[Di Chris Shaw. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 18 febbraio 2017 con il titolo “Full Employment” Useful Idiots. Traduzione di Enrico Sanna.]
L’economia moderna gira in tondo. L’aumento della produttività non riesce a stare dietro all’inflazione dei salari ed è stagnante, soprattutto in Gran Bretagna. La richiesta di lavoratori si concentra sempre più nei settori a paga bassa, a tempo determinato e con contratti part-time, dando vita così al moderno precariato fatto di persone della classe lavoratrice, studenti e il sottoproletariato in generale. I guadagni della meccanizzazione e della tecnologia sono incamerati dagli interessi capitalisti tramite la proprietà intellettuale e il finanziamento pubblico della ricerca scientifica corporativa, il che significa che sempre più persone non solo entrano nel precariato, ma oltre al lavoro perdono anche ogni sostegno da parte dello stato. Un’esistenza del genere è brutta e frustrante. I mercati non stanno liberando gli spiriti imprenditoriali per creare una categoria di appaltatori “alla Konkin”, esenti dalle incertezze del capitalismo di stato, ma sono stati distorti dalla volontà di quel sistema per creare la realtà appena descritta.
Ovviamente devono esistere alternative che vadano contro questo sistema, che generino metodologie e prassi che ne prendano il posto. Su internet, nonché sulle pubblicazioni che parlano di politica, circolano già molte di queste idee. Una in particolare sembra emergere: una garanzia del lavoro che crei le condizioni per la piena occupazione. È un’idea che circola da anni, era inclusa in alcuni elementi del sistema di Bretton Woods e dava ai governi nazionali ampio spazio di manovra in materia di decisioni economiche. Oggi, in un mondo finanziarizzato come quello occidentale, in cui la speculazione crea più crescita economica delle manifatture, l’idea ha preso piede. Cosa c’è di meglio per sbloccare i potenziali produttivi dei disoccupati e dei sottoccupati? Cosa c’è di meglio quando occorre una forza lavoro che realizzi un programma fatto di “necessarie” infrastrutture e case?
Purtroppo chi propone queste cose generalmente si comporta da utile idiota a vantaggio del capitalismo e della sua sistemica produzione tramite lo stato. Il capitalismo confida in una miriade di progetti infrastrutturali per incrementare il valore dei suoi capitali ed espandere i mezzi con cui si realizzano i capitali stessi. Le economie artificiali di scala sostenute da progetti statali, che si tratti dei territori dati in concessione alle ferrovie nell’Ottocento, le chiudende in Gran Bretagna, o i programmi interstatali degli anni 1950/’60. Tutti sono serviti alla centralizzazione del capitale, la speculazione fondiaria e la glorificazione del profitto. E poi, date le mille crisi del capitalismo, non c’è niente di più utile di uno stato che possa assorbire forza lavoro e produzione in eccesso. Da qui il complesso militare-industriale (che fornisce uno sbocco ai finanziamenti all’informatica e alla ricerca) e il complesso carcerario-industriale (che contribuisce a distribuire la forza lavoro in eccesso).
In termini più sistemici, questo lavoro garantito radica il modo primario di accumulazione del capitale: la relazione tra salario e lavoro e l’alienazione del lavoratore dai mezzi di produzione. Cedere i mezzi di produzione allo stato non limita questa fondamentale relazione sociale. La legittima, e promuove la centralizzazione dei capitali in quanto il lavoro può essere usato per diversi sbocchi produttivi e non per i capitali individuali. Alla fine nasce un incubo marxista a più strati. E intanto ciò che davvero dà prosperità economica (buon accesso ai capitali, liberazione delle capacità imprenditoriali, autonomia sul posto di lavoro, argine ai monopoli tramite la concorrenza sul libero mercato) viene soffocato dal nesso stato-corporativo. Il lavoro garantito non è un’alternativa agli attuali mezzi capitalistici. Tutt’al più può temporaneamente rallentare le dinamiche interne del capitalismo, che ha bisogno di crisi. L’azione dello stato non fa che dare stabilità. Il problema reale è la relazione tra salario e lavoro e il monopolio dei mezzi di produzione, non il fatto che non ci siano abbastanza lavoretti per occupare tutti.
Un cambiamento vero, radicale, verrà solo dal basso, nella società civile e nelle comunità. Non dall’azione dello stato né da una delle sue organizzazioni o interessi parassitici. Nascerà dalla distruzione dei maggiori monopoli capitalistici, quello della terra, del denaro, della proprietà intellettuale, dei dazi e dei trasporti incentivati. Nessuno stato, in quanto benefattore di questi monopoli, farà mai queste cose. Solo un’azione concertata che passi attraverso il filtro agorista e sindacalista rivoluzionario può offrire un’alternativa all’attuale sistema. La lotta passante dallo stato, come quella per i diritti dei lavoratori e lo stato sociale, ha fallito. L’antagonismo tra stato e società civile è irrecuperabile, ora come in passato. Bisogna creare alternative, come si è fatto e si continua a fare in tutto il mondo. Non importa se si tratta di banche del tempo e monete alternative come in Grecia, di produzioni alternative negli hackerspace o in piccoli laboratori (che dimostrano l’inutilità della produzione di massa) o delle economie cooperative che già esistono in Spagna e Sud America. Solo quando queste alternative potranno essere prodotte continuamente e con successo, solo allora vedremo come l’insieme di azioni sistemiche potranno combattere il capitalismo. Questo esito non verrà mai da ideologie come quella della “piena occupazione” né dagli utili idioti che infettano il dialogo radicale.