Di Cory Massimino. Originale pubblicato il 14 novembre 2018 con il titolo The Man Who Changed Superheroes Forever. Traduzione di Enrico Sanna.
Anche se non avete mai letto un fumetto né visto un film di supereroi, Stan Lee ha influenzato la vostra vita. Con il suo modo di raccontare. Il suo rapporto con l’eroismo. La sua morale. Il suo ethos riassunto nel motto “Excelsior!” Dovrebbero riservargli un angolo nel Mount Rushmore della moderna cultura pop. La sua immaginazione pervade l’immaginazione collettiva della moderna umanità. Attraverso le innumerevoli parole e i personaggi a cui ha dato la vita, Stan Lee vivrà più a lungo di quasi tutti noi.
I più giovani conosceranno Stan Lee per la sua indimenticabile collana di cammei, durata diciotto anni, per la Marvel e in particolare la MCU. Purtroppo, e in un certo senso è una cosa poetica, quello che probabilmente sarà l’ultimo cammeo è già stato girato per il prossimo inedito film, l’ultimo di una serie della MCU divisa in tre fasi, e che in undici anni ha prodotto ventidue film. I miei primi ricordi di Stan Lee risalgono ai cartoni animati della Marvel degli anni novanta, “I Fantastici Quattro”, ogni episodio dei quali era introdotto entusiasticamente da lui, e poi “Spiderman”, dove il nostro eroe incontra Stan Lee in carne ed ossa in un finale bidimensionale: parte emotivo e parte autoreferenziale.
La prima generazione di fan della Marvel ricorderanno sicuramente il fumettista degli anni sessanta, con le sue esuberanti introduzioni e i commenti, così come il personaggio pubblico del “portavoce dei supereroi” creato da lui in riunioni e college (contribuendo a salvare un’industria dei fumetti rovinata da cattive pubbliche relazioni e la censura governativa degli anni cinquanta).
Se volete sapere della vita di Stan Lee come autore di fumetti, soprattutto della variegata eredità lasciata ai suoi creativi collaboratori (dopotutto il fumetto è un’arte visiva), consiglio vivamente di leggere gli istruttivi e rispettosi necrologi scritti da Spencer Ackerman e Jeet Heer. Sarebbe ingiusto e antistorico non dire che gli artisti che lavoravano con Lee (particolarmente Jack Kirby e Steve Ditko) hanno lasciato un’impronta altrettanto, se non più, importante nella Marvel, e che ultimamente Lee si limitava ad aggiungere i dialoghi e le idee scritte ai loro disegni e idee visive.
Non credo che si possa separare completamente il contributo dell’artista da quello dello scrittore; credo però che fosse soprattutto l’editor Stan Lee a fare da guida filosofica e psicologica dei fumetti Marvel negli anni sessanta. La sua impronta la vediamo in tutti gli artisti (e prende forma nel pensiero e nelle parole dei personaggi): fu Stan Lee a determinare più di chiunque altro i supereroi.
Non è esagerato dire che il cast della Marvel degli anni sessanta (Spiderman, i Fantastici Quattro, gli X-men, Thor, Ironman, Hulk, la Pantera Nera, Doctor Strange, eccetera) rivoluzionò il genere dei supereroi. Prima, i supereroi erano più paterni, sagome palestrate, senza una vera personalità o individualità. Vice eroi come Robin nacquero per far sì che i giovani si identificassero con qualcuno, mentre Batman era quello che diceva cosa fare, come agire, chi rispettare e quando comprare i titoli di stato.
Nel 1962, Stan Lee e Steve Ditko crearono Spiderman in aperta ribellione al cliché del vice eroe. Ora era il vice a fare il supereroe. I giovani non immaginavano più di combattere a fianco di qualcuno, il supereroe, da cui prendevano gli ordini. Il lettore stesso diventava il supereroe. La lotta del supereroe era la loro lotta. Il suo mondo era il loro mondo. Le sue angosce erano le angosce dei lettori. Lee voleva che Spiderman fosse prima un adolescente e poi un supereroe. E anche i Fantastici Quattro erano prima di tutto una famiglia e poi una squadra di supereroi (pardon, Guardiani della Galassia). E Hulk era prima di tutto un tizio con problemi di temperamento, e supereroe… quasi mai.
Sovvertendo le aspettative di genere impostate nell’età d’oro dei loro predecessori, Lee, Ditko, Kirby e gli altri dell’età d’argento portarono i supereroi sulla terra. Ne fecero persone qualunque, vulnerabili, in carne ed ossa, persone con cui identificarsi e da cui apprendere, ma non prendendo ordini, bensì condividendo le esperienze, usando l’empatia, la catarsi emotiva. Da megafoni bidimensionali al servizio dell’autorità, i supereroi furono trasformati in bizzarri, giovani, emarginati personaggi in tre dimensioni. Da fredde, evasive, volte unicamente al soddisfacimento dei desideri, le storie passarono a rappresentare il mondo reale con le sue lotte e le sue sconfitte.
Aristotele aveva sostanzialmente ragione quando diceva che l’arte può ampliare la nostra comprensione e riflettersi sulla nostra vita. Evadendo le prospettive quotidiane, vedendo il mondo attraverso gli occhi dei personaggi, possiamo scoprire cose che appartengono al mondo e a noi stessi. Aristotele pone l’insegnamento morale al centro della sua etica, ed è per questo che nella Poetica rimarca l’importanza della tragedia. In quanto creatura dell’immaginazione e del quotidiano, l’arte può influenzare il nostro comportamento nel bene e nel male. Attraverso l’arte tragica conosciamo ciò che sta al centro della condizione umana: la perseveranza, la sconfitta, il trionfo, la tolleranza, il potere, la responsabilità. Insegnare usando il fumetto e il genere supereroico è una delle innovazioni esteticamente più importanti e influenti degli ultimi cento anni.
Se i fumettisti degli anni trenta e quaranta appaiono in sintonia con i concetti esposti nella Repubblica di Platone, producendo un’arte intellettualmente impotente e moralmente piatta, Stan Lee era aristotelico. Ciò che appare scontato oggi, soprattutto dopo il boom del genere con l’erculeo Superman infuso di mitologia greco-romana, allora era rivoluzionario. Applicando l’antica visione aristotelica al genere dei supereroi, Stan Lee ha cambiato il mondo. Ora i giovani potevano apprendere concetti profondi dai loro eroi, rapportarsi con loro. Con questa svolta aristotelica, i supereroi salirono di grado nella cultura popolare americana. Da fumettistica inferiore assursero, con lenta determinazione, al rango di folklore moderno.
L’arte condivisa può far capire come un popolo vede gli eventi che lo influenzano, come reagisce ai traumi collettivi e come, si spera, opera la sua catarsi collettiva. Durante la cosiddetta “età d’oro di Hollywood”, che non a caso coincide con la grande depressione e la seconda guerra mondiale, l’individuo cerca consolazione in film d’evasione, perlopiù d’avventura, sentimentali, commedie, cartoni e film propagandistici di guerra popolati da eroi gonfiati come Robin Hood e Rick Blain. Ai tempi della controcultura e dei movimenti per i diritti civili degli anni sessanta e settanta, lo stile di questa “nuova Hollywood” cambia per adeguarsi alle necessità di una diversa catarsi collettiva. Il pubblico voleva vedere violenza realistica, sesso puro, criminalità cruda, e la brutalità della guerra in film con personaggi reali e riconoscibili come Bonnie e Clyde, o come Wyatt e Billy, i motociclisti fatti e cinici di Easy Rider.
Come l’età d’oro di Hollywood, anche l’età d’oro del fumetto, con i suoi Superman, Batman, Wonder Woman e Capitan America, abbandona il vecchio pubblico alle sue storie a lieto fine. Se Rick Blaine, arruolandosi, diventa il grande eroe di guerra, Capitan America è il grande supereroe di guerra, quello che realizza il sogno di stendere Hitler con un pugno. Storicamente destinato ai giovani, il fumetto degli anni sessanta evitò la grossolanità oscura del cinema contemporaneo. Come gli spettatori, però, anche i fumettari dell’epoca della controcultura e dei diritti civili chiedevano eroi più realistici e storie con più sostanza. Stan Lee lo capiva e per questo portò nell’Universo Marvel l’equilibrio perfetto tra morale e evasione, messaggio e storia, filosofia e leggenda.
Lee, Kirby, Ditko e compagnia vedevano negli elementi fantastici e fantascientifici del genere supereroico un mezzo per esplorare questioni più profonde servendosi del simbolismo, il sottinteso e il melodramma. I mutanti erano vittime del bigottismo e gli X-men lottavano contro la Fratellanza dei Mutanti su questioni ideologiche riguardo la giustificazione della violenza nella lotta all’oppressione. I poteri dei Fantastici Quattro erano metafore della loro personalità e delle loro lotte interiori (il lavoro allungava Reed, Sue si sentiva invisibile, Johnny era una testa calda e Ben si sentiva un mostro). Hulk esprimeva un aspetto della personalità di Bruce Banner che lui non riusciva a tenere sotto controllo e che si alimentava dalla sua rabbia. Capitan America, che ai tempi della sua creazione negli anni quaranta era un eroe propagandistico alla Rick Blaine, fu rivalutato come “uomo fuori dal tempo”, perdendo il patriottismo. I lettori della Marvel volevano personaggi reali e vicende di vita.
Penso che le differenze generali, in termini di tono e stile, tra i supereroi della prima fase e quelli della successiva spieghino in parte perché la Marvel Cinematic Universe abbia sempre avuto più successo della DC Extended Universe. Mentre l’influenza della Marvel durante l’età d’argento a tempo dovuto si estese a tutto il genere, i principali personaggi della DC, come Superman, Batman, Green Lantern, Flash, Aquaman e Wonder Woman, si portavano ancora appresso il bagaglio stilistico e tonale dell’età d’oro, fatto di mondi e personalità distanti, inconfutabili, quasi divine. Sì, pesano anche le scelte dei produttori cinematografici. Ma certi personaggi tendono spontaneamente verso storie e nuances di un certo genere.
La MCU ha dato vita ad un mondo familiare fatto di personaggi che restano umani, con tutte le pesanti passioni ed emozioni scaturite dalla matita di Kirby e Ditko, e con quei dialoghi significativi e familiari frutto della penna di Stan Lee. Non è un caso se tra gli aspetti più apprezzati della MCU c’è la scelta del cast (che supplisce ai difetti dei film, almeno a giudicare dagli incassi). Ciò che più meraviglia e dà soddisfazione è il fatto di tradurre sul grande schermo quegli stessi personaggi.
Non sorprende che, quando Hollywood decise di combinare grafica computerizzata e proprietà intellettuale fortemente di marca, fu la Marvel degli anni sessanta a fornire un’anima ai più importanti film di sempre, diventando una sorta di mito secolare americano post-undici settembre. I personaggi di Stan hanno molto da insegnare in fatto di speranza dopo la tragedia e di forza davanti alla crisi. Ma hanno molto da insegnare anche in fatto di potere e responsabilità in un momento in cui continua la più lunga guerra della nostra storia. Possono parlarci di semplicità e riservatezza in un momento in cui le nostre libertà civili finiscono nell’immondezzaio, e di amore e accoglienza mentre gli immigrati sono usati come capri espiatori.
Non so immaginare quanto sarebbe desolante la moderna cultura popolare senza l’influenza di Stan Lee e la salda fiducia dei suoi giovani lettori, senza la sua fede nel potere catartico e educativo dei fumetti, senza il suo credo appassionato nel potere morale dei supereroi, i suoi insegnamenti sulla doppia natura del potere e della responsabilità, e le sue innumerevoli storie in cui l’amore trionfa sull’odio. Il nostro mondo è un prodotto dell’arte e l’arte è un prodotto del nostro mondo. Io devo molto del mio mondo a Stan Lee. L’uomo che ha cambiato i supereroi per sempre ha cambiato anche gli uomini.