Di Kevin Carson. Originale: In Memoriam: David Graeber, 1961-2020, pubblicato il 4 settembre 2020. Traduzione di Enrico Sanna.
È abitudine iniziare un necrologio con una breve biografia. Eccola:
David detestava essere definito antropologo anarchico, dirò dunque che David Graeber, antropologo e anarchico, è morto a cinquantanove anni mercoledì tre settembre a Venice per cause tuttora non dichiarate.
Era attivista di Occupy Wall Street, nonché docente della London School of Economics; autore (tra le altre cose) di Fragments of an Anarchist Anthropology, Debt: The First 5000 Years, The Democracy Project, The Utopia of Rules e Bullshit Jobs.
Lascia la moglie, la giornalista e artista Nika Dubrovsky.
In questi casi si usa aggiungere una nota personale, ma non c’è molto da dire. La nostra era una conoscenza casuale: alcune email e qualche scambio di opinioni su Twitter. A parte questo, ciò che più mi lega a lui è la sua influenza sul mio pensiero.
Debt: The First 5000 Years rappresenta il mio primo incontro con i suoi scritti. Era – o perlomeno avrebbe dovuto essere se ci avessimo prestato attenzione – l’equivalente di un candelotto di dinamite lanciato ad un incontro di libertari di destra. L’ideologia capitalista poggia su un gran numero di favole (tanto per citare Marx), storie inventate e robinsonate che servono a spacciare le origini delle caratteristiche principali del capitalismo come spontanee e naturali. Così la proprietà privata (ovvero individuale e assoluta) della terra sarebbe nata occupando pacificamente la terra, apportandovi il proprio lavoro e separandola dalla proprietà comune. Il dominio incontrastato della produzione destinata allo scambio di merci nel nesso di cassa sarebbe figlio della propensione dell’uomo al commercio, il baratto e lo scambio. Quanto al denaro, sarebbe una risposta al problema, proprio del baratto, della “doppia coincidenza dei bisogni” con l’aggiunta della comodità offerta dai metalli preziosi come merce universale. Ognuno di questi miti è stato postulato da pensatori liberali classici, agli inizi della modernità, come una sorta di “storia probabile” al fine di spiegare i fatti in assenza di dati storici concreti.
Ciò che colpisce è che nel corso dei secoli seguenti si è continuato a ripetere questi miti nonostante tutte le scoperte in ambito storico e antropologico, senza neanche cercare di correggerli o di conciliarli. E non sono solo economisti e polemisti libertari di destra a ripetere queste cose ancora oggi, ma anche buona parte degli economisti accademici. Basta prendere a caso un qualunque testo pdf tra quelli usati nei corsi propedeutici, cercare “doppia coincidenza dei bisogni” per trovare qualcosa. In Debt, Graeber va ad analizzare quei dati e dimostra come un mito in particolare (quello sull’origine del denaro e del debito), ma in buona misura anche altri miti correlati, è, detto semplicemente, puro e semplice pattume.
Il suo secondo libro che mi è capitato di leggere è The Democracy Project: A History, A Crisis, A Movement. Qui due temi si incrociano: da un lato, la sua esperienza personale nel movimento orizzontalista Occupy, nonché la partecipazione ad altre simili forme partecipative di politica anarchica; dall’altro, l’antica tradizione della pratica di autogoverno democratico della gente comune. Rientra in quest’ultimo tema un affascinante percorso tra gli schiavi fuggitivi, le utopie dei pirati e le storie di persone che sceglievano di stare fuori dallo stato. Uno schiaffo a quei neoconservatori imbronciati che considerano la “democrazia” una sorta di fiore delicato in cima a un enorme letamaio, un fragile artefatto che compare solo nelle condizioni rarefatte di pochissime società sufficientemente avanzate, come l’Atene del quinto secolo aC, l’Inghilterra del 1688-89 e il Nord America a partire dagli anni 1760. Graeber, al contrario, spiega che…
la democrazia è vecchia come il mondo, come l’intelligenza umana. Nessuno può averne l’esclusiva. Penso che… sia nata quando gli ominidi smisero di accapigliarsi e diedero vita alle capacità comunicative per cercare di risolvere assieme un problema comune. Speculazione inutile. Il punto è che ritroviamo le assemblee democratiche ovunque e in qualunque epoca, dal seka di Bali all’ayllu della Bolivia, e con una varietà infinita di procedure formali, compaiono spontaneamente quando un gruppo numeroso di persone si siede a prendere una decisione collettiva basandosi secondo il principio che tutte le opinioni hanno lo stesso valore.
In The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy, Graeber prende in esame la cultura burocratica delle grandi aziende, il potere dello stato e altre istituzioni centralizzate. Spiega anche come stato accentratore e aziende oligopolistiche, lungi dall’essere nemici – come vorrebbero i liberal-progressisti e i libertari di destra – sono semplicemente versioni diverse, se non parti diverse, della stessa cosa. Nei fatti, il capitalismo nasce sullo sfondo dello stato burocratico, ne è in gran parte il prodotto.
Devo ancora leggere, e lo dico con disappunto, il suo ultimo Bullshit Jobs: A Theory. Dico con disappunto non solo perché sono curioso di vedere come gli argomenti si ricollegano a quelli di Utopia of Rules, ma anche perché non avrò la possibilità di mandargli un link al mio commento e sentire cosa ha da dire al proposito.
A giudicare dalle recensioni e gli estratti, nonché dai suoi articoli sugli stessi argomenti, Graeber rivede le nostre percezioni intuitive e spiega come i colletti bianchi non solo producono poco valore reale, ma lo distruggono. Chi fa un lavoro essenziale per la società (l’espressione “lavoratori essenziali” è emersa dagli eventi dopo la pubblicazione di questo libro) – chi cucina, assiste anziani e malati, insegna, lavora nell’industria alimentare, fabbrica cose utili, tratta con i clienti, pulisce per terra e così via – non solo è pagato male relativamente all’importanza del proprio lavoro, ma subisce abusi e disturbi da parte dei benpagati che fanno lavori stronzi.
I lavori stronzi diventano “indispensabili” solo nel contesto di una società in cui una minoranza ruba dagli altri e sta seduta sul malloppo. La maggior parte dei lavori stronzi consiste nel contare i fagioli che rappresentano la ricchezza dei ladri, o a salvaguardare i titoli di proprietà assenteista di terre inutilizzate, di case vuote e di altri beni inutilizzati, e ad assicurarsi che gli altri continuino a prendere ordini da chi possiede le macchine che loro fanno funzionare. Il resto è il risultato di un’economia basata sulla produzione incentivata dello spreco, necessaria a tenere in piedi un’industria sovradimensionata centralizzata, inefficiente e ad alta intensità di capitale.
Pur ritenendo il suo anarchismo, così come quello di Pëtr Kropotkin e Colin Ward, grossomodo comunista, io includerei Graeber, assieme ai due citati, nella mia categoria generica degli “anarchici senza aggettivi”. Come nel caso di Kropotkin e Ward, la fede di Graeber nella creatività e nelle possibilità dell’uomo, il suo amore per l’incredibile varietà di espedienti usati storicamente dagli uomini per stabilire relazioni reciproche e gestire collettivamente i loro problemi comuni, sono più forti di qualunque tentativo di farli rientrare in particolari schemi economici come il mercato, l’associazionismo o altro. Non tollerava quelle formulazioni teoriche aprioristiche che violentano la particolarità, la “realtà in sé” della storia, non tollerava che sulla base di queste formulazioni si interpretasse male la capacità delle persone di trovare soluzioni soddisfacenti, qualunque soluzione, semplicemente confrontandosi. Così come non tollerava che una qualche versione di anarchismo “con il trattino” limitasse la sua ammirazione per l’estrema varietà e particolarità delle istituzioni auto-organizzate e a misura d’uomo. Così scrive in Debt:
Se vogliamo davvero capire le basi morali della vita economica, e quindi della vita dell’uomo, a mio giudizio dobbiamo iniziare… dalle cose più piccole: i dettagli quotidiani della vita sociale, il rapporto con gli amici, i nemici, i figli; spesso si tratta di gesti così piccoli (passare il sale, scroccare una sigaretta) che raramente ci riflettiamo sopra. L’antropologia illustra i tanti e diversi modi di organizzarsi degli uomini.
A parte il suo anarchismo senza aggettivi, trovo particolarmente istruttive anche vari altri suoi concetti. Come la già vista democrazia concreta, propria delle persone comuni ovunque e in ogni tempo.
Altra nozione è quella di “anarchismo della quotidianità”: come spiega Colin Ward in Anarchy in Action, l’anarchismo, più che un sistema totalizzante attorno al quale la società dev’essere rimodellata sistematicamente, è qualcosa che esiste tra noi nelle nostre interazioni. “L’anarchismo è già oggi, ed è sempre stato, una delle basi dell’interazione umana. Noi ci organizziamo e ci aiutiamo reciprocamente in qualunque momento. L’abbiamo sempre fatto” (questa citazione e quella seguente sono prese da “Are You an Anarchist? The Answer May Surprise You”).
Il principio anarchico più elementare è l’organizzazione di se stessi: l’assunto per cui gli uomini non devono essere minacciati di punizione perché raggiungano una ragionevole intesa tra loro, o per costringerli a trattare gli altri con dignità e rispetto…
Anarchismo è il modo in cui agisce l’uomo quando è libero di fare come vuole, quando interagisce con altre persone ugualmente libere, e che pertanto sono coscienti della responsabilità verso gli altri che ciò comporta…
…L’anarchismo è oggi, ed è sempre stato, una delle basi dell’interazione umana. Noi ci organizziamo e ci aiutiamo reciprocamente in qualunque momento. L’abbiamo sempre fatto.
Per quanto rispetti l’immensa varietà e particolarità delle istituzioni storiche auto-organizzate, il che significa accettare la libertà della gente di scegliere come organizzarsi, ritiene certe forme organizzative altamente improbabili per un popolo libero, improbabili in assenza di un governo violento o di una conquista dall’esterno. Così scrive in The Democracy Project:
Come dimostra la storia, le enormi differenze di ricchezza, istituzioni come la schiavitù, la schiavitù per debito o il lavoro salariato possono esistere solo se sostenute da un esercito, le carceri e la polizia.
Per questo, spiega, un’ideale società anarco-capitalista non potrebbe durare senza lo stato:
Negli anni novanta frequentavo i newsgroup su internet, allora molto frequentati da persone che si definivano “anarco-capitalisti”. … Molti passavano il tempo condannando gli anarchici di sinistra, dicendo che fomentavano la violenza. “Come si può essere a favore di una società libera e allo stesso tempo contro il lavoro salariato? Se voglio assumere qualcuno per raccogliere i miei pomodori, come fai a impedirmelo se non con la violenza?” Secondo questa logica, dunque, qualunque tentativo di abolire il sistema salariale dovrebbe passare attraverso qualche nuova versione del Kgb. Sono ragionamenti frequenti. Nessuno, significativamente, dice mai: “E se voglio affittarmi per raccogliere i pomodori di qualcun altro, come fai a fermarmi senza l’uso della forza?” Tutti apparentemente pensano che in una futura società astatuale apparterranno alla classe dei datori di lavoro. Nessuno pensa che sarà un raccoglitore. Ma da dove credono che vengano i raccoglitori? Un piccolo esperimento mentale può essere d’aiuto: chiamiamola la parabola dell’isola divisa. Due gruppi di idealisti si dividono un’isola. Dividono concordemente il territorio in due parti più o meno equivalenti quanto a risorse. Uno dei gruppi crea un sistema economico diviso tra pochi padroni e molti nullatenenti, senza neanche garanzie sociali, che muoiono di fame se non accettano l’offerta di lavoro alle condizioni poste dai ricchi. Il secondo gruppo crea un sistema in cui a tutti spetta un minimo vitale e accetta qualunque nuovo arrivato. A questo punto, nella metà capitalista le persone destinate a fare i guardiani notturni, gli infermieri, i minatori avrebbero molte ragioni per emigrare. La metà capitalista resterebbe senza forza lavoro nel giro di qualche settimana. I capitalisti sarebbero costretti a vuotarsi i pappagalli da soli, fare i guardiani notturni e azionare da sé i loro macchinari pesanti… a meno che non offrano ai lavoratori condizioni praticamente da utopia socialista.
Per questa e per tante altre ragioni, sono sicuro che all’atto pratico qualunque tentativo di creare un’economia di mercato senza il supporto di eserciti, polizia e carceri cesserebbe ben presto di essere capitalismo. Ad esser sincero, penso che presto finirebbe per somigliare pochissimo anche a quello che solitamente consideriamo mercato.
Altro concetto che ha influito su di me è il “comunismo di base”: il fatto che tutte le società umane, che siano governate da feudatari, burocrazie statali o aziende capitaliste, hanno un fondo di comunismo libertario creato dalla gente comune per sopravvivere. Così scrive in Debt:
se le persone non si guardano in cagnesco, se i bisogni sono abbastanza forti, o i costi abbastanza accettabili, ecco allora che subentra il principio “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”…
In fin dei conti, il “comunismo” non è una magica utopia; non occorre neanche la proprietà dei mezzi di produzione. È qualcosa che esiste ora; cioè qualcosa che esiste, in grado maggiore o minore, in tutte le società, anche se non ne è mai esistita una in cui tutto era organizzato comunisticamente, cosa peraltro difficile anche da immaginare. Tutti noi ci comportiamo spessissimo da comunisti… Una “società comunista”… è impossibile. Ma tutti i sistemi sociali, anche il capitalismo e simili, poggiano su una base solida fatta di comunismo reale.
E poi, in The Machinery of Hopelessness:
…[C]omunismo significa tutti quei casi in cui le persone agiscono secondo questo principio: ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni. In effetti, questo è il comportamento di chi lavora assieme. Se, ad esempio, due persone stanno aggiustando un tubo e uno dice “passami quella pinza”, l’altro non risponde “cosa mi dai in cambio?” Succede così anche tra i dipendenti di Bechtel o Citigroup. Applicano i principi del comunismo perché sono gli unici che funzionano davvero. Questa è anche la ragione per cui intere città e paesi ripiegano su qualche forma di comunismo improvvisato dopo una calamità naturale o un collasso economico: mercati e gerarchie di comando diventano lussi che non ci si può permettere. Più creatività occorre e più le persone devono improvvisare e più la forma di comunismo risultante ha probabilità di essere egalitaria. Per questo anche i tecnici repubblicani (del partito repubblicano, ndt) che cercano di dar corpo a nuove idee in fatto di software tendono a formare piccoli collettivi democratici. È solo quando il lavoro diventa standardizzato e noioso (come nelle catene di montaggio) che è possibile imporre forme di comunismo più autoritarie, se non fasciste. In realtà, anche le aziende private sono organizzate internamente secondo principi comunistici.
Il grado di comunismo – di quella parte dell’attività sociale ed economica governata dal comunismo – varia molto da società a società e da un’epoca all’altra. È però vero che tutte le società prestatuali – che si tratti di raccoglitori e cacciatori o di villaggi agricoli astatuali – possiedono un grado relativamente alto di comunismo, e questo comunismo è sopravvissuto all’avvento degli stati e dei regimi feudali fino a qualche tempo fa. Fatto notevole, questa realtà era la norma ovunque non sia stata soppressa violentemente con l’esproprio della terra. Possiamo dire, senza esagerare, che l’organizzazione predefinita, a partire dalla Rivoluzione Agricola fino alla soppressione ad opera degli stati classisti, era il villaggio agricolo con le terre comuni in possesso temporaneo: le famiglie avevano diritto all’utilizzo di varie terre, di proprietà comune e ridistribuite periodicamente, oltre all’accesso ai pascoli comuni e ai boschi. Questo era lo schema tipico del villaggio a campi aperti, prevalente nell’Europa Occidentale e in Inghilterra fino agli inizi dell’epoca moderna, ma anche del cosiddetto “modo asiatico” soffocato da Warren Hastings in Bengala, e del Mir, che sopravvisse in Russia finché non fu distrutto dall’azione combinata delle “riforme” di Stolypin e della collettivizzazione forzata di Stalin.
Aggiungo che, al di là del suo apporto culturale, Graeber ha esercitato un’enorme influenza sul movimento Occupy. I dettagli sono in The Democracy Project. In breve: Tra luglio e agosto del 2011 Occupy era perlopiù un progetto in fieri della rivista Adbusters e una manciata di movimenti verticalisti come il Workers World Party; il programma prevedeva una tradizionale manifestazione con manifesti scritti a mano, slogan e dei capi designati, e quasi sicuramente il tutto sarebbe evaporato subito dopo le foto ricordo e gli arresti di rito. Un gruppetto di anarchici che aveva assistito al movimento M15 in Spagna si cristallizzò attorno a Graeber con l’intento di mettere su un’assemblea generale, e fu questo che spinse il movimento ad acquisire un carattere orizzontale. In assenza di questo fatto – in mancanza di quel bullone, è il caso di dire – Occupy sarebbe stato una nota a piè pagina della politica newyorchese. Movimenti come Black Lives Matter, NoDAPL e Antifa, in qualunque forma, sarebbero stati completamente diversi.
Come anarchico, David Graeber rientra nella stessa categoria di poche altre figure monumentali del passato, come Kropotkin, Ward, James Scott e forse anche Murray Bookchin. Ha fatto tutto in cinquantanove anni, con, probabilmente, ancora metà della sua carriera intellettuale davanti a sé. Scott è ancora attivo a ottantatré anni, gli altri sono morti sugli ottanta. Impossibile sapere cosa ci ha tolto la sua morte; molto, sicuramente.