Di Can Standke. Originale pubblicato il primo gennaio 2021 con il titolo John Locke and the Supposedly Metaphysical Reality of Property Rights. Traduzione di Enrico Sanna.
Tra le tante caratterizzazioni del lavoro, da quella di Adam Smith che lo considera fonte di ricchezza a quella di Karl Marx per cui lavoro è umanità, John Locke è l’unico a considerare il lavoro fonte del legittimo diritto di proprietà. I moderni libertari fanno spesso riferimento al concetto lockeano di proprietà, secondo cui il lavoro, applicato a un oggetto, diventa fonte di un’appropriazione originaria e naturale (opposta a quella politica). Se poi questo oggetto appropriato viene scambiato con qualcos’altro appropriato originariamente da altri, ecco allora un’altra fonte di legittima appropriazione: il commercio. In questo contesto, unire il proprio lavoro con una risorsa naturale creerebbe un legame tra questa risorsa e il conseguente proprietario, il concetto di proprietà sarebbe nato così. Perché questo concetto sia valido, però, occorre che il legame tra l’oggetto e il suo proprietario sia percepito come veramente “reale”. Io dubito che la proprietà abbia tutta quella “realtà” che spesso le viene attribuita, ed è interessante notare come questo concetto di proprietà come realtà indiscutibile sia ciò che unisce chi si riconosce nel libertarismo di destra. Ciò che voglio contestare, pertanto, è questa presunta realtà metafisica della proprietà.
Può apparire profondamente individualistico e romantico pensare che il legame tra la persona e le cose che ama esista a prescindere dall’opinione altrui, e forse è per questo che tendiamo a vedere nella proprietà una realtà staccata da ogni discutibile contingenza. Qua ci sono io, il mio giardino e il mio fucile, nel caso qualcuno abbia da ridire. Ma regge il concetto?
Immaginate, per esperimento, di entrare in una stanza in cui c’è una persona e alcuni oggetti, e immaginate che qualcuno vi dica che alcuni di questi oggetti appartengono a quella persona. Siete in grado di dire quali? Se no, perché? Riflettiamo: avrebbe senso pensare che la proprietà abbia un qualche significato in assenza di competizione per le cose, in un mondo in cui non esistono altre persone che avvalorano la proprietà di qualcosa, e in un luogo in cui esiste la scarsità? Se no, non è per caso perché la proprietà è qualcosa che non esiste al di fuori dell’interazione tra entità pensanti, ma solo per effetto di questa interazione?
Oltre agli incentivi puramente politici, a spingere Locke a scrivere il Secondo Trattato furono principalmente gli incentivi sponsorizzati perlopiù dal suo mecenate Lord Shaftesbury, onde per cui Locke si sente in dovere di spiegare come giustificare la proprietà; questo significa che esisteva già un discorso esplicito su cosa giustificava una persona nel reclamare la proprietà di qualcosa. Locke non fa che fornire un ragionamento che spiega perché una persona può ragionevolmente vantare un accesso privilegiato a certe risorse, il che è la definizione di proprietà dal punto di vista delle relazioni tra individui; e poiché lo stesso Locke trova l’argomento sufficientemente convincente, pensa che questo valga anche per gli altri. Pare che questo sia l’unico contesto in cui serve giustificare la proprietà, dato che ogni giustificazione è utile solo all’interno di un discorso in cui qualcuno giustifica qualcosa e si hanno ragioni sufficienti per dubitare la realtà della proprietà indipendentemente dalle entità pensanti. Non ci restano che valutazioni normative da usare quando ci troviamo a scambiare opinioni tra noi o con altri. È quindi utile vedere nella proprietà qualcosa che nasce dal discorso, un prodotto del discorso sociale e pertanto un costrutto sociale.
Ora potremmo chiederci per quale ragione deve esistere questo discorso in società. La nostra interpretazione potrebbe anche spiegare una funzione sociale spesso citata riguardo il perché la proprietà è una cosa: si tratterebbe della volontà di evitare una discussione prima ancora che sorga, una funzione che potrebbe essere attribuita ad una sorta di “espediente sociale”. Anche supponendo che l’evoluzione storica abbia portato spontaneamente alla nascita di paradigmi sociali espressi dal mercato e dall’industria, in realtà ci troviamo a vivere in un mondo dominato da preferenze conflittuali che noi ovviamente desideriamo risolvere in maniera pacifica. Ecco quindi che il costrutto discorsivo della proprietà potrebbe essere un espediente sociale chiamato a svolgere questa funzione. Sembrerebbe proprio un bene che la società adotti un certo discorso riguardo l’accesso privilegiato, per quieto vivere e senza perenni contrasti (potenzialmente violenti). Lo strumento adottato sposta gli interessi contrastanti all’interno di uno scambio dialettico generalmente pacifico e rispettoso.
Data questa cornice, ha poca importanza che si creda o meno nella tesi giustificativa di Locke. Una lezione importante che bisogna imparare, però, è che la tesi lockeana non può pretendere alcun primato. Posso anche ritenere la tesi di Locke una delle tante possibili, ma in fondo il mio contributo al discorso dipende da come altri lo valutano, perché in ambito dialettico l’accettazione di una tesi dipende dalle persone che partecipano al discorso. Qualcuno potrebbe essere in disaccordo con il parere di qualcun altro, e dato che comprendere non significa accettare, può sentirsi giustificato nell’uso della minaccia o della violenza difensiva nel caso in cui pensi che i suoi presunti legittimi diritti siano stati violati con la forza. Ma allora il mantenimento della proprietà di qualcosa dipende o da questa violenza o da un riconoscimento reciproco. E il riconoscimento reciproco sarebbe quindi una soluzione migliore, elegante (ovvero, più pacifica e priva di rischi), quando si vuole mantenere la proprietà di qualcosa: si giustifica la proprietà sperando che gli altri la riconoscano. Questo è ciò che fece Locke.