Di Kevin Carson. Originale pubblicato il primo febbraio 2016 con il titolo Je Suis #ResearchParasite. Traduzione di Enrico Sanna.
In un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine (“Data Sharing,” 21 gennaio), Dan Longo e Jeffrey Drazen inventano un nuovo curioso termine: “parassita della ricerca”. Gli autori in teoria dicono: Condividere le informazioni è bello. Ma all’atto pratico è una di quelle cose che, buone in teoria, nella realtà non vanno bene. “Il timore principale è che qualcuno che non contribuisce alla produzione e alla raccolta delle conoscenze possa non capire le scelte fatte nel definire i parametri.”
Ancora di più, però, preoccupa la possibilità “che possa emergere una nuova categoria di ricercatori, fatta di persone estranee alla creazione e la messa in pratica di idee e che si limitano ad utilizzare conoscenze prodotte da altri per i propri scopi personali, magari prendendo dalle produzioni scientifiche fatte da chi ha raccolto conoscenze, o anche persone che usano le stesse conoscenze per confutare le tesi di chi le ha originate. Esiste il timore, presso alcuni ricercatori impegnati in prima persona, che del sistema possano prendere il controllo quelli che sono stati definiti “parassiti della ricerca”.
Detto più semplicemente, l’espressione “parassiti della ricerca” includerebbe sia chi si serve di conoscenze prodotte da altri ricercatori per poi confutarle, sia chi si serve di tali conoscenze come base per ulteriori sviluppi senza il consenso dei ricercatori originali. In altre parole, questi parassiti della ricerca sarebbero persone che fanno ciò che un tempo si chiamava “scienza”.
Fin dalle origini della scienza sperimentale occidentale, simboleggiate dalla leggenda di Galileo che spiega la fisica aristotelica lasciando cadere due sfere dalla Torre di Pisa, il suo ethos ruota attorno all’idea di piena trasparenza e libera condivisione delle informazioni. Il motto della Royal Society, che risale alla comunità scientifica internazionale del diciassettesimo secolo, era “nullius in verba”, “non [fidarti delle] parole di nessuno”.
Questo scientifico ethos open-source è stato descritto dall’autore di fantascienza Kim Stanley Robinson in Blue Mars:
“Tutto era alla luce del sole, pubblico… Per ogni problema scientifico, quelli che rappresentavano l’avanguardia e che costruivano il progresso formavano un gruppo speciale, qualche centinaio al massimo – spesso con al centro un gruppo che faceva sintesi e innovava, non più di una dozzina in tutti i mondi –, crearono un nuovo gergo nel loro dialetto per comunicare le nuove scoperte, discutere i risultati, suggerire nuove strade di ricerca, offrire spunti per l’attività di laboratorio, ritrovarsi tra specialistici, parlarsi con tutti i mezzi a disposizione. Era lì, nei laboratori e nei luoghi di ritrovo, che il lavoro progrediva in forma di dialogo tra persone che capivano i problemi…
“E tutta questa vasta struttura culturale così articolata era alla luce del giorno, accessibile a chiunque volesse prenderne parte, a chiunque avesse la volontà e la capacità di aiutare; niente segreti, nessuna carboneria…”
Fin dall’inizio, la comunità scientifica internazionale è stata caratterizzata dalla libera condivisione delle conoscenze, dalla disponibilità accordata a chiunque di testare o sviluppare le idee, senza confini nazionali.
Vista su questo sfondo, la paura espressa da Longo e Drazen, che “i risultati delle ricerche effettuate da chi raccoglie dati possano essere rubati”, assume un significato particolare. Ciò di cui parlano è il diritto di proprietà della conoscenza o, più precisamente, il diritto in esclusiva di chi possiede certe conoscenze di trarne profitto. I confini aziendali sono, nell’attuale panorama economico globalizzato, l’equivalente più prossimo ai confini nazionali. E la recinzione delle conoscenze, delle informazioni scientifiche, da parte delle aziende, rappresenta una violenza contro la libertà di fare ricerca, qualcosa di simile ai segreti del complesso industrial-militare attuale, o alla ricerca scientifica ai tempi di Newton se ad essa fossero state applicate restrizioni sulla base dei confini nazionali.
C’è un’espressione popolare, “l’era del vapore”, che fa riferimento a quelle invenzioni epocali, come la macchina a vapore o la radio, sviluppate contemporaneamente ma in modo indipendente da persone diverse. Questo avviene perché, quando esistono tutti i prerequisiti tecnici, tutti i mattoncini necessari a sviluppare un’invenzione, è la stessa esistenza di un corpus di conoscenze diffuse nella società a diventare una forza produttiva. Vediamo in opera ciò che qualcuno definisce “stare sulle spalle di un gigante”: ogni nuova scoperta dipende dalle precedenti, e dalla fertilità che hanno le idee quando si connettono tra loro e generano nuove combinazioni di idee più grandi della somma delle singole parti.
Siamo chiari: Longo e Drazen chiedono l’imposizione di pedaggi che impediscano la condivisione e lo sviluppo di conoscenze acquisite. Vogliono che lo stato usi la propria autorità per far valere i diritti di “proprietà” sulle conoscenze, così che istituti di ricerca protetti da proprietà industriale, come lo stato stesso e i centri di ricerca aziendali, possano tassare l’utilizzo produttivo delle conoscenze acquisite da loro. Questo è un colpo mortale a quella produttività basata sulla conoscenza sociale al cuore della scienza.
Citazioni:
• Kevin Carson, Je Suis #ResearchParasite, News LI
• Kevin Carson, Je Suis #ResearchParasite, P2P Foundation Blog, 2016-02-26
• Kevin Carson, Je Suis #ResearchParasite, Augusta Free Press, 2016-02-04