No, la “Politica Identitaria” non ha Eletto Trump

[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 14 novembre 2016 con il titolo No, “Identity Politics” Didn’t Elect Trump. Traduzione di Enrico Sanna.]

Tra stime dei danni e accuse post-elezioni, un argomento che ho sentito fin troppe volte è che la vittoria di Trump sarebbe una reazione al “politicamente corretto”. Qualcuno ha accusato la sinistra di aver, negli ultimi otto anni, “demonizzato i bianchi” invece di concentrarsi sui problemi socioeconomici. Altri hanno strillato che liquidare i sostenitori di Trump come “penosi” sarebbe stata una mossa strategica stupida. E poi su Reason quello sfasciavetrine umano che è Robby Soave, il cui unico talento consiste nel riscrivere i sermoni di Reed Irvine e Dinesh D’Souza mettendoci sopra il suo nome, accusa letteralmente gli spazi protetti (luoghi nei campus dove le discussioni progressiste sono tabù, ndt) e le premesse preliminari (che avvertono sul possibile contenuto offensivo di uno scritto, ndt) di aver favorito Trump. (No, se c’è stato qualcosa che ha sconfitto la Clinton sono stati gli elettori democratici disgustati da un partito democratico che che ha abbracciato troppe di quelle politiche neoliberali, niente affatto libertarie, amate da Reason).

L’odio si sente dappertutto. Razzisti, sessisti, xenofobi e omofobi, dicono queste persone, hanno ragione a sentirsi offesi per gli attacchi al loro bigottismo. E anche se le critiche sono fondate, i marginalizzati avrebbero dovuto cercare di essere meno conflittuali per non alienarsi la classe lavoratrice bianca il cui sostegno era necessario per sconfiggere il fascismo. Sul serio: la scorsa primavera un anarchista greco mi ha chiesto se valeva la pena far vincere un fascista per difendere i diritti dei gay. Freddie DeBoer sostiene queste porcherie, anche se lui usa espressioni annacquate come “liberal con un lessico accademico” perché non gli va di dire chiaramente che neri e LGBT dovrebbero tacere per non offendere la classe lavoratrice.

Ma il senso di ingiustizia della destra culturale è infondato. Loro sono i primi a fare le vittime accusando gli altri di “vittimismo”.

Ricordo quando ero piccolo di aver sentito i vecchi lamentarsi perché “da quando quelli là strillano dei loro ‘diritti’ questo paese sta andando in vacca.” Questo è l’atteggiamento di chi dice che bisogna “riprendersi il paese”.

Qualunque cosa pensino dei marginalizzati, che chiedono il rispetto dei loro diritti, certo non sono modesti riguardo i loro diritti. Pensano di avere il diritto di decidere che lingua si deve parlare, che abbigliamento religioso indossare, chi sposare, in quale gabinetto andare. E quando dicono che il politicamente corretto è un attacco alla loro libertà, intendono la loro libertà di proibire agli altri ciò che loro non approvano. Non puoi neanche dire “Buone vacanze” che loro ti accusano di fare la “guerra al Natale”. E anche se prendono in giro gli “spazi protetti” e le “premesse preliminari”, sono emotivamente i più fragili, i più facili all’offesa.

Parlano di “Polizia del Pensiero”, si confidano con altri, uomini e bianchi, dicendo: “Certe cose non si possono più dire, però…”

Confrontando le loro lamentele con quelle delle persone marginalizzate criticate da loro, si nota un’asimmetria totale. Le donne che indossano il hijab si preoccupano perché potrebbero essere aggredite, a parole o di fatto, quando escono di casa. Un nero disarmato si preoccupa perché potrebbe essere sparato alle spalle da chi poi gli mette una pistola in mano una volta morto, o perché potrebbe essere fatto fuori sulla base di un sospetto. Gay e transessuali si preoccupano perché potrebbero essere pestati a morte.

Chi pensa di vivere un incubo totalitario, si preoccupa se qualcuno lo guarda male per aver detto sporco negro, o perché non è bene infuriarsi davanti ad una donna in hijab o a due uomini che si baciano, non si merita neanche una mezza pacca. E se qualcuno pensa che tutto ciò si abbastanza per spingerlo a votare un fascista mascherato giusto per “dare loro una lezione”, allora sì, fa pena.

Per giunta, trattare le preoccupazioni dei marginalizzati come qualcosa di meno importante della loro unità contro il fascismo è strategicamente stupido. La lotta per i diritti umani di base da parte delle persone di colore, le donne, i gay e gli immigrati non è una strategia della classe di potere volta a dividere la classe produttiva. Rosa Parks non si rifiutò di cedere il posto, né quelli di Stonewall decisero di lottare perché al soldo delle élite di potere. Il razzismo, il sessismo e l’omofobia: queste sono le armi usate dalla classe di potere per mettere gli uni contro gli altri. Non sono i marginalizzati, in lotta per la loro dignità e la loro vita, a “dividere”, facendo così il gioco del potere capitalista. I gonzi della classe di potere, quelli che dividono la società, sono quelli che voterebbero un fascista per dispetto, perché ci sono persone che non approvano.

E far fuori i marginalizzati togliendo importanza alle loro istanze non placherà i bigotti. Questi ultimi saranno soddisfatti solo quando tutti collaboreranno attivamente alla repressione. Si sentono vittime del semplice fatto che esistono persone che loro non approvano. Come dice il mio amico @lbourgie su Twitter:

Nel corso degli anni ci sono stati svariati studi e sondaggi che dimostrano come le maggioranze abbiano una visione distorta delle minoranze… Si pensa che le donne abbiano la stessa parola degli uomini quando invece ne hanno il 15%. Si pensa che chi assume dirigenti uomini ne abbia altrettanti donne. Americani e europei pensano che nel loro paese i musulmani di origine mediorientale siano esponenzialmente maggioritari. Gli eterosessuali si sentono ossessionati dalla propaganda gay se il 2% dei personaggi televisivi è LGBT. I cristiani si sentono ingiustamente penalizzati e i più svantaggiati negli Stati Uniti. Sapendo tutto ciò, perché reagire di pancia contro chi sostiene che ci sono gruppi politici minoritari (la “politica identitaria”) che hanno sommerso i problemi reali?

La poesia di Niemoller, “Prima arrivarono per i socialisti…”, non è un semplice cliché. Quando ti sbarazzi delle persone marginalizzate, non li ritrovi più quando hai bisogno di loro. Questo è il significato del motto dei Wobbly: “un’offesa ad uno è un’offesa ad ognuno”.

Abbandonare i marginalizzati è strategicamente stupido perché sono loro, alienati dal neoliberalismo della Clinton, ad avere più probabilità di stare a casa o votare un terzo partito. Molti accaniti sostenitori della Clinton bollano l’opposizione di sinistra come “uomini bianchi privilegiati”. Ma proprio loro provengono dall’alta borghesia professionista bianca, il cuore demografico dei liberal istituzionali. Tanto che, invece di smantellare le strutture del potere, preferiscono aderire a qualunque politica razziale o di genere, al vecchio modello degli anni settanta basato su una “politica identitaria” unidimensionale che puntava esclusivamente a mettere donne e persone di colore nelle strutture di potere esistenti, ignorando le questioni di classe.

Questa ideologia è quasi l’opposto della politica intersezionale a cui aderiscono i cosiddetti “giustizieri della società” odiati dalla destra culturale. La sinistra che si oppone alla Clinton è piena di persone di colore, donne LGBT (comprese molte transgender odiate da tante femministe di seconda generazione), professioniste del sesso, e lavoratori degli strati più bassi. Probabilmente, i principali ammiratori della Clinton provenienti dalla classe medio-alta (come Amanda Marcotte, Peter Daou, Sady Doyle, Clara Jeffrey e simili) vorrebbero insultare o bloccare quelle persone marginalizzate che espongono punti di vista critici sui social media, insisterebbero a dire che non esistono, che solo gli “amici di Bernie Sanders” e la destra ce l’avevano con Hillary.

Rispetto al 2012, la partecipazione al voto degli afroamericani è calata molto; forse perché non riuscivano ad entusiasmarsi per una candidata che approvava i crimini e le “riforme” sociali di suo marito mentre parlava di “super-predator”, una che nel 2008 ha fatto una campagna elettorale basata su velati messaggi razzisti riguardo Obama.

E la vittoria di Trump non significa il riemergere del razzismo bianco in risposta al “politicamente corretto impazzito”. Trump ha preso due milioni di voti meno di Romney nel 2012. La Clinton è stata bocciata perché la sua politica estera ed economica era due micron alla sinistra dei repubblicani istituzionali, e nessuno aveva voglia di fare un’ora e mezzo di fila per un candidato spazzatura come lei. Punto.

Dunque, non accusate i marginalizzati per la sconfitta della Clinton.

La società a cui puntiamo (a cui dovremmo puntare, almeno) è una società in cui gli esseri umani sono considerati il fine, non il mezzo. Come si suol dire, il mezzo è il fine in fase di svolgimento. Non si può edificare una società giusta e libera se alcune persone sono più sacrificabili di altre.

Anarchy and Democracy
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