Di Naomi Edhellos. Originale pubblicato il 7 novembre 2017 con il titolo On Antifa’s Critics. Traduzione di Enrico Sanna.
Tredicesimo saggio del November Mutual Exchange Symposium: Freedom of Speech and Political Violence.
Ho abbastanza anni da ricordare quando anche solo manifestare la propria opposizione al fascismo era considerato criticabile. Lasciamo perdere il fatto che il modo migliore per impedire che la feccia razzista si organizzi in piazza passa da una forte opposizione in piazza, e che se non si fa così si aiutano i fascisti a passare per un movimento popolare. Chi criticava credeva che la risposta migliore fosse una contromanifestazione a chilometri di distanza su cui attirare l’attenzione… oppure ignorare i cattivi e sperare che sloggiassero. Secondo questo pensiero, chiunque cerchi di mettere su una forte opposizione anche solo mostrando una sorta di resistenza ai suprematisti bianchi viene considerato un istigatore. Al netto della fuffa retorica, si diceva, la soluzione migliore era lasciare la piazza ai nazisti.
Il discorso è pian piano cambiato, tanto che è diventato accettabile manifestare pubblicamente contro i fascisti, purché tale manifestazione sia assolutamente nonviolenta. Con gli anni è diventata accettabile anche l’autodifesa… purché si intenda l’autodifesa di tutte le parti in causa, compreso chi contestava a migliaia di chilometri di distanza e non era affatto coinvolto ma aveva una forte opinione e si faceva sentire.
Così decide chi non partecipa all’azione. Persone che non hanno mai levato un dito per opporsi al fascismo non solo blaterano di etica, ma improvvisamente pretendono di insegnare cosa bisogna fare e cosa no. Poi ci sono organizzazioni antirazziste e antifasciste che infiltrano le chat dei nazionalisti bianchi e raccolgono testimonianze dall’interno. Ovviamente, questi dovrebbero sapere cosa è o non è praticamente efficace. Sono abbastanza svegli, a mio parere, da non pubblicizzare la cosa per questioni di sicurezza e pratiche. Chi sta fuori (e magari non fa nulla) pensa di avere soluzioni che altri non hanno, anche se non ha né nozioni né esperienza, ma solo banalità prese dai libri di storia e commenti rigurgitati sui video di YouTube.
Apparentemente, col tempo la finestra di Overton si è mossa. Oggi è socialmente ammesso che antifascisti e antirazzisti manifestino in pubblico contro i nazisti nel tentativo di difendere la propria comunità. Ma il discorso è solitamente molto confuso e spesso capita, anche in ambienti radicali, che qualcuno metta sullo stesso piano chi predica il genocidio e chi vi si oppone.
Non che questa ipersemplificazione non si manifesti anche in altri ambiti della società. Nel nostro reazionario sistema scolastico, quando un bullo molla un pugno e l’altro risponde a tono, entrambi vengono sospesi. Domanda: Chi dei due è il vero violento? Chi è che approfitta di quelli che gli sembrano più deboli? Oppure: Chi è che sta solo reagendo per non diventare una vittima? Va da sé che difendersi è diverso, è molto più giustificabile dell’aggressione. Già da questa banale analisi si capisce quanto sia ridicolo mettere le due cose sullo stesso piano. E però la propaganda della destra alternativa, che dipinge gli antifascisti come fascisti di un colore diverso, è così diffusa che in parte è arrivata anche a sinistra, dove solitamente prevale la ragione.
È incredibile l’arroganza di persone che, dopo una lezione di storia a scuola, pensano di essere gli unici in grado di risolvere i problemi cambiando tattiche, quando non riescono neanche a capire di cosa si parla. Che passino una decina d’anni a studiare i nazisti e poi ne riparleremo. Sul web si leggono commenti incredibili che sbraitano di antifascisti che odiano le persone sbagliate. Certo c’è sempre la possibilità di danni collaterali. Per questo chi difende la propria parte spesso è molto cauto. Che passino qualche anno a rovistare nella spazzatura, ad intercettare messaggi nelle fogne di internet, e allora potremmo discutere di obiettivi giusti o sbagliati. Qui ci sono nazisti che si fingono sostenitori di Trump nel tentativo riuscito di dipingere gli antifascisti come persone indiscriminatamente violente. Stranamente, non ci si preoccupa altrettanto per la miriade di finti account antifascisti sui social, o per i video taroccati di finte zuffe vecchie di anni attribuite agli antifascisti.
Altri, poi, sono fissati non col fatto che si prendano di mira le persone sbagliate, ma con la politica dei pugni. A giudicare dalle attuali critiche diffuse, pare che l’attimo che precede la rissa sia della massima importanza. Sarebbe una questione ottica e non un dilemma etico incentrato su chi esattamente ha colpito per primo. O forse è una sorta di analisi da tifoso in poltrona che si chiede se la violenza esercitata da certe persone è proporzionale. Certo sono discussioni importanti da tenere all’interno di gruppi che si preparano ad opporsi ai suprematisti bianchi. Persone sul posto che analizzano esattamente cosa è successo sulla base delle informazioni in loro possesso, chi è responsabile, cosa pensano: è tutto molto utile e va a loro vantaggio. Dopo aver visto cosa ha funzionato e cosa si può migliorare, possono lasciare che siano le informazioni e le autovalutazioni a guidare le loro decisioni. Questo è cinquantamila volte più utile di un’analisi maldestra fatta da persone che non conoscono i fatti. Come potrebbe essere altrimenti?
La gente vuole capire se pestare un nazista va bene. Magari per prevenzione. Magari quando non minaccia qualche praticante ebreo o musulmano, quando non aggredisce persone di colore o investe qualcuno con l’auto. Ma poi se si dà carta bianca ai nazisti la violenza cresce, e dunque predicare la resistenza passiva non è esattamente nonviolento. Ma anche ammettendo che le tattiche gandhiane siano in qualche modo più efficaci, la realtà è che c’è reazione quando si tenta anche UN solo atto di resistenza, o quando si cerca di frustrare le azioni dei fascisti. Questa pretesa all’interno del discorso antifascista mi incuriosisce. Ci sono persone che considerano inaccettabile ogni azione, per quanto innocua, rivolta a dare maggior potere alle comunità delle vittime e a proteggere i più deboli.
Questo non per dire che chi critica non è sinceramente preoccupato, o che le critiche non sono mosse da buone intenzioni. Il fatto è che mentre criticano le azioni di gruppi con cui loro non hanno alcun rapporto, sono i gruppi stessi ad avere un impatto positivo sulla comunità.
Quando un antifascista fornisce informazioni riguardo la natura politica di certi proprietari, i critici strillano al leso diritto di parola, anche se il locatario ha il diritto di rifiutarsi di fare affari con loro. Anche se l’inazione scatena la violenza dei fascisti che assaltano le persone di colore per strada. (Ancora una volta, è per questo che chi è in contatto con la realtà locale conosce le cose meglio dei tanti nessuno che dettano strategie su Twitter.com).
Quando un’organizzazione antifascista identifica dei fascisti e informa i loro datori di lavoro che questa gente predica il genocidio (altra tattica legale e nonviolenta), i critici sbraitano che si tratta di violazione della libertà di parola, come se sostenere la pulizia etnica fosse un’opinione politica qualunque, accettabile, che nessuno deve mettere in questione.
È quasi come se la critica, mettendo a tacere l’opposizione al fascismo, ne facilitasse la diffusione. Questo è ciò che accade quando persone che non conoscono la situazione pretendono di sapere cosa succede in ambiti che non gli appartengono, credono di saperne più di chi vive i problemi sulla propria pelle. Questo è ciò che accade quando persone che dicono di voler fare qualcosa di decisivo non fanno altro che attendere l’idea perfetta e intanto criticano chi vorrebbe agire. Il male non si ferma finché non viene fermato. Il minimo che possa fare una persona non coinvolta è levarsi dalle palle.
Chi aderisce ad un gruppo fascista lo fa per sentirsi forte e potente. Mostrare un forte dissenso può servire a fare a pezzi quell’illusione. L’efficacia è stata dimostrata più volte, ma a molti non interessa, sono più interessati a sapere se la Pelosi condanna l’antifascismo che a vedere cosa succede alle persone più suggestionabili. Quando i buffoni feticisti nazisti capiscono che c’è un prezzo da pagare (perdere amici, essere identificati, perdere il lavoro, prendere due calci ad una manifestazione), spesso si dissociano e scoraggiano l’ingresso di altri. È stata proprio la dolorosa consapevolezza del fatto che comparire in pubblico comporta delle conseguenze a spingere molti nell’oscurità. L’abbiamo visto negli anni ottanta, e poi negli anni novanta e agli inizi di questo secolo. E lo vediamo oggi.
C’è una ragione se i fascisti fanno del loro meglio per nascondersi dietro la maschera del patriottismo. La stessa che spingeva il KKK ad incappucciarsi. La gente è ignorante, non conosce la storia, e nonostante le buone intenzioni tende a credere ad una propaganda cripto-fascista ben confezionata. Tende a vedere aree grigie che in realtà non esistono. Pensa di esporre una critica mentre mette il piede nella trappola. Sono troppo tronfi per accorgersene.
Forse è ora che chi critica l’antifascismo metta da parte i megafoni e osservi gli effetti delle loro azioni o della loro inazione. Che ripetano stupidamente gli slogan fascisti o invochino una vera resistenza dietro il computer, forse non stanno semplicemente criticando l’antifascismo.