Di Duane Fuller. Originale: Commentary from an Anarchist Prisoner, del 18 gennaio 2022. Traduzione di Enrico Sanna.
Sono un detenuto anarchico e posso confermare quello che si dice spesso, che si può capire molto di una società guardando le sue prigioni. Guardate i suoi dongioni e ci vedrete, in forma concentrata, come in un microcosmo, il marciume di tutto il sistema. Oggi questa analogia tra il carcere e la società di cui è un riflesso contiene qualcosa di particolarmente significativo. Perché, e constatarlo fa male, siamo tutti prigionieri di una società in cui i roboanti proclami di libertà e giustizia non sono altro che retorica vuota.
Oggi, in questa nostra società, noi siamo circondati da quella stessa ricchezza, da quel progresso scientifico che non fa che promettere la libertà. La libertà è così vicina, e allo stesso tempo così lontana. Ed è la stessa sensazione che provo ora, mentre aspetto la prossima liberazione tra qualche mese e sento tutto il peso di quarantasei anni di carcere.
Chiuso in questa cella, sono qui che aspetto con impazienza il momento in cui tornerò al movimento dei miei amici compagni, a quella libertà di muovermi che mi è stata tolta in carcere. La vita che oggi vivono persone di tutte le razze somiglia in modo impressionante alla vita in carcere che ho vissuto e ancora continuo a vivere. La ricchezza e la tecnologia che ci circondano ci dicono che una società libera, umana e armoniosa è a portata di mano. Ma è anche molto lontana, perché le chiavi le ha in tasca qualcuno che non vuole aprire le porte della libertà. Siamo tutti prigionieri, costretti a vivere nell’orrore del razzismo, la povertà e le guerre, con tutte le frustrazioni e manipolazioni che accompagnano questa esistenza. Ci hanno rubato anche i sogni, la possibilità di immaginare la libertà, la coscienza che se solo avessimo le chiavi… se solo potessimo strapparle ai nostri secondini, alle compagnie petrolifere, ai fabbricanti di automobili, a tutti i giganti aziendali coi loro protettori, la razza codarda dello stato. Se solo riuscissimo a mettere le mani su quelle chiavi, potremmo trasformare le nostre visioni, i nostri sogni, in realtà. La condizione di tutti è molto simile alla mia condizione di prigioniero, ricordatelo. Perché se lo dimentichiamo, perdiamo la voglia di libertà, la voglia di lottare per la liberazione.
Questo posto distrugge ogni capacità di ragionare se l’uomo perde la fiducia nei suoi simili. Il pensiero può perdere ogni briciolo di coerenza. Il chiasso, la rabbia eruttata dalla gola, il rumore della frustrazione che viene dalle celle, le mura, le chiavi dei secondini, il baccano delle porte di ferro che si aprono e si chiudono, il suono cupo di una latrina di ghisa, gli odori, le feci per terra, i corpi sporchi di menti storpiate, il cibo marcio. I momenti di pace sono così lontani che è facile perdere la speranza. E poi le guardie con i fucili, i manganelli e i lacrimogeni. Per evitare il terrore, per evitarlo ad ogni costo.
Il terrore del carcere, la funzione sociopolitica del carcere, un terrore che si autoalimenta. Le carceri sono armi politiche. Sono strumenti che servono a tenere sotto controllo quegli elementi della società che minacciano la stabilità dell’intero sistema.
In carcere, le persone che anche solo potenzialmente turbano l’ambiente sono confinate, punite, e a volte trattate con psicofarmaci. È così. Il sistema carcerario è un’arma di repressione. Lo stato vede nelle persone di ogni colore, specialmente nelle giovani generazioni, gli elementi più ribelli della società. Così le carceri traboccano di giovani di ogni genere sociale. Chi ha visto la strada e i ghetti sa quanto è facile per un fratello o una sorella cadere vittima dei tantissimi poliziotti.
Sono decine di migliaia (negli Stati Uniti, ndt) i detenuti che non sono mai stati condannati ma semplicemente sono lì, vittime, alla mercé di difensori d’ufficio insensibili, incompetenti, spesso spudoratamente razzisti, che insistono a dire che devi ammettere la tua colpevolezza anche se sanno che tu sei innocente quanto loro. Ma anche quando una persona ha commesso un crimine, occorre cercare le cause profonde. E le troviamo non in queste persone in quanto individui, ma nel sistema capitalista che più di ogni altra cosa crea criminali.
Chi ha fame nella pancia deve rubare per sopravvivere, chi ha fame nello spirito deve commettere atti antisociali perché non è possibile soddisfare i propri bisogni in uno stato basato sulla proprietà. Non credo di sbagliarmi di molto se dico che il 90% dei crimini commessi non sarebbero considerati crimini o non esisterebbero in una società incentrata sulla gente.
Mi hanno chiesto chi sono. Ho risposto che sono un rivoluzionario. Qual è il mio crimine? Ho sempre lottato per la libertà. Da quando sono qui? Da quando sono nato.
La mia vita ruota attorno alla lotta contro lo stato e i tiranni che violano i diritti dell’uomo e degli animali. Se sono ancora vivo è per poter dare una speranza alla mia gente, agli innocenti, devo essere libero per liberare tutte quelle persone meravigliose che lottano con me. Tutti, fratelli e sorelle, devono vivere e lottare assieme contro la terribile realtà di uno stato fascista che vuole incarcerare la società e portare avanti il suo programma politico di sottomissione di questa nostra società.
La mia libertà è il risultato di una grande lotta di popolo che mi ha permesso di tenermi in contatto con i compagni, che non mi ha fatto mancare le forze, che mi ha fatto sperare nella liberazione di un confinamento dispotico che finirà tra tre mesi, dopo quarantasei anni. A rubare le chiavi sono stati i giovani, i Neri, i bruni, gli Asiatici, i Nativi e gli studenti e i lavoratori bianchi. Loro hanno aperto le porte e hanno lasciato entrare gli altri, fratelli e sorelle, affinché si unissero alla nostra lotta per la libertà.