Di Eric Fleischmann. Originale: Seriously, What Is Mark Thornton Talking About? pubblicato il 17 settembre 2020. Traduzione di Enrico Sanna.
Una persona cara, che non nomino, dice che prima di dire qualcosa bisognerebbe rispondere a tre domande: È vero? È necessario? È rispettoso? Se le risposte affermative sono almeno due, si può procedere. Temo che quello che dirò sull’articolo di Mark Thornton, membro anziano del Mises Institute, pubblicato su Mises Wire (“America’s Riots Are Just the Latest Version of Marxist ‘Syndicalism’”) non sarà rispettoso (anche se, spero, moderatamente educato), ma perlomeno sarà, almeno a mio giudizio, vero e necessario.
L’articolo è così pieno di asserzioni fuorvianti, frutto di scarsa erudizione, spesso insensate, che davvero non so da dove cominciare. All’inizio, ad esempio, parlando sommariamente delle rivolte recenti, dice che “[I]l caos nelle strade è stato facilitato da sindaci, governatori e capi della polizia riluttanti ad applicare la legge.” È evidente, invece, che tutta la situazione è stata causata dall’assoluta brutalità della polizia contro persone di colore come George Floyd, Breonna Taylor, Justin Howell, Tony McDade, Jacob Blake, Sean Monterrossa, David McAtee e molti altri. Ed è chiaramente ridicolo dire che “sindaci, governatori e capi della polizia… sono riluttanti ad applicare la legge”, quando in tutto il paese le città stanno militarizzando le proprie forze di polizia contro qualunque forma di dissenso percepito, causando così innumerevoli feriti e diversi morti. Non so in quali Stati Uniti viva Thornton, quali siano quelle amministrazioni e forze di polizia che stanno sedute a guardare come Nerone mentre Roma brucia, ma certo non è lo stesso paese in cui vivo io.
Thornton aggiunge poi un’osservazione casuale – svogliatamente, dopo aver condannato “antifascisti, Black Lives Matter e particolarmente i ‘provò anarchici’” – quando dice che “[c]erto anche a destra c’è qualche violenza, come mi è capitato di vederne nella cittadella universitaria di Auburn.” Questo contraddice nascostamente le conclusioni raggiunte riassunte da uno studio del Center for Strategic and International Studies, che dimostra che la violenza di destra prevale su quasi tutte le altre, come dimostrato dalla raccapricciante sparatoria da parte di Kyle Rittenhouse contro i manifestanti a Kenosha, nel Wisconsin (fatto avvenuto poco prima della pubblicazione dell’articolo di Thornton). Ma contraddice anche la bozza di documento del dipartimento di sicurezza interna che conclude dicendo che i suprematisti bianchi saranno probabilmente la “minaccia più letale e persistente” per il paese fino a tutto il 2021. E senza citare – se vogliamo parlare del caos perpetuato dalle amministrazioni, dagli stati e dalla polizia locale – le relazioni esplicitamente protettive tra polizia e squadristi di destra come Patriot Prayer e Proud Boys a Portland, nell’Oregon, e il fatto che agenti della polizia di Kenosha prima della tragica sparatoria avevano elogiato e offerto dell’acqua a Rittenhouse.
Ma l’aspetto più accademicamente oltraggioso dell’articolo è la sua totale incomprensione storica, politica ed economica del sindacalismo rivoluzionario. Prima fa un’affermazione incauta: “[g]eneralmente parlando, intendo per sindacalismo rivoluzionario la possibilità di fare quel che si vuole a spese degli altri.” Non so da dove abbia cavato fuori questa definizione o interpretazione. Non mi è mai capitato di leggere una pubblicazione sul soggetto – da Anarcho-Syndicalism: Theory and Practice di Rudolph Rocker a “Syndicalism: the Modern Menace to Capitalism di Emma Goldman – in cui i sindacalisti si identificassero in un’ideologia, o descrivessero la loro ideologia in termini di “possibilità di fare quel che si vuole a spese degli altri”. È vero che poi definisce specificamente il “sindacalismo politico” una “azione rivoluzionaria diretta e violenta contro le istituzioni del capitalismo, come le forze di sicurezza, la proprietà, in particolare la proprietà aziendale, e lo stato di diritto”, ma le sue affermazioni ruotano attorno alle teorie di Georges Sorel – “che sosteneva che contro le istituzioni del capitalismo occorresse agire con violenza implacabile, anche con lo ‘sciopero generale’, così diffuso nell’Europa dei suoi tempi” – visto qui come principale (anche se non l’unico) originatore del sindacalismo rivoluzionario. Non è la peggior descrizione dell’opera di Sorel che mi sia capitato di leggere (anche se dire che gli scioperi della moderna Europa sono una realizzazione dei suoi ideali è perlomeno un’esagerazione), ma David Graeber (che riposi in gloria) nel suo Fragments of an Anarchist Anthropology dà un quadro più preciso:
Sorel era dell’opinione che, data l’inaffidabilità o l’irrazionalità delle masse, era da sciocchi rivolgersi a loro con ragionamenti ponderati. La politica è l’arte di ispirare l’altro con un grande mito. Ai rivoluzionari propose il mito di un apocalittico Sciopero Generale come momento di trasformazione totale. E per tenere in piedi il mito, aggiunse, occorreva un’élite rivoluzionaria capace di tenere in vita il mito e la volontà dei rivoluzionari di esibirsi in simbolici atti violenti.
Anche a voler accettare l’interpretazione di Sorel fatta da Thornton, Kevin Carson, in uno scambio di email tramite C4SS, nota come “vedere in Sorel – un politologo machiavellico fissato con lo sciopero generale come mito fondativo più che assertore del sindacalismo come serio modello organizzativo – una fonte primaria d’ispirazione del sindacalismo è perlomeno discutibile. Ci sono riferimenti più appropriati, tra cui soprattutto De Leon e Rocker.”
Ma cos’ha a che vedere tutto ciò col marxismo? Sorel potrebbe anche essersi ispirato a Marx (e ha anche influito su alcuni marxisti), ma, come nota lo storico Zeev Sternell, tra i tre principali pensatori socialisti francesi tra ottocento e novecento – Paul Lafargue, Jean Jaurès e Sorel – solo quest’ultimo “ruppe col marxismo e, dopo un approfondimento di [Karl] Marx e [Pierre-Joseph] Proudhon, [Friedrich] Nietzsche e [Henri] Bergson, si mosse verso varie forme di nazionalsocialismo”, ovvero, sostanzialmente, il proto-fascismo. Ma Thornton non fa nessuno sforzo per connettere il termine “marxista” con la sua idea tarata di “sindacalismo rivoluzionario”, se non dicendo che tutti i marxisti (ma anche anarchici e fascisti) apparentemente lo utilizzano. Come spiega Carson, “Tra i marxisti, c’è un ramo sindacalista, ma Marx stesso non si è mai espresso specificamente riguardo quel modello industriale, se non con qualche riferimento ad ‘associazioni di produttori’ o simili.” Ma io ho il forte sospetto che Thornton usi la parola “marxista” non in riferimento a qualche linea di pensiero, bensì come tormentone pressoché insignificante buttato lì da persone di destra nel tentativo di denigrare i movimenti sinceramente liberatori, che siano marxisti o altro.
Certo Thornton parla de “L’altro genere di sindacalismo” come “quello meglio noto come sistema sociale alternativo alla pianificazione centrale socialista”. E segue l’analisi tradizionale del sindacalismo fatta da Mises, il quale conclude che con la sua messa in pratica “la produzione crollerebbe e i prezzi non sarebbero più legati ai prezzi di mercato. La ‘economia’ collasserebbe se il sindacalismo fosse applicato a una base economica.” A questo Carson risponde notando che “[q]uanto al concetto di Mises di quello che lui chiama “sindacalismo”, confonde mercato in beni strumentali con mercato in capitali aziendali – cosa che fa spesso nelle sue opere –, il che rende pressoché insignificante la usa opinione.” Ma qui non ci si chiede se è meglio un’economia capitalista o il sindacalismo, piuttosto si coglie l’occasione per tirar fuori parole come “marxista” e “sindacalismo” senza badare tanto al loro significato e ricondurli ad un pensatore violento e di stretta nicchia come Sorel, usando il tutto per criminalizzare la protesta attualmente in corso negli Stati Uniti contro la polizia. Una cosa sciatta e ipocrita.
E secondo Thornton, ci si chiede, quale sarebbe l’alternativa a questo “‘sindacalismo rivoluzionario’ marxista”? Lui indica quella che lui stesso definisce “opzione individualista”, ovvero:
le persone si armano come possono. Usano dispositivi di sicurezza come videocamere e blindature. Le aziende si rivolgono alla vigilanza privata e mettono protezioni alle vetrine. Altri più semplicemente si spostano dalle città ai sobborghi o oltre. Non aspettatevi una soluzione da parte dello stato, anche se più secessionismo e decentramento non guasterebbe.
Alcune cose attirano – giusto l’idea di una popolazione armata e il decentramento –, ma il tutto suona sostanzialmente come una lotta di classe da parte delle classi proprietarie contro tutti gli altri. Si tracciano linee e barriere ancora più arbitrarie, si proteggono gli interessi delle élite a discapito di tutti gli altri, creando una società sempre più intrisa di diffidenza e priva di altruismo e mutualità.
Ma una mano la voglio tendere comunque. Io spero che il dottor Thornton di questi tempi strani e malandati stia bene. Lo spero sinceramente. Ma spero anche che dedichi qualche tempo a studiare la situazione difficile vissuta da chi protesta, o che almeno cerchi di capirne il dolore. Spero anche che voglia leggere seriamente qualcosa sul marxismo e il sindacalismo, non solo quelle caricature fatte da pensatori di destra come Ludwig von Mises, ma anche gli scritti di chi realmente professa quelle ideologie. Per ultimo, visto che non voglio creare ulteriori divisioni in un mondo già diviso, è nel nome del rispetto e della reciprocità che allungo la mano al dottor Thornton e esprimo il mio desiderio di sentire una sua replica pubblica a questo pezzo, o magari di avere con lui una discussione civile in privato.