Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 7 maggio 2019 con il titolo Review: Setting Sights. Traduzione di Enrico Sanna.
Trovo spesso difficile commentare il movimento del diritto a possedere armi, ho opinioni piuttosto ambivalenti.
Sostenere il diritto di portare armi sulla base del principio per cui ci si deve opporre ad un’autorità corrotta è qualcosa che non mi lascia indifferente. So bene che le restrizioni sono legate al controllo sociale della classe lavoratrice fin dai tempi delle britanniche leggi sulla caccia, del sud degli Stati Uniti schiavisti e segregazionisti, fino alla situazione attuale; conosco l’importanza dell’autodifesa del lavoratore in tutta una serie di scontri con la polizia, l’esercito e la sicurezza privata. Riconosco il ruolo che ha avuto l’autodifesa armata in situazioni che spaziano dai miliziani che soffocarono il golpe di Franco il diciannove luglio, a Robert Williams che difese il NAACP a Monroe, nella Carolina del Nord, fino alle Pink Pistols di oggi.
Purtroppo, sono esempi che raramente compaiono tra quelli solitamente citati. Chi strilla più forte alla tirannia di stato è, oggettivamente, chi è più privilegiato e ha meno ragioni di lamentarsi. Quasi sempre sono persone dalla pelle chiara che si sentono “oppressi” perché i loro occhi sono costretti a vedere in pubblico donne con l’hijab, persone dello stesso sesso che si tengono per mano, persone che parlano spagnolo e così via, e non gli è permesso spararli. Da qui la proposta politica “Riprendiamoci l’America”.
Per giunta, questi autonominati denunciatori della tirannia di stato, nonché sostenitori del diritto di resistere, dimostrano un’ipocrisia incredibile quando veramente lo stato abusa del suo potere. Associazioni come NRA (dei portatori d’arma, es) e Oath Keepers sono le prime a schierarsi con i poliziotti quando questi uccidono un nero disarmato, figuriamoci quando uccidono persone di colore come Philando Castile che esercitava il suo diritto di portare un’arma in uno stato in cui tale diritto è riconosciuto. E poi lo sanno tutti che il motto “fatti valere” vale solo per chi ha la pelle chiara.
In America la cultura delle armi, prevedibilmente dato il pregiudizio bianco, è associata a una miriade di retaggi tossici. Alle origini non c’è la lotta armata contro il potere, ma il cosiddetto eccezionalismo americano, il passato colonizzatore, tutto quel pattume messianico scaturito dal Secondo grande risveglio che fa dell’America il saltimbanco della religiosità. Completano il quadro la monnezza dell’“onore” mutuata da scozzesi e irlandesi e l’incredibile violenza insita nella società americana.
E allora che vada pure a dare il culo da lunedì a sabato il movimento del diritto a portare armi. Doppia razione la domenica.
Dato questo sfondo, Setting Sights rappresenta un traguardo incredibile. Come dice l’editore Scott Crow, Setting Sights “parla di persone e comunità che hanno usato armi nella lotta per la liberazione, per la giustizia o per i più elementari diritti.” È un’antologia di commenti sulla questione da parte di gruppi emarginati la cui voce è solitamente ignorata dalla convenzionale cultura americana in fatto di armi. Persone di colore che si oppongono alla violenza poliziesca, donne, lavoratori, transessuali.
Come dice nella premessa Ward Churchill, attivista del Movimento degli Indiani d’America, i “padri fondatori” che scrissero il secondo emendamento, gli schiavisti bianchi, i coloni, tutte figure centrali della cultura delle armi, erano essi stessi il governo tirannico contro cui l’autodifesa armata era, ed è, necessaria. Tutti fino agli attuali talebani alla Cliven Bundy:
Possiamo dire ragionevolmente che essendo la società oggetto di questi principi composta esclusivamente da coloni, ovvero invasori, bianchi, erano loro a rappresentare ovunque e sempre gli aggressori, e dunque non avevano le basi su cui reclamare il diritto all’autodifesa, armata o meno.
Ad ogni modo, erano gli altri, gli indiani cacciati dalle loro terre, gli afroamericani braccati dalle squadracce degli schiavisti o terrorizzati dai paramilitari bianchi durante la segregazione, erano loro ad avere il diritto di difendersi, mentre erano quelli celebrati nella mitologia dei western che meritavano di essere sparati.
Churchill si interroga sul modo in cui la questione dell’autodifesa si ricollega alle varie tattiche usate dagli attuali movimenti giustizialisti. I due temi, l’eredità storica della resistenza armata da parte di gruppi marginali e il loro ruolo nella resistenza all’attuale oppressione strutturale, ricorrono spesso tra le testimonianze raccolte nel libro.
Ma la resistenza armata non è che una faccia della medaglia. L’altra faccia è l’edificazione, hic et nunc, di controistituzioni in grado di crescere e coagularsi in una nuova società proiettata in avanti. La resistenza armata è solo uno strumento che serve a proteggere il nostro diritto di edificare e proteggere le nostre controistituzioni dai tentativi di distruzione da parte dello stato capitalista. Il fine ultimo è questo processo edificatore.
Certo è pur sempre possibile contrastare le pessime condizioni imposte dall’ordine esistente tramite un processo di distacco conscio. (Ri)edificare le comunità asservite con iniziative di base che sfruttino la capacità di accostarsi o realizzare l’autosufficienza sulla base di risorse locali, umane o no. Produzioni alimentari (orti comunitari, anche in aree urbane “difficili” come si fa a Baltimora, per esempio) al fine di migliorare l’alimentazione e ridurre la spesa quotidiana in quei “deserti alimentari” che sono certe aree urbane, vengono portate avanti con successo, con un occhio all’organizzazione, in molte località. E poi il recupero di alloggi inagibili e di servizi pubblici abbandonati, la fornitura di servizi comunitari in ambito sanitario e scolastico con offerte che vanno dal supporto didattico alla scuola vera e propria, la costruzione o l’acquisizione di impianti di energia alternativa come il solare o l’eolico, la rinascita di giardini pubblici e l’apertura di centri ricreativi, la fornitura di servizi per bambini e vecchi, servizi di sicurezza e trasporti locali.
Molte di queste cose sono state realizzate, spesso diffuse, in forma cooperativa, in comunità e tra comunità che hanno programmi simili, favorendo il commercio di beni, alimentari e non, ma anche unendo e condividendo capacità tecniche, esperienza e lavoro. Il modello cooperativistico serve anche per (ri)aprire piccole officine, con ricadute occupazionali in aree in cui la disoccupazione è molto forte, limitando così l’onere del ricorso all’economia monetaria.
L’editore Scott Crow è anche autore di Black Flags and Windmills, che tra l’altro dedica ampio spazio a testimonianze di prima mano che raccontano le tattiche terroristiche usate dalle forze di polizia e dai mercenari aziendali contro la popolazione di New Orleans dopo l’uragano Katrina. In questa antologia, pertanto, l’interesse per tali questioni non è solo accademico.
Questo non è un libro didascalico, non dice come una comunità può difendersi con le armi. Come spiega Crow all’inizio, la difesa armata è forse solo una piccola parte delle tattiche, specie se paragonata alle istituzioni citate da Churchill più su. Quest’antologia non dà un’importanza particolare alla difesa armata, che è considerata al pari di tutte le altre tattiche, ma si limita a citarne qualche esempio preso dal passato.
Nel saggio iniziale, Crow pone l’accento sui due principi anarchici su cui dovrebbe basarsi la difesa armata di una comunità: “le armi non devono mai avere una posizione centrale” e non bisogna mai puntare alla conquista del potere statale.
La prima parte del libro comprende saggi che difendono genericamente il principio dell’autodifesa armata andando a riprendere tesi a favore del diritto di portare armi fatti propri dal bigottume bianco.
La seconda parte contiene una serie di studi che vanno dalle guerre civili russa e spagnola alle azioni sindacali delle aree minerarie fino alle Black Panthers e i movimenti attuali come gli zapatisti, le milizie dei barrios venezuelani e i combattenti curdi a Rojava. E, ovviamente, New Orleans nel 2005.
È un libro che porta avanti un’analisi ponderata e che raccomando. Anche se alcune parti relative alla prima metà del novecento, soprattutto i fatti di Spagna e Russia, appaiono usurate, ritornarci non è male. Altre cose, come la Rivolta dei Redneck, avrebbero meritato più attenzione. Argomenti come la varietà tattica, i pro e contro del pacifismo e la resistenza civile sono oggi un importante argomento di dibattito, e Setting Sights contribuisce egregiamente al discorso.