Di David S. D’Amato. Originale pubblicato il 15 febbraio 2022 con il titolo Cheap Food Comes with a Big Price. Traduzione di Enrico Sanna.
Cosa pensare di quei sedicenti “free-marketer” che vedono nel capitalismo globale una realizzazione dei loro valori? Visto il ruolo ingombrante e determinante della violenza di stato nella nascita del capitalismo globale, o si tratta di persone ignare dei fatti, e quindi farebbero meglio a tacere, oppure sono deliberatamente disonesti. Io propendo per la seconda ipotesi. Sul sito Econlib, di Liberty Fund, Pierre Desroches deplora “la crescente popolarità del movimento a favore dei prodotti alimentari locali”, che, dice, “è sostanzialmente una distruzione di ricchezza”. E poi:
Quei fautori di un sistema alimentare alternativo, che pensano che l’agroindustria non è più sostenibile, e che dicono che dovremmo cambiare radicalmente le nostre azioni, dovrebbero chiedersi: ma allora a cosa serve lo sforzo di così tante persone che lottano per sviluppare le catene alimentari globalizzate?
A certe condizioni, il ragionamento è plausibile: non ha senso coltivare, ad esempio, ananas in Nord Dakota, perché sarebbe enormemente inefficiente, richiederebbe troppa energia e danneggerebbe l’ambiente. Desroches però non tenta neanche di spiegare perché prodotti alimentari provenienti da migliaia di chilometri di distanza costano meno di quelli dell’azienda biodiversa locale. I fautori dell’agroindustria globale, con la corruzione mirata al furto di terra, le monocolture rigide e la distruzione di preziosi ecosistemi; con la criminalizzazione delle pratiche tradizionali fuori dai mercati aziendali globali; con il “furto delle conoscenze e delle biodiversità dei poveri”; con i suoi squadroni della morte che attaccano le popolazioni tribali, i contadini e la natura; dato tutto questo, dovrebbero chiedersi perché così tante persone lottano duramente, ancora oggi, contro un sistema neocoloniale cinicamente definito “libero mercato”, imposto e tenuto in piedi grazie all’appropriazione fisica di terre produttive, e all’appropriazione delle idee trasformate in proprietà intellettuale privata delle ricche aziende occidentali. Troppi “liberomercatisti” continuano a dire che la soluzione di tutti i problemi sta nell’economia; non nella sociologia, la politica o la storiografia. Ripetono continuamente espressioni come “specializzazione”, “vantaggio comparato” e “libero mercato” come se secoli di capitalismo, globale e non, fossero semplici pacifici fenomeni libertari. La situazione richiederebbe una diversa storia del capitalismo globale, una storia che condanni il capitalismo globale proprio perché rappresenta il culmine di generazioni di crimini contro la libertà individuale e il libero mercato. Nel mondo reale, a rendere l’olio di palma così a buon prezzo, ad esempio, sono gli incentivi concessi, per un ammontare di centinaia di miliardi, alle grandi industrie, danneggiando irreparabilmente persone e luoghi, alcuni dei quali rappresentano gli ecosistemi più complessi dell’unico pianeta che abbiamo.
Come dicono Pádraig Carmody e David Taylor a proposito del furto delle terre nel contesto africano, “In realtà l’accapparramento terriero rappresenta una riedizione approfondita delle disuguaglianze di potere sociospaziale proprie di epoche precedenti.” Il violento esproprio, con il sostegno dello stato, delle popolazioni del sud del mondo è una delle caratteristiche più peculiari dei processi associate alla globalizzazione capitalista. Fingere di non vederlo, fingere che i nostri alimenti costino poco grazie all’istituzione liberale del libero commercio è ridicolo. Ma, cosa importante, riconoscere questi fatti non significa “negare il vantaggio comparato” in principio, bensì affermare gli ideali libertari e riconoscere ciò che abbiamo di fronte. I sostenitori dei meccanismi di mercato e dei sani principi economici dovrebbero andare oltre la pura ripetizione del dogma secondo cui gli alimentari prodotti localmente sono più cari, senza chiedersi perché o senza tener conto di come viene violentato il libero mercato che sta alla base di questi prezzi bassi. I prezzi riflettono davvero le condizioni economiche? Oppure sono il risultato di un processo che incentiva l’agroindustria e priva i popoli colonizzati di ciò che è loro. Dire banalmente che far venire generi alimentari da lontano è meno costoso di per sé, in quanto inevitabile effetto della divisione del lavoro e del commercio, è il colmo della credulità. A voler credere che le persone formino le proprie opinioni onestamente e le promuovano in buona fede, dobbiamo concludere che tratto comune di chi confonde il capitalismo con la semplice libertà di scambio è una certa ingenuità.
Ammetto che per un occidentale bianco relativamente ricco sentir contestare l’opinione convenzionale è offensivo. Ma è anche doveroso ricordare a chi fa l’apologia del capitalismo che i sostenitori di un sistema alimentare locale, socialmente e ecologicamente sostenibile, non monopolizzato dai poteri aziendali collusi, sono decenni che meditano sulle catene alimentari globali. Gli economisti conoscono l’economia, ma spesso chiudono gli occhi davanti alla storia e la politica liquidandole come fattori distorsivi della legge della domanda e dell’offerta. Nessuna novità, ovviamente. Particolarmente perspicace, in questo contesto, Joshua King Ingalls, riformatore fondiario e libertario statunitense:
Non possiamo non riconoscere quanto siano appropriate le lezioni di laissez-faire di quei docenti e studiosi che provengono da istituzioni mantenute con pratiche che sono il diretto opposto. Nessuna meraviglia se queste istituzioni non invitano a investigare sulle questioni di politica industriale.
Se facciamo un’indagine onesta dei prezzi di ciò che mangiamo, noi del ricco Occidente non possiamo non sentire l’obbligo morale, sociale e politico di rendere la terra ai suoi legittimi proprietari: a chi l’ha lavorata per millenni prima che i colonizzatori gliela rubassero. Oltre vent’anni fa, nota Vandana Shiva, mentre un’alleanza tra stato e poteri aziendali poneva le basi del sistema socialmente e ambientalmente distruttivo che oggi governa il mondo, i nostri obblighi reciproci sono stati ridefiniti un crimine. La globalizzazione non solo si basa sulla chiara violazione di consolidati principi libertari, ma ha anche prodotto proprio quel genere di sistema autoritario che i libertari dicono di aborrire, un sistema che David Graeber definisce “burocratizzazione totale”. Molto accortamente Graeber definisce il capitalismo globale “la fusione graduale del potere statale e di quello privato in un’entità singola irta di regole e regolamenti, al solo scopo di estrarre ricchezza sotto forma di profitti.”
In alcuni tra i paesi più poveri e affamati del mondo, governi e aziende potenti collaborano da decenni per istituire mega aziende agricole i cui prodotti finiscono sulle tavole di altri paesi. Niente da obiettare se avvenisse in un legittimo libero mercato. Nell’attuale sistema violento, invece, dove le popolazioni indigene sono criminalizzate e tagliate fuori dai processi decisionali, il basso prezzo dei prodotti alimentari nasconde un prezzo reale molto più alto. Dunque i libertari devono essere necessariamente localisti sostenitori del ritorno alla terra? Non so. So però che l’attuale sistema alimentare globale deriva, più che dal vantaggio comparato, dal furto ai danni dei più deboli.