Di William Gillis. Originale pubblicato il 26 ottobre 2017 con il titolo When “Restorative Justice” Means Restoring Peace, Not Justice. Traduzione di Enrico Sanna.
Se c’è un punto in cui sono in disaccordo profondo con la sinistra è il fatto che opti sistematicamente per la stabilità, o per l’unità collettiva contro la libera associazione individuale. Purtroppo, gli attivisti di sinistra preferiscono di gran lunga la comunità alla libertà. Tra le conseguenze è la perenne incapacità di affrontare il conflitto, si vede nella divisione e nel “tradimento della pace” un crimine più grande della questione che ha portato alla frattura.
È chiaro nel processo di concertazione, ampiamente distorto così da preservare l’integrità del gruppo a discapito della libertà di associazione dell’individuo. E si vede anche nei richiami alla “giustizia riparatoria”, spesso distorta tanto da diventare una semplice bandiera di chi vuole riportare pace e unità in una comunità; ad ogni costo. Quando la “giustizia riparatoria” è vista in questo modo, l’obiettivo non è più l’eliminazione del danno causato da un violento, o la limitazione del rischio che quest’ultimo rappresenta, ma la canalizzazione del conflitto attorno alla persona violenta verso forme contenute, innocue. L’obiettivo principale di questo genere di “giustizia riparatoria” consiste nell’evitare il conflitto alla luce del sole, la rottura delle amicizie, e così via. In breve, si facilita la vita di quei testimoni a cui non va di dover scegliere da che parte stare.
Ovviamente, una “giustizia riparatoria” deve andare “a vantaggio della vittima”, ma è facile aggirare la questione: basta dire che la “vittima” è un’identità generica e non una persona specifica e chiunque può dichiarare il proprio status di vittima. Questa schifezza è una fottuta costante: un violento, uno stupratore, o chi lo difende, si giustifica dicendo: “Parlo come vittima”… Come se il fatto di essere stato vittima di atti simili giustifichi il crimine in questione. È chiaro che tutto ciò non ha senso, ma funziona perché gli attivisti di sinistra sentono la comunità in questo modo. Farebbero o direbbero qualunque cosa pur di “recuperare” quel senso comunitario, ma non per risarcire la vittima o impedire l’abuso.
Questi aggressori, questi capitalisti sociali che stanno ai vertici delle gerarchie organizzative amano dire “questa non è una giustizia veramente riparatoria” per attaccare i contestatori. “Noi abbiamo creato un processo di riconciliazione pensato appositamente per insabbiare le accuse, e se voi lo rifiutate è perché siete in malafede.” Parlare dell’accaduto è considerato un tradimento. Non importa se comunicare le proprie esperienze a chiunque è un importante “diritto fondamentale”, e non importa se diffondere l’informazione è di cruciale importanza per accrescere la capacità di agire di tutti. “Giustizia riparatoria” ha finito per significare imposizione del silenzio. È la versione anarchista di quelle stantie organizzazioni socialiste che chiedono ai peones di presentare le accuse contro i boss, da cui hanno subito violenze, all’apposita sottocommissione, per poi denunciarli per non aver seguito fino in fondo le sfiancanti procedure interne dell’organizzazione. “Cos’è questo Cointelpro?!” strilla il merdoso di mezza età, terrorizzato dal fatto che il suo potere comincia a vacillare. E così ricomincia l’ondata di post di chi si congratula con se stesso dicendo “è la cultura tossica dello sbugiardamento!”, e chiamando a raccolta chi ha qualche legittima paura ma anche chi preferirebbe non sbugiardare il potere.
Tutti sappiamo che lo sbugiardamento può essere adattato vilmente alle ragioni degli opportunisti sociopatici che cercano di guadagnare capitale sociale, se non di distruggere. E sappiamo anche che condannare qualcuno a priori, escludere chiunque sia anche solo problematico, porta all’isolamento e all’annullamento della persona. Certo ci sono pericoli, ma è irritante il modo in cui chi si annida nel capitale sociale sta distorcendo la critica al capitalismo sociale trasformandola in un’arma da rivolgere contro tutte quelle azioni che ridistribuiscono il capitale sociale. Sbugiardare il maschilista di turno diventa un atto di capitalismo sociale (“vogliono solo acquisire più capitale e cercano di guadagnare argomenti”), mentre non lo è accettare passivamente e sfruttare il capitale sociale? Tutto corretto? Così i complici dell’aggressore usano la loro rete nazionale di amicizie per coprire di insulti la vittima ed in questo non si vede mai capitalismo sociale ma solo una marmaglia di giovani queer che protestano il fatto di essere considerati un branco di iene che fa fuori il capitale sociale; i veri “capitalisti”.
Nella sua forma più comune, la “giustizia riparatoria” premia il silenzio e l’unità a favore dello status quo. Sposta la critica del capitalismo sociale da una critica anarchica delle gerarchie e dei monopoli ad un atteggiamento decisamente non-anarchico contro l’individualismo e la divisione. Visto così, l’errore del capitalismo sarebbe il suo presunto individualismo, la sua fluidità, non la sua rigidità gerarchica. L’emarginazione della vittima, al fine di preservare la solidità della comunità e dell’organizzazione, è la conseguenza naturale di questa visione distorta.
La via all’anarchismo è tortuosa e pericolosa; occorre trovare un percorso che eviti le tante deviazioni che portano al fallimento. Certo, continuando ad escludere gli altri non arriveremo mai al mondo che vogliamo: questo è un tipico errore della cultura dello sbugiardamento. Ma è altrettanto importante capire che, nel breve termine, dobbiamo pur tamponare l’emorragia. Tracciare una linea che metta di là gli stupratori, gli spioni e così via è chiaramente, assolutamente importante. Non abbiamo tutto il tempo e l’energia che vorremmo avere; accettare certe persone spesso significa ipso facto escluderne altre. Gli strumenti e le tattiche adottate nel breve termine non sempre possono essere una prefigurazione esatta dell’utopia che vogliamo realizzare. Anarchia non significa prendersi a cazzotti, ma in certi contesti bisogna alzare le mani. Vogliamo un mondo pieno, ricco di contatti, ma aumentare i contatti significa a volta dover denunciare e aggirare il pericolo.