaneamente in composti innocui. Di questi, il monossido di carbonio è quello che ha il tempo di dimezzamento più lungo, nell’ordine delle settimane. Se il monossido degrada naturalmente, lo stesso avviene per quantità proporzionali di HC e NOx.
[5] Torno all’automobile, in particolare al design della Citroën DS19 del 1955. Il mio professore spiegava che le scanalature ai lati della capote erano fatte in modo da far entrare l’acqua piovana all’interno della carrozzeria per poi scaricarla sopra il lunotto. In seguito ho scoperto che il sistema di sospensioni idropneumatiche era una realizzazione più sofisticata dello stesso principio. Il lento abbassarsi della DS quando era parcheggiata, cosa per cui era famosa, non era prodotto dalla resistenza all’usura delle guarnizioni idrauliche, che peraltro non aveva, ma da un rifluire costante e lento da un circuito idraulico ad alta pressione alimentato da una pompa ad un altro circuito di recupero del liquido a bassa pressione. Il fluido fluiva per gravità in un serbatoio, da cui veniva ripompato nel circuito ad alta pressione. Il sistema è molto resistente nel tempo.
[6] Per fare dell’efficienza un feticcio, per presentarla come fine in sé, spesso si esaltano incondizionatamente certi aspetti trascurando sprezzantemente tanti altri che magari sono la maggioranza. Il minimo risparmio nel punto A giustifica la spesa nei punti B, C e D perché l’efficienza di A è il punto di riferimento del progresso mentre l’efficienza di B, C e D è considerata irrilevante. Mi ricorda G. K. Chesterton che parlando dell’eresia diceva che consiste nell’esaltare a principio unico fondamentale un singolo aspetto della pratica religiosa (che fosse la determinazione del giorno di riposo settimanale, la veracità delle guarigioni miracolose, il modo di battezzare o altro) a scapito di tutto il resto.