Di Dawie Coetzee. Originale pubblicato il 17 marzo 2022 con il titolo Towards Prefigurative Design. Traduzione di Enrico Sanna.
Si sente sempre più spesso parlare di prefigurativo, un aggettivo che esiste in ambito politico radicale da circa cinquant’anni. Da disegnatore di professione, credo che debba esistere da qualche parte un progetto prefigurativo, anche se poco noto. Cerco “prefigurative design” su Google, sperando di trovare qualche esempio concreto nel senso che intendo io.
Qualche dato preliminare. L’espressione politica prefigurativa fu creata dal teorico del socialismo Carl Boggs nel 1977. Rappresenta un vecchio principio dei Wobbly: “edificare una nuova società nel guscio della vecchia”, e contempla fra le varie linee strategiche le controistituzioni e il potere duale, e si propone di rendere superfluo l’ordine dominante duplicandone le funzioni in modi appropriati ai desideri di una nuova società. I principi della politica prefigurativa rientrano tra le caratteristiche di molti movimenti di protesta, e sono particolarmente elaborati nei movimenti antiglobalizzazione tra i due secoli, da Occupy a Black Lives Matter. Che per qualche tempo sono riusciti ad allontanare l’autorità dello stato da piccole porzioni di territorio, realizzandovi una bozza di quella società egalitaria, antiautoritaria e apiramidale che vorrebbero.
Il principio della prefigurazione mi attira molto ma, da inveterato disegnatore di cose reali dotato di immaginazione iperattiva quale sono, non posso limitarmi ad immaginare gli oggetti fisici che si userebbero in una società anarchica, o le strutture, i luoghi in cui vivremo. Capisco benissimo la riluttanza, soprattutto tra gli “anarchici senza aggettivi” (dopotutto, l’anarchismo prescrittivo è una contraddizione in termini), ma credo, ad intuito, che allo stato attuale serva un progetto. Il mondo è pieno di cose la cui utilità presuppone l’ordine attuale, e questo rafforza l’ordine attuale, appunto, mettendo nelle mani della gente, quasi per caso, mentre questi affrontano le circostanze, quegli strumenti che perpetuano tale ordine. Ma manca, nel mondo, ciò che potrebbe rendere possibili un ordine diverso, più desiderabile; perché, pur se non in dettaglio, abbiamo almeno un’idea abbozzata di come vorremmo che fosse la nostra società, soprattutto se pensiamo a quanti elementi del mondo attuale servono unicamente a perpetuare l’ordine dominante. Giusto un esempio: se capiamo che gran parte del traffico automobilistico non è dovuto a bisogni casuali o a una “passione per il viaggiare”, e neanche ad una spontanea e diffusa passione per i luoghi remoti, ma è il risultato di strutture imposte che servono a perpetuare il capitalismo industriale, capiamo anche che un tale fenomeno nella nostra società ideale non può continuare. Dobbiamo quindi aspettarci più “pedonalità”? E come immaginare questa più o meno grande “pedonalità” che ancora non esiste? Come prefigurarla? Soprattutto se pensiamo che l’attuale dipendenza dall’automobile è il risultato di schemi prefigurativi del capitale che vanno in senso contrario, e che sono imposti in vista di una domanda popolare.
Se il mondo è stato distorto da qualche presunto schema prefigurativo, non si potrebbe raddrizzarlo, almeno in parte, con uno schema di genere completamente diverso? Da qui la mia ricerca su internet.
Il risultato più promettente era uno studio del 2001, Prefigurative Politics and Design (Architettura e politica prefigurativa, ndt), di un esperto di design di nome Alix Gerber. Speravo che l’aggettivo prefigurativa si riferisse sia a politica che a architettura, e invece no. Lo studio è comunque una breve ma eccellente introduzione alla questione, ed elenca una serie di possibili ruoli che un designer potrebbe ricoprire in una politica prefigurativa. Mi piace soprattutto quando Gerber riconosce il modo in cui il linguaggio formale del centralismo industriale e della produzione di massa ha inquinato il pensiero del designer, una critica che ho spesso cercato di articolare anch’io. E sono perfettamente d’accordo quando dice che il valore della creatività dei non professionisti è indiscutibile, e che è positivo che sempre più persone si occupino di progettazione, il che è un tratto importante del mondo che vogliamo. Deludente invece il fatto che non dedichi una parola allo studio dell’architettura popolare, perché è qui che troviamo lo spunto per una vera architettura prefigurativa.
Anni fa mi è capitato di leggere uno studio, di cui non riesco a trovare la fonte, sui fienili ottocenteschi negli Stati Uniti. Spiegava come da un insieme di tentativi architettonici, presenti sotto forma di cultura comune di una comunità regionale, abbia avuto origine una grande varietà di elementi unici, ognuno adattato alle circostanze ma tutti basati sullo stesso schema. Gli stessi concetti li trovo anche nell’ottimo How Buildings Learn (Gli edifici imparano, ndt), 1994, di Stewart Brand, che in un capitolo dedicato all’architettura popolare cita lo storico dell’architettura Dell Upton:
“[Thomas] Hubka fa distinzione tra il modo di ideare popolare, che smonta concettualmente i modelli esistenti e li rifà in nuove forme, e il professionista che mette assieme elementi di fonti disparate per risolvere problemi architettonici. Il modo di procedere del progettista popolare lo definisce invece “obbligato a priori”: scegliendo di limitare gli ideali architettonici a ciò che è disponibile nel contesto locale, il progettista popolare riduce il proprio compito a dimensioni gestibili. Pur generando strutture apparentemente simili e monotone, questa tecnica dà spazio, all’interno delle sue forme, all’individualità, cosa che permette al progettista di concentrarsi sulla soluzione ingegnosa di particolari problemi invece di reinventare forme nuove.”
Vale la pena studiare Upton, Hubka, Howard Davis, e soprattutto Christopher Alexander, in questo senso; si tratta di autori con una posizione più polemica rispetto ad altri del diciannovesimo secolo come A.W.N. Pugin, John Ruskin e William Morris. Utile ai nostri fini, una volta spogliato del moralismo estetico vittoriano, il detto di Pugin “Non costruite decorazioni, decorate le costruzioni”. Il fatto è che queste persone tendono a progettare in questo modo quando progettano per se stessi, seguendo i propri bisogni, non per rimarcare la propria appartenenza ad una cultura professionale ristretta. La gente tende a prendere ciò che conosce per adattarlo ai propri bisogni personali con un facilissimo processo di adattamento, cosa che devono fare comunque per potersi esprimere creativamente senza costi aggiuntivi quando sono costretti.
È un modo di procedere che mi è capitato di vedere in azione nel mondo delle auto sportive o truccate. Nonostante la facile disponibilità di informazioni tecniche, molti preferiscono fare a occhio. La maggior parte di loro probabilmente monterebbe un asse posteriore triangolare a quattro giunti con “i giunti di fondo in orizzontale ad altezza di marcia”, piuttosto che star lì a calcolare un immaginario centro di rotazione istantaneo contro un’immaginaria linea anti-squat al 100%. Vero è che talvolta si possono fare errori anche molto gravi, ma in gran parte dei casi l’intuito funziona a meraviglia. E quando non funziona c’è tutta una comunità su internet pronta a spiegare perché e a parlare dell’argomento per giorni e giorni.
Io non so se questa preziosa scorciatoia propria del progettare popolare, che consiste nell’utilizzare schemi, euristiche e tipologie esistenti, spieghi la sua larga diffusione. La capacità di progettare partendo da principi base, e di cavarne soddisfazione, sembra assai poco diffusa nella società. Ma se è diffusa come un velo sottile, direi che è diffusa equamente. Sembra legata a certe capacità di andare controcorrente. Non so se è dovuta a un talento innato o se è, spero io, trasmissibile. Può darsi che, semplicemente, abbiamo perso l’abitudine di progettare perché il capitalismo industriale modernista ha arrogato quel ruolo a un’élite di professionisti, vietandolo a tutti gli altri, così che soltanto chi ha avuto il privilegio di accedere a studi elitari e chi ha la passione di dare forma alle cose, anche per la semplice gioia di farlo, può trasmettere tali capacità e superare le restrizioni.
Il ruolo del progettista, per come la vedo io, non è di “amplificare”, sostenere, diffondere o promuovere l’attività dei giovani progettisti, con tutti i rischi di cooptazione citati da Gerber, né di fare da fornitore di servizi nelle immediate circostanze, cosa che solitamente si preferisce fare ma che tende anche a diventare un termine palliativo fatto di elevatori, pallet e nastro isolante, cosa che per me è insufficiente sia a breve che a lungo termine. Desmond Tutu diceva: “Ad un certo punto dobbiamo smettere di salvare gente dal fiume. Dobbiamo andare a monte e cercare di capire perché cadono nel fiume.” Io andrei oltre e rifarei il posto in cui la gente cade nel fiume, per impedire loro di caderci a meno che non vi si tuffino. Non è questo che intendeva fare padre Desmond?
A mio avviso la progettazione dovrebbe fornire una profusione di tipologie, schemi e euristiche che accelerino (di solito è un processo lento) il ripristino di ciò che si è perso con la soppressione dell’architettura popolare ad opera di un’élite professionale sotto il capitalismo industriale. Al momento non abbiamo gli strumenti pronti per realizzare l’Utopia. Servono strumenti che consentano di realizzare tante Utopie, ridondanti, così che la gente possa scegliere.
In un modo o nell’altro, queste tipologie, questi schemi, queste euristiche devono essere presenti alle persone, disponibili ma non imposte, ognuno dev’essere libero di riprodurle o meno, in tutto o in parte, nel proprio panorama abitativo. Non è necessario che tutto ciò provenga da una categoria specifica di persone, potrebbe venire da chiunque per qualunque ragione sia in grado di idearle, e di apprezzarle. Nessuno e chiunque.
Io credo che queste tipologie, questi schemi, queste euristiche sarebbero più comprensibili, e verrebbero adottate e interiorizzate più facilmente, se fossero rappresentate da esempi concreti. Questi esempi dovrebbero avere prima di tutto una qualità didattica, dovrebbe essere facile e rapido capire come sono fatti; dovrebbero affascinare, divertire, attirare l’interesse, ma non “fare magie” nel senso di sfidare le leggi della fisica: niente di ciò che può essere rivelato senza compromettere il funzionamento dev’essere nascosto. Secondo, dovrebbero essere in numero sufficiente e vario, in modo da far capire che si tratta di semplici istanze di un modello molto flessibile, e dovrebbero invitare le persone ad immaginare altre possibili iterazioni, ovvero creare. Terzo, dovrebbero essere di utilità immediata e allo stesso tempo dimostrare la propria capacità di adattarsi a futuri contesti diversi, spingendo così verso schemi d’uso che si avvicinino a quelli anticipati nel contesto a venire. Quest’ultimo impone all’ideatore un carico programmatico aggiuntivo, cosa che richiede capacità singolari che altri potrebbero non cogliere, oltre ad un modo di pensare la funzionalità che sia legato alla congiuntura.
Tipologie, schemi e euristiche devono inoltre essere flessibili e adattabili alle varie situazioni e ai diversi generi di espressione estetica. Devono contenere un’impostazione modulare a cui forse non siamo abituati, ma non la modularità fatta di componenti standardizzati fisicamente combacianti prodotti da un’entità centrale, bensì una modularità per cui ogni componente, ogni parte può essere concettualmente separata dal tutto e riapplicata indipendentemente ad una grande varietà di contesti. In altre parole, il progetto dev’essere un’assemblaggio di idee modulari. Dovrebbe presupporre il massimo di decentramento del capitale e la più ampia distribuzione del potere tecnologico, e favorire quelle innovazioni tecnologiche che favoriscono tutto ciò. Che dovrebbero per natura avere la possibilità di essere mutate, perché le persone, nell’adottare certe tipologie, certi schemi, certe euristiche, le cambiano. Sviluppano nuove idee, ulteriori miglioramenti, e una volta che questo prende l’avvio il progettista ha vinto.