Di Asem. Originale pubblicato il 16 marzo 2020 con il titolo The Four Day Workweek is Ripe for the Picking. Traduzione di Enrico Sanna.
Se chiedete ad un anarco-sindacalista per quale ragione ci si dovrebbe iscrivere alla sua associazione, lui vi fornirà un lungo elenco di cose che oggi appaiono scontate ma che sono il risultato delle lotte dei lavoratori del passato, con il fine settimana libero tra le conquiste più importanti. Oggi uno pensa che la giornata di otto ore sia nata improvvisamente dal nulla, grazie ad un grosso sciopero generale, in seguito al quale l’orario di lavoro è stato ridotto a otto ore giornaliere, lo stipendio è aumentato ed è nato il fine settimana libero. Ma la realtà è molto più complicata. Se cerchiamo il momento esatto in cui la giornata di otto ore è diventata la norma, scopriamo che non c’è una “prima” vittoria, ma tante. Il riconoscimento legale delle otto ore per operai specializzati e generici ha richiesto un secolo di lotte. L’ultimo paese a riconoscere la “vittoria” delle otto ore pare che sia stato la Nuova Zelanda dell’epoca coloniale, forse a causa di una scarsità di lavoratori e in modo curioso.
L’onore di aver introdotto la giornata di otto ore in Nuova Zelanda è tradizionalmente attribuito a Samuel Duncan Parnell. Carpentiere londinese, Parnell, al suo arrivo a Petone nel 1840, durante la costruzione di un magazzino per un commerciante di nome George Hunter insistette a voler lavorare non più di otto ore giornaliere. Anni dopo, altri reclamarono il diritto di essere considerati i “padri” delle otto ore, ma il caso di Parnell appare il più plausibile. Nel 1840 l’idea di ridurre la giornata lavorativa era nell’aria. Se ne parlava nelle navi che portavano i migranti e veniva messa in pratica al loro arrivo. I carpentieri erano l’avanguardia del movimento; si parla di un raduno di carpentieri all’esterno del German Brown (o Barrett) Hotel di Wellington, ad ottobre del 1840, durante il quale fu fatto voto di “mantenere la giornata lavorativa di otto ore, e chi non è d’accordo che sia gettato nelle acque del porto.”
Qualcosa di più simile ad un “vero” movimento di lavoratori, però, nacque il primo maggio 1886, durante uno sciopero per le otto ore tenutosi a Chicago, sciopero che degenerò in scontro violento in cui furono attaccati poliziotti e anarchici, e che culminò nella Fair Labor Standards Act approvata con il New Deal nel 1937. Non era un movimento sociale monolitico, privo di differenze di classe; gli immigrati ebrei, ad esempio, lottavano per il sabato libero per ragioni religiose proprie. Così lo storico Michael Feldberg: “Se il sabato ebraico fosse stato un mercoledì non avremmo avuto il fine settimana libero. Avremmo avuto il mercoledì e la domenica liberi.” Henry Ford, tutt’altro che amico degli ebrei, raddoppiò nel 1914 il salario dei suoi operai portandolo a cinque dollari giornalieri, mentre nel 1926 decise di attuare la giornata di otto ore. Questo avveniva dieci anni prima degli scioperi dei militanti degli anni trenta, scioperi che portarono all’ingresso del sindacato United Auto Workers (UAW) nelle fabbriche dei tre grandi costruttori. Sembra quindi che sia stata la convergenza di molteplici fattori in un momento critico a far nascere il moderno orario di lavoro; concorsero i sindacati, le organizzazioni religiose, l’accresciuta produttività industriale e l’interesse delle élite industriali a far crescere i consumi.
A scanso di fraintendimenti, non si trattò di un evento naturale o di un ineluttabile progresso. Nella provincia di Shenzhen, per dire, vige l’orario detto 9/9/6, ovvero dalle nove del mattino alle nove di sera per sei giorni la settimana. E non per i poveri contadini cinesi che lavorano in fabbrica per sopravvivere, ma per i lavoratori della classe media, altamente specializzati e istruiti, che lavorano nelle industrie tecnologiche, un settore nato appena una ventina d’anni fa. Alcune aziende vantano orari 6/6/5, ovvero dodici ore al giorno con il fine settimana libero, una soluzione più umana. Il progresso tecnologico non basta ad accorciare la settimana lavorativa, neanche in quelle industrie che crescono esponenzialmente come l’industria del software.
In questi ultimi anni, la situazione sembra tornata ai tempi dei primi movimenti dei lavoratori. Varie tensioni di classe sono nate in seguito alle crisi del 2008, e nessuna nuova industria è stata in grado di rimpiazzare le vecchie industrie manifatturiere sindacalizzate. Per di più, l’automazione accelera. Alcuni datori di lavoro isolati sperimentano la settimana di quattro giorni. Una società di gestione neozelandese ha scoperto che non ci sono aspetti negativi, e che i lavoratori sono più soddisfatti, Microsoft Japan ha fatto lo stesso esperimento e la produttività è cresciuta del 40%, e anche Amazon, nota per la sua brutalità, pensa ad un esperimento pilota ditrenta ore, mentre anche aziende piccole, con migliori risorse tecnico-scientifiche, cominciano a adottare una settimana lavorativa più breve. C’è anche un sito dedicato a posti di lavoro da trenta ore settimanali in cui attualmente è elencata una dozzina di datori di lavoro.
Una settimana di quattro giorni è tutt’altro che una proposta radicale, e in realtà è quattro giorni oltre l’ottimale. Tanto per fornire qualche numero, la produttività dagli anni settanta è raddoppiata mentre i salari reali sono rimasti invariati, il costo della proprietà intellettuale ammonta al 38% del pil, un nucleo famigliare su quattro in casa d’affitto paga oltre la metà del proprio reddito per l’affitto, e anche i “privilegiati” della classe media pagano il 27%. In altri termini, quattro ore lavorate su dieci vanno a pagare la proprietà intellettuale, che in assenza dei monopoli imposti dallo stato non costerebbe nulla, e altre tre ore su cinque vanno al proprietario della casa. Senza tener conto dei costi generali dei quadri dirigenziali, che se ogni lavoratore lavorasse in autogestione non esisterebbero. Tolta la fuffa, la settimana lavorativa si riduce a molto meno di trenta ore, più sulle dieci ore. Una società post-lavoro, da utopia, potrebbe diventare una realtà alla portata della prossima generazione.
La buona notizia è che la campagna per la settimana di quattro giorni faceva progressi prima ancora di cominciare. Su 52 settimane l’anno, dieci hanno un giorno libero per legge, perlopiù il lunedì o il venerdì, il che significa che il 20% del lavoro è già fatto. È una tattica che potrebbe essere portata avanti. Invece di chiedere di cancellare il lunedì dal calendario, ogni anno si potrebbe aggiungere una giornata libera, così che entro la fine del decennio sarebbe facile chiedere che i restanti venticinque giorni diventino formalmente un lungo fine settimana.
Si potrebbe mettere su un’ampia coalizione che vada oltre il tradizionale movimento dei lavoratori, ad esempio con gli studenti, che hanno una voce più forte e sono più bravi a diffondere il messaggio, o il movimento ambientalista, che vuole abbassare le emissioni riducendo il pendolarismo e l’uso dell’energia elettrica nel luogo di lavoro. È un buon segno anche il fatto che i numeri dimostrino risultati positivi e una migliore produttività, permettendo così alla Good Boss™ di ammorbidire la propria posizione con la popolazione, lasciando la strada a politici più moderati. Come il già citato Henry Ford, oggi ci sono oligarchi che non sono contrari neanche ad una settimana di tre giorni. Occorre evitare che le élite affaristiche si alleino tra loro, soprattutto quando queste alleanze portano a compromessi con elementi cruciali della classe lavoratrice, ma è possibile piegare i capi ai nostri fini. Mantenendo una distanza strategica, possiamo lasciarli parlare e allo stesso tempo frenare per evitare che il movimento sociale diventi moderato o di centro.
Se il movimento parte oggi, ci sono buone possibilità, date le attuali condizioni, di arrivare al risultato entro il prossimo decennio. Però è importante non fare errori come quelli della coalizione del New Deal, che prima sacrificò i lavoratori neri in un compromesso per estendere le protezioni ai mezzadri, e poi escluse gli stessi neri dai benefici spettanti ai reduci di guerra. Un tradimento di classe che non deve ripetersi. Un’ampia coalizione potrebbe anche avere un impatto negativo sui lavoratori ad ore, che potrebbero ricevere meno perché lavorano per meno tempo, mentre i salariati non verrebbero toccati perché hanno contratti annuali, pertanto è importante includere nella lotta per la settimana di quattro giorni anche i lavoratori ad ore. Lo stesso vale per gli studenti, che sarebbero ben felici di avere un lungo fine settimana, e per gli ambientalisti che vogliono invertire i cambiamenti climatici. Una settimana lavorativa di quattro giorni porterebbe benefici a tutti, e forse è bene seguire l’esempio dei carpentieri neozelandesi, che chiedevano una settimana di quattro giorni a spese altrui, e minacciavano di gettare a mare i dissenzienti.