[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 9 marzo 2017 con il titolo Time tu Use Uber’s Weapons — Against Uber. Traduzione di Enrico Sanna.]
Uber, la controversa azienda corporativa mascherata da servizio di “ride-sharing”, ha recentemente provocato nuove polemiche rivelando alcuni aspetti di Greyball, il programma che permette di aggirare le normative locali che proteggono i monopoli dei taxi. Greyball tiene un database costantemente aggiornato di quelli che appaiono come rappresentanti governativi. Nel database finiscono i dati di utenti che aprono e chiudono frequentemente l’applicazione di Uber in prossimità di edifici governativi, si servono di carte di credito istituzionali, o usano cellulari economici spesso acquistati in grandi quantità da enti governativi. Dopo aver determinato quali tra questi utenti sono governativi, Greyball manda loro una versione finta dell’applicazione con finti tassisti.
Fin qui tutto bene. È positivo che si cerchi di aggirare il monopolio locale dei taxi, che serve a soffocare la concorrenza e garantire un profitto monopolistico alle ditte che possiedono le licenze. Da anni le licenze dei taxi sono usate per impedire che le persone normali utilizzino le proprie auto nei tempi morti, così da poter offrire un servizio di trasporto e guadagnare un po’ di soldi. Se non ci fosse l’effetto negativo delle licenze, questa attività avrebbe un livello di rischio basso, e per mantenere un’attività in proprio basterebbero poche spese. Ma poiché l’offerta di servizi di trasporto è limitata alle compagnie di taxi autorizzate, l’unico modo per guadagnare legalmente trasportando persone consiste nel farsi assumere come dipendente salariato da un’azienda capitalista ai termini definiti dall’azienda stessa.
Il problema è che Uber è semplicemente un’altra azienda, come le altre. È un altro monopolio e come tale dev’essere aggirato. Uber usa le leggi sulla “proprietà intellettuale” per mantenere il possesso esclusivo della sua applicazione, trattare i tassisti come dipendenti di fatto e fare un’abbondante cresta ai loro guadagni.
A questo punto, tassisti e passeggeri dovrebbero trovare un’alternativa all’applicazione di Uber e creare un servizio di ride-sharing reale, ovvero open-source, da pari a pari e cooperativo, che stia interamente nelle loro mani e i cui guadagni possano andare interamente nelle loro tasche. Idealmente, un servizio del genere dovrebbe avere la possibilità di interagire con Uber e piratare il suo database di passeggeri e tassisti. Ironicamente, è stata proprio Uber a suggerire, senza volerlo, come aggirare il suo stesso monopolio.
Una versione piratata e open-source di Uber, posseduta e controllata dagli stessi utenti, potrebbe usare una sorta di Greyball per aggirare i monopoli locali dei taxi, né più né meno come fa Uber. Potrebbe anche aggirare Uber stessa nel suo tentativo di imporre i diritti esclusivi di possesso della sua piattaforma proprietaria.
Certo è vero che il sistema tradizionale delle licenze e la piattaforma di Uber sono in concorrenza tra loro, ma entrambe non sono altro che due versioni della stessa cosa: l’utilizzo del potere dello stato per limitare la concorrenza, garantire i profitti ed obbligare le persone a lavorare per le aziende capitaliste piuttosto che per se stesse. Dunque sarebbe bene seguire l’esempio di Uber e usare il software libero per distruggere non solo gli antiquati monopoli pubblici, ma anche il monopolio di Uber.