Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 24 agosto 2023 con il titolo Horseshoe Theory. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
È capitato di recente che qualcuno su Facebook ha pubblicato la rappresentazione grafica di un certo concetto centro-liberale chiamato “teoria del ferro di cavallo”, ovvero l’idea che destra e sinistra più si allontanano dal centro e più diventano autoritarie e simili.
Il problema è che con questa teoria si dà per scontata la realtà attuale, non se ne riconosce la natura di sistema di potere storicamente contingente né la sua origine violenta.
Ciò che distingue gli “estremi” dai “moderati” o “centristi” è la profondità delle riforme proposte, che solo marginalmente modificano la struttura di potere esistente, e che per di più sono messe in pratica da quegli stessi attori statuali e aziendali che gestiscono il potere.
In un immaginario parlamento quattrocentesco, una politica ultraconservatrice di “estrema destra” avrebbero riportato la società alla schiavitù dell’antichità, l’“estrema sinistra”, ultraprogressista, avrebbe spinto l’acceleratore verso il capitalismo, e il centro avrebbe preso la “giustissima” decisione di fare giusto qualche ritocco al feudalesimo esistente.
I sistemi politico-economici storici hanno un inizio e una fine, e il passaggio da un sistema ad uno diverso comporta necessariamente cambiamenti che le classi al potere ovviamente considerano “estremi”.
Qualcuno, rispondendo su Facebook, ha citato Nick Cave: destra e sinistra devono ricordarsi che “è il centro a tenere in piedi la baracca”.
Il problema, ancora una volta, è che un sistema di potere con un “centro” è dato per storicamente assodato. Ma il “centro” è solo un’alleanza tra stato e capitale, il prodotto di una violenza infinita che dura da 500 anni. Sotto il feudalesimo, il centro era un’alleanza strutturale tra la Chiesa, la corona e i nobili.
Stare al centro significa accettare tacitamente la legittimità del sistema di potere dominante e limitare le “riforme” a ciò che i gestori del sistema considerano accettabile.
Visti in questo senso, il centro e la sua presunta legittimità portano a concetti come la “fine della storia” di Bell o di Fukuyama. La storia diventa così un processo che, passando per successive razionalizzazioni, culmina nel modello neoliberale di “capitalismo democratico” imposto globalmente dal Washington Consensus, con un’accettabile gamma di opzioni che vanno da, poniamo, Neera Tanden e Madeleine Albright a un estremo a David Frum e Condoleezza Rice all’altro. Raggiunto il grado massimo di razionalizzazione, la storia arriva al capolinea e qualunque progresso futuro non può che essere un’elaborazione con aggiustamenti minimi all’interno di questa struttura.
Un esempio di questo modo di vedere la realtà viene dal guru della finanza pop Suze Orma, che consiglia un “piano d’accumulo” per i propri investimenti quando mancano più di sette anni alla pensione. Perché, spiega, nonostante le fluttuazioni del mercato azionario, in genere nel lungo termine le quotazioni salgono sempre. Ma così non è. Dopo una fase depressiva a onda lunga può passare anche più di una generazione prima che il valore riprenda a crescere. Occorsero più di trent’anni perché il Dow Jones tornasse in termini reali al livello del 1929. E questo sempre che la depressione, contrariamente all’assunto generale, non sia terminale invece che ciclica.
Insomma, la teoria della Fine della storia è antistorica. Non tiene conto del fatto che quell’ordine capitalista liberale che per il centro è la “normalità” è potuto nascere solo in presenza di certi requisiti materiali, e che è lo stesso capitalismo liberale che, evolvendosi, distrugge questi requisiti minando la propria stabilità. Requisiti che tra l’altro comprendevano un illimitato sbocco redditizio che garantisca un’accumulazione su grande scala e risorse illimitate a basso costo. Ma come dimostrano le crisi sempre più profonde, dal decennio 1870 alla Grande depressione e poi a partire dagli anni Settanta del Novecento ad oggi, questa disponibilità infinita non esiste. Ed è stata proprio la precarietà di queste basi materiali, incapaci di garantire una crescita continua, a produrre in quest’ultima generazione l’erosione del centro e l’estremizzazione delle ali lamentate da chi parla di teoria del ferro di cavallo.
A tutto ciò poi si ricollega un’altra chicca concettuale, secondo la quale i grandi cambiamenti politici sono il prodotto soprattutto della “conoscenza” o della “presa di coscienza”. Per cui se, ad esempio, al mercantilismo è seguito un apparente “libero commercio”, con le leggi sul grano (Corn Laws), l’abolizione della schiavitù e varie altre cose, è perché “noi” abbiamo imparato che il mercantilismo o la schiavitù non funzionano. Funzionavano eccome, invece, funzionavano per chi ne ricavava benefici. I cambiamenti in realtà ci furono semplicemente perché salirono al potere quelle classi per le quali il mercantilismo e tutto il resto erano inutili.
A parte illusioni centriste o liberali sulla “fine della storia”, il sistema capitalistico ha non solo un inizio ma anche una fine. È la sua stessa crescita, seguita da periodi di stabilità, a minare le condizioni che ne permettono la sopravvivenza sul lungo termine. Quando studiamo il sistema, così come quando esaminiamo possibili strade alternative, non dobbiamo cadere nell’illusione che un qualche aggiustamento marginale possa stabilizzare un sistema che, in realtà, è condannato dal suo stesso sviluppo. L’ideologia centrista non è che l’ultimo sussulto di una classe di potere che cerca di impedire la transizione.