L’oppressione è un Gioco a Somma Negativa

Di Dawie Coetzee. Originale: Oppression is a Negative-Sum Proposition, del 30 maggio 2022. Traduzione di Enrico Sanna.

Giusto una cosetta da nulla, un’inezia. Si era rotto il flessibile della vasca da bagno. L’attacco era ad angolo. Per aggiustarla bastava un gomito tra l’attacco a muro e il tubo flessibile, una di quelle cosa che si trovano facilmente in qualunque negozio di idraulica in tutto il mondo. Non mi sono sorpreso quando ho sentito il negoziante in fondo alla strada che diceva: “non ne ho”, “mai sentito”, “non esiste”.

Non mi ha sorpreso perché questa era la quotidianità nel Sud Africa bianco con l’apartheid. Dicevano “la nostra economia è troppo piccola”, dunque non potevamo permetterci certe cose, e il discorso finiva lì. Ed era troppo piccola perché era fatta in modo da escludere la stragrande maggioranza della popolazione sudafricana. Ancora oggi, ventotto anni dopo la fine dell’apartheid, gran parte dei neri sudafricani resta economicamente fuori dal gioco come prima.

E qui c’è tutto un ragionamento che la gente considera evidente. Si parte ammettendo che il colonialismo e l’apartheid non sono un’invenzione o un’istituzione di qualcuno in particolare per poi concludere: “ma anche tu ne hai avuto benefici”. Sembra incontestabile, tanta è la differenza tra la vita tipica dei bianchi e quella dei neri, qui in Sud Africa. Certo sembra di un’insensibilità criminale paragonare secoli di violenza, spoliazioni, povertà, perdita della dignità e del futuro con un problema insignificante come un raccordo idraulico introvabile. Ma a livello di logica pura e semplice, il paragone può aiutarci a capire perché la parola “benefici” è fuorviante.

Quello che viene chiamato “privilegio bianco” è, sì, una realtà innegabile, una componente cruciale di tutte le società con un passato razzista, ma la parola “privilegio” è la più adatta? Ho un gran rispetto per i quadri concettuali come la teoria critica della razza, e questa mia sembra quasi una questione di futilità semantiche. Ma le parole hanno conseguenze. Se chiamiamo il materasso “sacco di folletti” qualcuno potrebbe attribuire l’insonnia ai folletti che non stanno fermi. Questo è l’errore dei cosiddetti anarco-capitalisti.

Le critiche di destra a questo costrutto del privilegio abbondano. Non mi ci soffermo se non per dire che si basano sull’incapacità, tipica della destra conservatrice, di vedere gli aspetti strutturali. Pensa che le circostanze, se mai esistono, non siano importanti, e che tutti gli accadimenti siano casuali. La destra conservatrice capisce espressioni come “essere in difficoltà” o “fare scelte insensate”, ma non “sistematicamente oppresso”.

Le critiche di sinistra sono più rare e partono da tre basi. In primo luogo, si concentrano sul privilegio e non sull’oppressione, tendono così a minimizzare i fattori strutturali, alimentando quell’incapacità di vedere la struttura propria della destra. Esme Choonara e Yuri Prasad, in International Socialism (isj.org.uk) portano il discorso nell’ottica marxista: “Dato che l’obiettivo principale della teoria del privilegio è la disuguaglianza, tale teoria non può essere usata come arma in quella che, in ultima analisi, è una guerra contro il sistema nel suo insieme.”

Quando si parte scartando l’ipotesi della struttura quale causa dell’oppressione, non rimane che puntare il dito contro il fanatismo dei singoli: bisogna scavare a fondo nella psiche individuale, cercare assunti inconsci o falsità consce. Che non necessariamente sono lì. Anche quando, a denti stretti, si ammette l’esistenza di un problema strutturale, c’è sempre il pericolo che le sue cause vengano attribuite al comportamento individuale di aggregati di persone. Contiene più razzismo il fatto che Khayelitsha si trovi funzionalmente e geograficamente a Città del Capo che il comportamento di tanti bianchi, ed è assurdo pensare che il primo sia opera di una sorta di telecinesi collettiva inconscia da parte degli ultimi.

Secondo, il privilegio implica una situazione a somma zero. Teoricamente, il termine indicherebbe qualcosa che qualcuno deve avere, mentre nella pratica indica invariabilmente ciò che tutti devono avere. Dopotutto, dobbiamo eliminare l’oppressione, non semplicemente ridistribuirla, no? E poi dire che il privilegio è “immeritato” diventa problematico quando ci chiediamo cosa dovrebbe meritare la gente. Il diritto immeritato di non essere perseguitati dalla polizia è sbagliato anche se è un diritto uguale e valido per tutti?

Michail Bakunin aveva ragione a dire “io sono davvero libero quando tutti, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dal negare o limitare la mia, è, al contrario, il suo necessario corollario.” Per me questa non è espressione di solidarietà morale ma semplice pratica funzionale. Se la mia libertà consiste perlopiù nella possibilità di interagire collaborando con altri, ciò che posso fare è determinato da ciò che possono fare le persone con cui io posso scegliere di interagire. La mia capacità di agire è proporzionale a quella altrui. Pertanto se la libertà è fondamentalmente un gioco a somma positiva, l’oppressione, in quanto suo corollario, è fondamentalmente un gioco a somma negativa.

Qui occorre pensare al di là dei fatti: non fare un confronto tra oppressioni attuali e ricavarne un’interpretazione, ma cercare di immaginare come avrebbero potuto essere le cose in assenza di oppressione. Bisogna cercare il punto di equilibrio.

Due amici camminano per strada. Hanno dieci dollari a testa. Cadono in un’imboscata e vengono derubati di nove dollari uno e di uno l’altro. Ora hanno dieci dollari in tutto ma uno dei due ha nove volte la ricchezza dell’altro, una posizione di innegabile privilegio. Immaginiamo che perdano improvvisamente la memoria e non ricordino il furto; ciò che resta è la realtà del momento. Potrebbero calcolare un punto di equilibrio a cinque dollari. Se il più ricco dei due è un buon amico, potrebbe offrire quattro dollari per pareggiare. Ma davvero deve quattro dollari all’altro? E tolte le questioni di coscienza, possiamo dire oggettivamente che qualcuno è stato beneficiato dal furto?

Al contrario, potrebbero ricordare perfettamente di essere stati derubati. E allora saprebbero che il punto di equilibrio è dieci dollari, ovvero più di quanto possiede il più ricco. Un buon amico potrebbe investire gli otto dollari di differenza e unire gli sforzi per acchiappare il ladro e riavere i dieci dollari rubati. In questo caso, la memoria del furto non è che la “coscienza di classe” marxista ripulita del cosmicismo hegeliano. Quindi occorre sapere che c’è stato un furto prima di provare ad immaginare una situazione in cui il furto non è avvenuto.

Ora un falso amico potrebbe sfruttare le disparità dei due, conseguenza del furto, e acquisire ascendenza sul più povero. Vale il dollaro perso? A dar credito a Bakunin, se esaminiamo a fondo la situazione, il fatto che l’altro abbia nove dollari vale molto di più. Perché cos’è il potere relativo offerto da una perdita diseguale di fronte al potere assoluto offerto da un’assenza di perdita in entrambe le persone?

Terzo, come scrive Ben Burgis facendo un’analisi di questi principi, “parlare di privilegio” è polemicamente disastroso: “Una sinistra che sa solo svergognare, denunciare i privilegi e dire che chi non concorda è spinto da ragioni odiose è destinata a perdere credibilità proprio presso quelle persone che potrebbero essere avvicinate a noi dai loro interessi materiali.” Burgis conclude l’articolo così: “Come possono sperare di vincere con un’ottica del genere?”

Ma, aggiunge, non è solo una questione retorica ma anche di verità. Quando diciamo che gran parte dei presunti privilegiati hanno un vero interesse a porre fine all’oppressione degli oppressi, parliamo sul serio. Ci crediamo davvero.

Una volta, verso il 1980, sono andato in visita ai miei zii. La seconda sorella maggiore di mia madre si era sposata con un tecnico industriale ed erano andati a vivere nella città industriale di Vereeniging, oggi conosciuta come Gauteng. Mia zia aveva una grande fantasia che col tempo l’aveva spinta a trasformare il giardino in una variegata comunità di gnomi di cemento policromo. Il soggiorno aveva il soffitto così alto che sembrava angusto, e una mensola con dei quadretti ad altezza delle porte, che negli anni trenta era tipico anche di queste case modeste. Sulla mensola mio zio aveva sistemato file di bottiglie mignon. Ci riunivamo nella penombra perché la lampadina si era fulminata e mio zio quella settimana non poteva permettersene un’altra.

Di mio zio ricordo solo queste parole: “Ma ti pare?! È un k****r!” E mio padre, più progressista, che si mordeva le labbra per non creare dissenso tra mia madre e sua sorella. Seduto in poltrona, mio zio moraleggiava sugli orrori dei giovani dirigenti neri (avevano tutte le lampadine che volevano). Ovviamente, non sapeva nulla della polizia che picchia alla porta dopo la mezzanotte, e la casa devastata per divertimento, cose che anche i giovani dirigenti neri conoscevano benissimo. Mio zio non temeva di essere arrestato perché si trovava nella strada sbagliata all’ora sbagliata, per poi essere incriminato perché, tanto, punisci chi punisci purché sia uno di loro. Mio zio poteva votare, anche se solo per candidati bianchi che andavano dalla destra moderata all’estrema destra. Il suo lavoro, per quanto pagato poco, era un lavoro assicurato ai bianchi per gran parte della loro vita; e se gli andava, poteva fare il prepotente con i suoi colleghi neri senza subirne le conseguenze. Ma era soggetto alla leva militare. Aveva il dovere di difendere quello schifo di impero di terza classe in cui viveva.

Non so se era felice; dico la verità, non lo conoscevo affatto. Non so se è morto rimpiangendo sogni che neanche mille gnomi avrebbero potuto realizzare. So però che le sue strade non erano lastricate d’oro; non era servito da un esercito di servi. Il suo mondo non era il paradiso, neanche il paradiso degli sciocchi. Giusto una panchina ai giardini pubblici.

Come sarebbe stata la sua vita in una società egualitaria? Non c’è ragione per credere che sarebbe stata peggio. Sarebbe stata ugualmente una vita senza persecuzioni, come minimo. Avrebbe avuto più possibilità, una più ampia gamma di nicchie tra cui scegliere e quindi più probabilità di trovare quella giusta. Forse questo mondo gli avrebbe permesso di mettere in luce qualche talento nascosto, così da poter vivere un po’ più comodamente e con maggior sicurezza. Magari sarebbe stato più povero, ma di una povertà più mite, più conviviale, più dignitosa: avrebbe potuto avere più soddisfazioni.

Per ogni possibilità di vivere peggio, ce ne sarebbero state altre cento di vivere almeno un po’ meglio, forse molto meglio. Mio zio ha tratto vantaggi dall’apartheid? Dipende molto da cosa s’intende e dai punti di vista. Possiamo però dire che, in un certo senso, mio zio è stato oppresso dall’apartheid, anche se infinitamente meno dei suoi compatrioti dalla pelle scura. Aveva tutte le ragioni per opporsi all’apartheid e stare dalla parte dei sudafricani neri per solidarietà.

Ma non lo sapeva.

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