Di James C. Wilson. Originale pubblicato il 3 agosto 2017 con il titolo The New Jim Crow. Traduzione di Enrico Sanna.
Recensione di: Alexander, Michelle. The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness. 2010. The New Press.
Il libro di Michelle Alexander del 2010, The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, spiega come l’incarcerazione di massa e relative politiche abbiano creato sulla pelle dei neri americani un sistema di caste, che ha il parallelo nelle leggi Jim Crow (le leggi segregazioniste di molti stati del sud, ndt) in vigore dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento. La Alexander, avvocato civilista, è ultimamente balzata alla ribalta per aver criticato pubblicamente Hillary Clinton, che, assieme al marito, ha approvato politiche che, dice la Alexander, hanno decimato l’America nera.
Queste critiche riecheggiano quelle contro l’amministrazione Clinton contenute nel libro The New Jim Crow. L’inasprimento della lotta alla droga voluta da Clinton, le sue responsabilità nella più grande crescita della popolazione carceraria federale e statale della storia americana, sono oggetto di analisi attenta. Il Bill Clinton ritratto dalla Alexander allarga la guerra alla droga e le politiche “dure col crimine” dei predecessori Reagan e Bush. Ma più di questi ultimi, sostiene l’autrice, Clinton ha contribuito a creare una classe razziale inferiore.
Questo riflette un tema ricorrente del libro: nei decenni successivi all’abolizione delle leggi Jim Crow, la politica è ricorsa a parole d’ordine come “legalità e ordine”, e a draconiane politiche antidroga, per attirare gli elettori bianchi delusi. Due esempi: La “Strategia del Sud” di Richard Nixon e lo sfruttamento politico del caso di Willie Horton da parte di George H.W. Bush nel 1988. I politici del sud, dice la Alexander, vedono nel movimento per i diritti civili una rottura del principio di legalità e ordine, e nelle leggi che seguirono un premio all’illegalità.
La Alexander insiste molto sul ruolo dei politici conservatori repubblicani, dopo l’epoca dei diritti civili, tanto che rischia di oscurare il ruolo dei progressisti nella proibizione delle droghe nel ventesimo secolo. Cita John Erlichman, consigliere di Nixon, che diceva “Cerchiamo il voto dei razzisti” e “nei discorsi e nelle dichiarazioni di Nixon era sempre presente un richiamo subliminale al voto contro i neri.”
La Alexander nota varie somiglianze tra il segregazionismo classico e il trattamento dei neri dentro e fuori dal sistema carcerario. Ci sono discriminazioni legalizzate contro chi cerca un lavoro o una casa, soprattutto quando si porta il marchio di pregiudicato per fatti di droga. In molti stati i pregiudicati non possono votare; in altri devono pagare un tanto o una multa, una sorta di ritorno alla tassa sul voto. Secondo la Alexander, questo ha influito sulle elezioni presidenziali degli ultimi decenni.
E non solo i pregiudicati non possono fare i giurati, ma il pubblico ministero ha un potere enorme sulla composizione della giuria e può cancellare chi ha simpatie per la difesa con atto perentorio e per ragioni risibili. Combinate, queste pratiche fanno sì che i neri siano giudicati da una giuria di bianchi. Il fatto che, rispetto ai bianchi, proporzionalmente meno neri abbiano la patente e si registrino nelle liste elettorali, contribuisce ad assottigliare il numero di potenziali giurati.
Alcuni giudizi della corte suprema, poi, come McClesky v. Kemp, sebbene dimostrino l’influenza razziale nel sistema giudiziario, non riescono a rovesciare le sentenze di morte, rendendo impossibile la sfida legale al sistema. Una sfida resa ancora più difficile, in generale, perché a fare ricorso dovrebbero essere quasi sempre gli stessi pregiudicati, che non attirano le simpatie del pubblico. E una volta scontata la condanna, è improbabile che un innocente faccia ricorso per i maltrattamenti ricevuti.
Fa pensare il fatto che quando è stato scritto questo libro c’erano più neri in stato di arresto di quanti fossero in schiavitù nel 1850. E nessun discorso sulla disintegrazione della famiglia dei neri (oggi argomento diffuso a destra) è completo se non si riconosce il ruolo del carcere nel privare degli uomini le comunità nere, dove le donne sono il 26% più degli uomini.
Il lettore libertario apprezzerà sicuramente l’accento che la Alexander pone sulla guerra alla droga, che riguarda più la razza che gli stupefacenti. Apprezzerà meno il fatto che sostenga “cure disintossicanti su richiesta per tutti” (a spese pubbliche, si immagina). Nonostante l’uso della droga sia simile, i neri, dice, finiscono in galera per droga venti volte più dei bianchi.
Quando Reagan aprì una nuova crociata, dice la Alexander, gli americani non consideravano la droga una priorità. Fu una massiccia campagna dei media a convincerli dell’importanza del problema. E questo, nota l’autrice, avvenne prima che il crack diventasse “epidemico”, gettando benzina sul fuoco propagandistico.
E il governo federale, nota l’autrice, ha dato soldi agli stati affinché conducessero la loro lotta alla droga, premiando dipartimenti di polizia con equipaggiamenti militari e fondi. Una normale infrazione stradale diventa un pretesto per fare una perquisizione, a cui molti acconsentono senza sapere che legalmente possono opporsi. La polizia è incoraggiata a perquisire minuziosamente sia i veicoli per strada che le persone nei mezzi pubblici, e le vittime più probabili sono i neri e i latinoamericani.
Questo approccio all’ingrosso è generalmente premiato dal sistema giudiziario. I relativamente pochi colpevoli, sbattuti in prima pagina, danno l’impressione che la polizia abbia ragione più spesso di quanto non accada. In realtà, le perquisizioni danno esito negativo nel 99% dei casi.
Purtroppo la Alexander non dedica abbastanza spazio a sostenere e analizzare le possibilità di un mondo post-proibizionismo. Solo verso la fine rivela la sua posizione, quando scrive “la marijuana dovrebbe essere legalizzata (e così forse anche altre droghe).” Pone l’accento sul danno causato dalle condanne minime obbligatorie e dalla tendenza a patteggiare per evitare accuse più pesanti, così che molti ammettono crimini che non hanno commesso.
La Alexander è stata criticata per aver enfatizzato troppo il ruolo della politica antidroga nell’incremento della popolazione carceraria. John Pfaff, della Fordham University, ad esempio, nel 2012 dimostrò come i detenuti il cui reato principale era l’uso della droga fossero in realtà meno del 20%, insufficienti a spiegare il fenomeno.
Il Brookings Institute notò per contro come Pfaff ignorasse la questione dei flussi in ingresso e in uscita dal carcere. Le persone condannate per crimini violenti stanno più a lungo in carcere e pertanto tendono ad accumulare anni. Condanne più lunghe significa più criminali violenti in carcere in un dato momento, ma sono le brevi e frequenti condanne per droga ad essere diventata “nei recenti decenni, la ragione predominante per cui si entra in un carcere statale o federale,” sostiene il Brookings. Dal 2000, i condannati per droga sono più dei condannati per crimini violenti e contro la proprietà messi assieme.
Tutto ciò è molto importante ai fini della tesi della Alexander, che enfatizza il modo in cui la fedina penale rovina le prospettive di una vita dopo il carcere. Prendiamo il caso della libertà condizionale e della libertà vigilata. Imporre di stare lontano da un pregiudicato, ad esempio, è pressoché impossibile in certi quartieri, dove è impossibile entrare in un negozio senza trovarne uno.
Questo non significa che la Alexander non fa bene a porre l’accento su chi è condannato per crimini violenti o contro la proprietà e le conseguenti condanne pesanti. In alcuni casi, le condanne per droga sono il risultato di un patteggiamento fatto per evitare accuse di crimini maggiori. La Alexander potrebbe usare l’argomento per spiegare come il proibizionismo renda più probabili crimini violenti e contro la proprietà. L’eliminazione del proibizionismo spesso attira come soluzione facile, ma è solo un passo verso lo smantellamento dello stato carcerario.
La Alexander è stata anche criticata, forse giustamente, per aver enfatizzato il ruolo dei politici conservatori e dei loro sostenitori nello sviluppo dell’attuale sistema, ignorando al contempo il ruolo dei politici “progressisti” e il sostegno degli abitanti delle comunità interessate.
Detto ciò, è però chiarissimo che Bill Clinton contribuì ampiamente a riempire le carceri (anche se l’autrice tende a considerarlo un continuatore della politica dei suoi predecessori conservatori). Critiche anche per Barack Obama, che mise in posti chiave proibizionisti feroci come Joe Biden, Rahm Emanuel e Eric Holder.
Il libro parla anche delle politiche del tipo “tolleranza zero”, e cita sondaggi che dimostrano come ad appoggiarle siano proporzionalmente più i bianchi dei neri, che pure sono le vittime più probabili. E parla anche di un doppio inganno dei neri, che nei loro quartieri devono subire tanto il crimine quanto i problemi creati dallo stato nel tentativo di controllare il crimine stesso.
Con The New Jim Crow, Michelle Alexander analizza a fondo i problemi generati dall’incarcerazione di massa e, specificamente, dalla lotta alla droga. Alcuni concorderanno, e altri meno, con la sua tesi centrale: che il carcere facile è una continuazione della segregazione, ovvero un “sistema di caste razziali”. Le relazioni tra carcere di massa, lavori forzati e segregazione razziale sono storicamente complesse, e ci sono precedenti risalenti a prima delle leggi Jim Crow, sia al nord che al sud. Detto ciò, il libro resta un buon punto di partenza per chi vuole studiare il problema del carcere di massa negli Stati Uniti, e in particolare per chi è interessato all’analisi della lotta alla droga.